Quei liberali contro la Chiesa di Angela Pellicciari
Chiesa cattolica e unità nazionale
Da alcuni anni (in concomitanza non casuale con la caduta del muro di Berlino, seguita, in Italia, dal repentino disfacimento delle strutture politico-istituzionali della prima repubblica) assistiamo ad una insistente campagna di denuncia della vistosa anomalia italiana: una incurabile mancanza di senso dello stato unita ad una labile identità nazionale.
Due facce della stessa medaglia. Dal momento che la capillare presenza della Chiesa cattolica è l’elemento che da quasi duemila anni caratterizza la storia della penisola, è facile stabilire una correlazione fra i due tipi di realtà: Chiesa cattolica da un lato, difetto di identità e di senso dello stato dall’altro. Quando la Chiesa entrò in conflitto con l’unità nazionale? Non resta che guardare ai fatti. Il 9 ottobre 1860 Vittorio Emanuele II indirizza il seguente proclama ai Popoli dell’Italia meridionale (curiosa coincidenza: anche Bossi si rivolge ai ” popoli” della Padania, come se fossero molteplici): “Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell’Umbria disperdendo quell’accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che colà si era raccolta;… non permetterò mai che l’Italia diventi il nido di sette cosmopolite che vi si raccolgano a tramare i disegni o della reazione, o della demagogia universale”. Tutti, o quasi tutti gli abitanti dello Stato della Chiesa sono cattolici (per sincerarsene basta guardare alle caratteristiche di città, cittadine, paesi, casolari sparsi ovunque per l’Italia centrale pieni di chiese, edicole, immagini sacre, conventi e romitori, croci). Eppure il Re costituzionale che ascolta il “grido di dolore” che si leva dalle provincie dello Stato della Chiesa, assicura la popolazione che la libererà dall’influenza delle “sette cosmopolite”, vale a dire dai giovani cattolici che da tutto il mondo sono accorsi in difesa dello Stato pontificio. In parole povere il re assicura la popolazione che la libererà dalla Chiesa cattolica e dalla sua “universale demagogia”. Vittorio Emanuele può sostenere di impadronirsi “democraticamente” del più antico Stato dell’occidente (unico stato al mondo frutto di donazioni e quindi non conquistato con la forza) perché il Regno di Sardegna sotto l’accorta regia di Cavour paga “due lire al giorno” contadini e fuoriusciti “pel mestiere di precedere l’esercito” allestendo la pantomima di “popoli insorgenti nel dramma da rappresentarsi” (così racconta la Civiltà Cattolica): la parvenza della popolarità della conquista è la patente di buona condotta che gli stati stranieri pretendono per appoggiare l’annessione sabauda dell’Italia centrale. 150 milioni: se il conte di Cavour non sottostima l’impresa, a tanto ammonta il prezzo della liberazione delle Marche e dell’Umbria “dal ferreo giogo di mercenari stranieri”.
A unità d’Italia realizzata, i plebisciti sanciscono la legittimità dell’accaduto, sempre in nome della volontà popolare. L’organizzazione del suffragio universale ha modalità diverse a seconda della personalità dei ‘dittatori’ preposti alla reggenza in nome di Vittorio Emanuele. La fantasia toscana organizza una propaganda capillare grazie alla quale “le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’annessione. Chiedevano i campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sapere che cosa contenesse”. La concretezza emiliana si limita ad andare nelle parrocchie e “farsi dare i registri”. Con questo sistema “in alcuni collegi lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori iscritti” (così racconta il prefetto di polizia Carletti, stretto collaboratore di Cavour, D’Azeglio e Farini, che parla con cognizione di causa “poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione”). L’esercito che in nome del re e della libertà realizza l’unità, è comandato da generali che rivolgono proclami violentemente anticristiani alla popolazione, tutta cattolica. Ecco il proclama fatto diffondere dal generale Pinelli il 3 febbraio 1861, durante la conquista dello Stato della Chiesa: “Un branco di quella progenie di ladroni ancor s’annida fra i monti; correte a snidarlo e siate inesorabili come il destino… sono i prezzolati scherani del Vicario non di Cristo, ma di Satana”; “noi li annienteremo, schiacceremo il sacerdotale vampiro, che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue della Madre nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda sua bava, e da quella cenere sorgerà più rigogliosa la libertà anche per la nobile provincia Ascolana”. Facile capire lo stato d’animo di Pio IX quando, nel 1861, scrive la lettera Iandudum cernimus: non si vuole solo sottrarre “a questa Santa Sede e al suo Romano Pontefice il suo legittimo potere temporale”, si persegue piuttosto, “se mai fosse possibile, la completa eliminazione del potere di salvezza della religione cattolica”.
Sembra non si possa parlare di ‘Chiesa contro il Risorgimento’, quanto di ‘Risorgimento contro la Chiesa’. I fatti citati risalgono però al 1860-61: potrebbe darsi che Pio IX e la Chiesa abbiano talmente angustiato l’animo del re galantuomo negli anni precedenti (dal 1848 in poi) da indurlo all’esasperazione giustificandone la reazione violenta. Vediamo allora cosa succede nel 1848. Nel 1848 il Regno sardo adotta lo Statuto e diventa Stato costituzionale. Il primo articolo dello Statuto riguarda la Chiesa cattolica e stabilisce che “La religione cattolica apostolica romana è l’unica religione di Stato”. In modo tutt’altro che costituzionale però i rappresentanti dell’1,70% della popolazione che ha diritto di voto deliberano la soppressione della Compagnia di Gesù, l’esproprio di tutti i suoi beni (compresi libri, arredi sacri e quadri) e decretano il domicilio coatto ai padri per impedire che con la loro libera circolazione “appestino” (questo il linguaggio usato) i liberi cittadini piemontesi. Il bando della Compagnia è esteso ad altri ordini definiti ‘gesuitanti’, colpevoli di collusione con l’ordine condannato. Contemporaneamente a Roma il triumvirato capitanato da Mazzini pone fine al potere temporale dei papi nell’interesse, così sostiene, della stessa Chiesa che privata del potere, diventerà più libera e più pura. Da Gaeta il papa descrive una situazione radicalmente diversa: è impedita al pontefice ogni tipo di comunicazione col clero, coi vescovi, con i fedeli; Roma si riempie di uomini (apostati, eretici, comunisti e socialisti come si definiscono) provenienti da tutto il mondo, pieni di odio nei confronti della Chiesa; i ‘liberali’ si impossessano di tutti i beni, redditi e possedimenti ecclesiastici; le chiese sono spogliate dei loro ornamenti; gli edifici religiosi dedicati ad altri usi; i religiosi assaliti, imprigionati ed uccisi; i pastori separati dal proprio gregge ed incarcerati. Nel 1855 il Regno di Sardegna torna da occuparsi di quanti hanno dedicato la propria vita a Dio e decreta la soppressione degli ordini contemplativi e mendicanti (francescani e domenicani) con la motivazione che sono ‘inutili’ (questa la legale opinione del guardasigilli Rattazzi).
L’Italia è fatta, si tratta di fare gli italiani: l’incisivo motto di Massimo D’Azeglio rende bene l’obiettivo politico perseguito dai liberali durante il Risorgimento. L’1% degli italiani, giudicando che quella esistente non andasse bene, ha pensato di imporre con la forza alla stragrande maggioranza della popolazione, tutta cattolica, una nuova identità nazionale, omologata a quella delle nazioni riformate e massoniche che dominavano il mondo, definite ‘civili’. Così facendo l’élite liberale ha agito sotto l’impulso di un profondo disprezzo per la storia e la cultura dell’Italia cattolica, denigrate prendendo a prestito le parole d’ordine della propaganda protestante. E dire che i frutti dell’Italia cattolica ci permetterebbero di vivere tranquilli se solo decidessimo di mettere davvero a frutto il patrimonio artistico nazionale collezionato in quasi due millenni di cattolicesimo: patrimonio assolutamente unico al mondo, che evidentemente non è frutto del caso. Poteva non dico il clero, poteva il popolo cristiano approvare un comportamento così violentemente anticattolico? Non poteva. Le cose stavano così dall’inizio? I cattolici erano fin dall’inizio ostili al processo di unificazione nazionale? A tener conto dei fatti non sembrerebbe. Giovanni Cavellera, prete rivoluzionario, deputato al parlamento subalpino, nel 1848 afferma davanti ai colleghi, senza che nessuno lo smentisca: “Signori, allorquando cominciò l’attuale movimento civile d’Italia, i nove decimi del clero non solo non gli contrastavano ma gli fecero plauso di tutto cuore, e lo favorirono, se non sempre coll’opera, almeno coi voti. Or, perché in alcuni si raffreddò l’entusiasmo che dapprima erasi suscitato? Egli avvenne appunto perché temettero che il nostro movimento civile potesse dare nel materiale, nell’anarchico, nel demagogico”. Qualche anno più tardi, nel 1855, è Ottavio Thaon di Revel, uno dei protagonisti della vita pubblica piemontese, ad esprimersi negli stessi termini: “vennero le riforme; uno slancio generale di libertà, di indipendenza, di italianità, invase pressoché tutti gli animi; ed in ciò voi siete testimoni come il clero stesso parteggiasse allora per queste idee”. Lo stesso Jemolo (sempre pronto a giustificare le posizioni liberali), mentre nega che ci si possa riferire al Risorgimento come ad un movimento ‘religioso’, sostiene: “ma non c’è qualcosa di schiettamente religioso… nel Risorgimento? Direi di sì. Direi l’origine, il 1846-47. In questa origine, ed ancora poco appresso, nella leggenda del ‘Dio lo vuole’, Pio IX appare davvero infungibile. Nessun principe italiano potrebbe sostituirlo. Il ’48 sorge e si afferma così, grande passione popolare, perché è un Papa che se ne fa garante”. La nazione italiana ha un’identità debole ed un ancor più fragile senso dello stato? Bisogna chiederne conto all’élite liberale e massonica che ha realizzato l’unificazione politica della penisola contro la Chiesa e, quindi, contro la stragrande maggioranza della popolazione. Ciononostante, si continua ad addebitare alla Chiesa la fallimentare riuscita dell’illuminato progetto liberale. L’8 dicembre del 1892, Leone XIII indirizza al popolo italiano la lettera Custodi: è un’impietosa analisi dei frutti del governo massonico dell’Italia, con la sua violenza e corruzione. Il papa, dopo aver ricordato la grande storia cristiana della penisola, conclude: “Ispiratrice e gelosa custode delle italiche grandezze fu sempre l’Apostolica Sede. Siate dunque italiani e cattolici, liberi e non settari, fedeli alla patria e insieme a Cristo”, “persuasi che un’Italia anticristiana e antipapale sarebbe opposta all’ordinamento divino, e quindi condannata a perire”.
fonte
https://www.culturacattolica.it/cultura/storia/moderna/quei-liberali-contro-la-chiesa