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SAN SEVERO E LA REPUBBLICA FRANCESE

Posted by on Set 11, 2023

SAN SEVERO E LA REPUBBLICA FRANCESE

La Repubblica francese. Eccidio dei partigiani di essa in Sansevero
da un inedito di STEFANO LA MARCA

Superba si facea la Francia e troppo ricca e potente sotto l’ Imperio delle buone leggi dei suoi Monarchi; toccava quasi l’apice della perfezione, adunque essa doveva per conseguenza di un principio arcano precipitar dall’alto; ed a quella spaventevole caduta la disponeva chetamente una federata congrega di arditi ingegni, a capo della quale incedeva audacemente, corifeo di quella scuola esecranda, un uomo dotto sì ma d’infernale dottrina. Costui era Voltaire!


Cominciossi dapprima a confutare il libro di Dio: il codice della Sapienza Divina, il tipo della morale e di ogni legislazione; e siccome l’adorare il Signore sopra tutte le creature era di ostacolo alla libertà del cuore e della mente, si rinnegò tosto. L’amor fraterno essendo d’inciampo alla sfrenatezza ed alla cupidigia dell’oro, si proscrisse ancora, laonde per aizzare gli animi intorpiditi vennero alla luce osceni romanzi, quadri scandalosi di tal che la inesperta gioventù, porgendo facile orecchio a quelle tristi e seduttrici lusinghe, ne seguiva il fascino ammaliante, ed irresistibilmente, come verso il serpe l’augello, inabissava nelle spalancate voragini della universale corruzione.
Ecco dappresso sorgere tre infami sette, una più perniciosa dell’altra: la prima si dichiara contro Dio ed il Cristianesimo; l’altra si giura nemica dei Re, e sfrenatamente minaccia di abbattere tutti i Troni della terra; assembrando l’ultima i sofismi dell’empietà e della ribellione a quelli dell’anarchia, si avvisa distruggere non solo l’altare di Cristo e di qualunque altra religione, ma benanco ogni governo; tutte le società civili; tutte le proprietà individuali. Questa triplice setta, coalizzata man mano, formidabile si rende; ed il nome di Giacobinismo risuona la prima volta sulla terra.

Questi stolti e perniciosi filosofi, dapprima non curati, tollerati poscia, e da ultimo difficili a soggiogare e disperdere, si ebbero campo vastissimo a propalare le loro infami dottrine; ne ammorbano la Francia; la gittano nella lussuria; nel disprezzo dei Sacri Dogmi; nelle false credenze; nell’ateismo, che rapidamente, quasi contagio, si spande in gran parte delle Europee contrade.
La Francia quindi col sangue del fratello comincia a lordare la terra dei padri suoi; e con tal programma annunziava la rivoluzione del 1789 col grido di “Eguaglianzal… Eguaglianza… Eguaglianza!” gridano i corifei dell’Ateismo; ed in questo satannico tumulto sorge l’indifferenza, il dileggio, la ferocia, il bieco sospetto, l’infernal terrore, la proscrizione, la strage; ed in mezzo a tutto questo giganteggia, degno stendardo di quella iniqua città fatta sentina di scelleratezza… la mannaia…
A quel popolo che con disprezzo balordo avea trascinato il Cristo ligato con funi per le tumultuose strade di Parigi, gittandolo quindi nella Senna, facil cosa riesce precipitar dal Soglio il legittimo Monarca e la Real famiglial…
Ma alle menti che infiammano dovean tenere dietro, per secondarle, le braccia che operano. Le massime Volteriane avean seminato; ove le braccia per trarre l’iniqua messe?… Ed ecco che l’inferno vomita dai suoi abissi un Robespierre, tigre a volto umano; un Fouquier-Tinville, lascivo di sangue, un Marat, un Carnot e tutta l’orrenda e ripugnante Coorte dei membri della Convenzione: legislatori-carnefici; uomini-belve che assetati di umano sangue e di rapina, decimano la nazione, trascinando sul patibolo lo sventurato Monarca… La Convenzione Nazionale non è che un’era di macellai !… Sul palco eretto dalla crudeltà, su quel palco fatale, per condanna iniqua di Tribunal feroce, migliaia e migliaia di teste radon sotto la scure… cadon tronche quella dell’infame e dell’innocente. E la plebe parigina plaudisce insensata allo spettacolo cruento che la ferocia dei Settembrini, fra cui primeggia Robespierre, le offre ad ogni ora… La morte di Luigi XVI, il martire della rivoluzione è soggetto alla barbarie, alla ingiustizia, all’empietà.
Così fu eretto l’edifizio della Repubblica Francese…

Napoli erasi di già anch’essa dichiarata Repubblica, nel qual mezzo, seguendo il vario senno dei faziosi, governavasi a Ventura. La plebe, pari alla fiera che ha spezzata la catena, corre urlando per le strade, e confondendo Repubblica con brigantaggio dassi al rapinare ed all’uccidere egregi cittadini. La privata vendetta si appalesa sfacciatamente annunziandosi giustizia, di tal che faceva mestiere di un freno potente per rallentare la foga popolare ed impedire il disordine della insolentita plebaglia.
Fu giocoforza ricorrere all’esercito francese, che allora assediava Capua senza speranza di espugnare; e favoriti dai Repubblicani il 23 Gennaio 1799, Championnet, Generale Francese, a capo della sua gente entrava in Napoli, arrogandosi gli onori d’immeritato trionfo. Di ciò baldanzosi i Francesi si danno in preda alle più spaventevoli nefandezze; impongono si pagasse ingente tributo di guerra; lor si donassero gemme, ori, vettovaglie, carri, animali; si aprissero le casse del Municipio, si ponessero ai loro piedi i monumenti di belle arti. Ciò viene subito eseguito dagli stessi tremanti ribelli; dai partigiani novatori; da tutta una gente che voltato aveva il pensiero e l’opera ove al vento della maggioranza dispiegavasi il vessillo della supposta Repubblica.
I tesori dello stato passarono nelle mani di coloro che predati li aveano; preziose tele, sculti marmi, capilavori insigni varcarono i mari. E perché mancava il denaro per completare l’imposto arbitrario tributo di guerra, si videro le case spogliare, le donne disorne di gemme, le chiese impoverire le sacre immagini; ed in uno confusi ori, gemme, amuleti, lampadi, corone rovesciare nella misura dell’usurpatore che, Brenno novello, aggiungeva la spada e gl’insulti ai falsi pesi; all’ignominial…
Tutto era consumato dalla violenza di questi ospiti inumani; tutto era rapito ed inviato oltre monti, e Parigi si abbelliva, si faceva magnifica, lussureggiante mercé le Napoletane spoglie, tolte e derubate, intanto che la scure recideva in pubblico Mercato le teste di uomini virtuosi, illustri, i quali, perché fedeli al proprio Sovrano, perché oppugnavansi al maltalento degli invasori; perché maledicevano i disordini dell’anarchia, eran dichiarati rei di fellonia, dannati all’estremo supplizio, suggellando col sangue il giuramento di fedeltà. Questi e non altrimenti eran i sommi beni promessi dai settari; questo lo Stato felice della beata eguaglianza da loro predicata. Per grido e per atroci fatti famosi, compri e fanateci messi, percorrendo le province delle Sicilie, vi trapiantavano rapidamente la peste orrenda, che infestava il delizioso suolo di Napoli; e sovvertendone gli abitanti, incitavangli a ribellione. Nel qual mezzo molti corsero a ribadirli, molti altri a secondarli, ciascuno appalesando in liberi sensi la propria opinione, quindi i propri diritti con minacce, ingenerando da ultimo guerra civile e ferocissima.
A rassodare cotali tumulti, il Governo tosto assembra parte delle Francesi Milizie; ne forma due eserciti, ed a gran passi li avvia uno alle Calabre contrade; l’altro alle Puglie. E questo, retto dal Generale Francese Duhesme, afforzato lungo il cammino da grosse bande di entusiasti patrioti (così addimandati dal caldeggiar per la Repubblica, ma più vogliosi di rapinare), dopo breve resistenza sottomettono Bovino, ed invadendo senza rischio di guerra Lucera e Foggia mirano a soggiogar Sansevero.

Sansevero, forte di 17.000 abitanti, d’indole ardente ed ingegnosa; ricca di cereali e di altri prodotti della pastorizia, non rimane secondo alle più cospicue città commercianti delle Puglie.
Siccome un dì a Sparta piccola città di Grecia, così al principiar del 1799 eran di Sansevero le politiche sorti; chè se quella continuamente ed animosamente, per sostenere e conservar la Patria libertà, e per non umiliarsi a popoli nuovi e tiranni, affrontava numerosi eserciti e, combattendoli, spesso li vinceva; questa benché rifuggendo dalle novelle idee promulgate da settari, e disdegnando di obbedire al repubblicano Governo, cupamente ordiva una controrivoluzione, le cui compilate fila eran rette e sostenute da un tal Raimondo Ferrari.
D’altro canto i fautori della repubblica organizzavan moti politici e, Crescenzo De Ambrosio avea presi accordi con tutti gli amici delle nuove cose nelle province di Molise, di Avellino, di Bari e di Lecce, aprendo nella propria casa, ed in quella dei Galiani, suoi stretti congiunti, dei geniali convegni serali, ove intervenivano quanti si asserivano teneri del progresso.
Ma quei convegni, nuovi per Sansevero, parvero strani a molti e non ammessi, o dominati da volgari pregiudizi; e più parvero strani quando la lieta brigata fece una serenata sotto le ferrate finestre delle Suore – Benedettine, invitandole a non obliare lor diritti nelle romite Celle. Cantore della ballata fu Antonio Santelli, il quale disposò la sua bella voce di Tenore agli accordi della chitarra francese; istrumento nuovo a Sansevero, ove altri non si conosceano, ed è bene tenerne ricordo, se non la chitarra battente, il liuto, il mandolino, il salterio, il cembalo e gli strumenti da fiato.
Parvero ancora strane le voci che circolavano pel paese; cioè, di voler costoro impiantare nella piazza Trinità, avanti al palazzo Municipale, ora Teatro, l’albero della Libertà, e proclamare la Repubblica. E mentre i novatori veramente avean deliberato di ciò effettuare, Monsignor D. Giovanni Gaetano del Muscio, vedendo la mala parata, per mantener l’ordine e la pace, radunava sull’Episcopio il Mastro – Giurato, D. Francesco Antonio Petrulli; i Sindaci, D. Giacinto Fraticelli; Donato Mobilio; Giuseppe del Vicario; Michele Giammario; i Decurioni, e diversi altri proprietari del paese, e di accordo annuirono all’impianto dell’Albero della Libertà; e ad ovviare qualche sommossa popolare, nominarono a Presidente per l’ordine pubblico, D. Emilio Mazzilli. Si pensò pure trasportare nel nostro Duomo il Simulacro della SS. Vergine del Soccorso ed esporlo alla pubblica venerazione per implorarne il patrocinio in quella fortunosa congiuntura.

Si giunse intanto agli 8 Febbraio 1799, ed i De Ambrosio; i Galiani; i Santelli; D. Nicola Niro; D. Giuseppe Nobilatti; D. Antonio Gallucci; Carlo De Lorenzo; i Germani: D. Francesco e D. Filippo Maddalena; il Sotto-Tenente D. Gaspare Cordera, e varii altri, accompagnati dai Delegati dei vicini paesi, svelsero dal giardino dei PP. Cappuccini un alto Cipresso, lo condussero in piazza; l’adornano di fasce tricolorate e di altre corone allusive; ed innalzandolo fra tripudii e festevoli canti, impiantano innanzi al detto palazzo pubblico ora Teatro l’Albero della Libertà, emblema allora di Reggimento Repubblicano.
Molti facinorosi vi accorsero ad ingrossar le file; ed incitati questi dai Capi patrioti, corsero immantinente al largo Mercato, abbattendo e distruggendo la baracca del Principe di Sangro, dalla quale esercitava la riscossione dei diritti feudali. La quale baracca non dovea più rialzarsi, perocché ai 2 Agosto 1806 fu dal Nuovo Re, Giuseppe Bonaparte, promulgata la Legge abolitiva della Feudalità.
Era il terzo dì delle feste della Repubblica, nelle quali prendevano parte uomini e donne, benché non use a mostrarsi volentieri in pubblico: reggeva governo comunale provvisorio, e sembrava esservi concordia di diritti e di doveri. Ma i non amanti di questo nuovo procedere, con a capo il Notar D. Nicola e Germano Matteo Russi, pubblici adulteri, insinuarono, per mezzo di Antonia De Nisi, la plebe, che la Statua della SS. Vergine del Soccorso, non nella Cattedrale, ma sotto l’Albero della Libertà dovea collocarsi, affinché il popolo, veggendola a lui vicino, lo rispettasse. L’incauta e bassa plebe, irritata anteriormente dei Canti fescennini, e per l’Inno Marsigliese «Allons enfants de la Patrie» e per le voci sparse di dover le donne danzare e debaccare sotto quel malaugurato Albero, scoppia in urli frenetici quando vide quei Patrioti scendere dalla Nicchia la Statua della SS. Vergine per condurla in processione. Perché, esclamano Antonia De Nisi, alias la Scazzosa; Nazzario dell’Aquila, Amadio Antonacci; Pietro Maggese; Sebastiano Presutto; Innocenzo Paolino e moltissimi altri della parte Regia perché la Vergine coi Giacobini?… sotto l’Albero, perché? … All’armi! … All’armi! … Morte ai Repubblicani!… Morte ai Francesi!…
Né in quel tremendo tafferuglio valsero le buone insinuazioni e le prediche, fatte nelle Chiese e nelle pubbliche strade da tanti buoni Ecclesiastici per distrarne gli animi e mantenerne la calma. L’aizzata plebe, inferocita quasi belva indomita, si ammutinò nella Domenica 10 Febbraio contro coloro, che sapea parteggiar pei Francesi; assaltò le loro case a mano armata, e li trucidò. Così furon spenti Antonio e Giovanni Santelli; Crescenzo, Ambrogio e Carlo de Ambrosio; Vincenzo e Raimondo Galiani; Vincenzo Faralla; il Sergente Dorotea, ed altri di minor nota. I Germani Maddalena, inseguiti, furon massacrati mentre credevan in Lucera cercarvi un asilo. Indi corre frettolosa in piazza; svelle, fa in pezzi, disperde i frantumi dell’Albero della Libertà, e nel fosso ov’Esso era stato impiantato vi depose i Capi degli uccisi, ponendovi sopra una grossa pietra col venerato segno della Croce, il quale non di rado è la bandiera che covre la cattiva merce.
Né i tristi contentaronsi di quelli eccidii: irruppero anzi nelle case degli uccisi dandovi il sacco, che si proseguì in quante altre eran civili e ricche; non risparmiando lo stesso Episcopio. Il povero Vescovo dovette campar la vita prima nel palazzo dei Sign.i Nicolò e Vincenzo – Matteo Russi, indi rifugiarsi in casa di umil contadino, unito al Frate Minorita, Michelangelo Manicone, autore della Fisica Appula.
Nelle ore vespertine poi di quella infausta Domenica, un altro gruppo di persone meno accecate, si spinse nella Chiesa di S. Agostino per condurre il Sacro Simulacro della Vergine del Soccorso nel nostro Duomo. Molti probi cittadini vi presero parte, e fra questi s’immischiarono i Frammassoni ed adulteri, Sign.ri Russi, usi sempre a fomentar discordie. Nè mancò quella brava ed ardita gente di Antonacci, Paolino, Maggese, dell’Aquila ed altri, capitanati dalla spiritosa, loquace, irrequieta Antonia de Nisi.
La processione quetamente fra inni e Sacri cantici percorse la strada Palmento e quella di S. Nicola; e vollesi percorrere la gran Piazza, col passare sui teschi esanimi dei Giacobini; indi con grande venerazione deposta nella Cattedrale, ove per diverso tempo stette esposta al pubblico culto.

Tratto da “Omaggio a San Severo” 
di Benito Mundi e Giuliana Mundi Leccese
Edizioni del Rosone

STEFANO LA MARCA

Stefano La Marca, benestante, è nato a Sansevero il 26 dicembre 1841 da Paolo e Maria Rosaria Rosito; ha sposato, prima, Maria Cristina Berardi e, in seconde nozze, Maria Filomena De Julio. È morto, nella sua casa di via Roma al n. 125, il 30 marzo 1908.
Il manoscritto da cui è tratta questa inedita descrizione è una “minuta” della Raccolta di notizie concernenti la Città di Sansevero

È un volume in folio di 22 quinterni, rilegato in tela scura con 5 borchie metalliche su due piatti di cm. 40,5 x 29,5; recuperato dal Direttore della Biblioteca Comunale “A. Minuziano” presso l’Archivio dell’Ospedale civile “Teresa Masselli Mascia”, nel 1994. È, ora, custodito tra i manoscritti della “Minuziano”. Il nome dell’Autore e il titolo del manoscritto si rinvengono sul verso del primo foglio n.n.; la data è del 1905; la prefazione è del 25 dicembre 1903.
Stefano La Marca era fratello di Don Severo, nato il 28 aprile 1839 e morto il 20 febbraio 1888. Entrambi, con il padre Paolo e le donne, riposano nella tomba dei La Marca a Sud della Cappella del Soccorso, nel Cimitero di San Severo. Nella tomba vi è un busto in bronzo del Sacerdote Don Severo con iscrizione che allude alle sue gravi sofferenze morali. Di Stefano c’è un’immagine con viso scavato di agricoltore, con occhi fissi e melanconici, e con l’iscrizione “antico raccoglitore di Cittadine notizie”.
Nella trascrizione del manoscritto si è rispettato, in generale, la freschezza e la genuinità della descrizione, limitando gli interventi solo a pochi e necessari casi.

fonte

https://www.darapri.it/immagini/nuove_mie/apprsecoli/8febbraio1799.htm#inizio

1 Comment

  1. Una più che “illuminata” giovane proofessoressa di Storia e Fllosofia, napoletanissima di nascita e di cultura, mi insegnò documentalmente al liceo (Vittorio Emanuele, lo statale di via S.Sebastiano a Napoli) che la rivoluzione francese non fu altro che un episodio con cui si sostituì un tiranno Luigi XIV con un altro vero tiranno Napoleone Buonaparte, assetato di averi e sangue.
    Quella stessa insegnante segnalò anche che all’esito del “Congresso della Restaurazione” l’allora regnante Ferdinando di Borbone (che era IV di Napoli e III di Sicilia) nell’obbedire al diktat delle potenze europee che unificò i due regni, pensò bene non solo di dismettere i precedenti titoli (IV e III) e di assumere il nuovo titolo di Ferdi­nando I delle Due Sicilie ma anche di sostituire il vec­chio ed unico vessillo borbonico napulitano (scudetto celeste con tre gigli dorati al centro, il tutto contornato da uno spesso bordo rosso sangue) con quello attuale delle Due Sicilie in cui, su sfondo bianco, al centro resta l’emblema borbonico ma è, altresì ed a sua volta, contornato dagli emblemi di tutte le precedenti casate europee che direttamente (Svevi, Normanni, Aragonesi, ecc.), e/o indirettamente (Asburgo, Lorena ecc.), da circa l’anno 1000 (non ieri, dunque!) avevano fin lì avuto a che fare con la mia terra, che è bellissima.
    Sempre la stessa insegnante segnalò che questo
    questo sovrano è passato alla storia, ”chella buciarda ca ce hanno ‘mparato int’ ‘e libbre d’ ‘a scola”, come “re lazzarone”. All’esito di questa magistrale lezione ci fu una protesta di tutti gli studenti del Vittorio Emanuele (“rosso” ma anche un po’ “nero” a quei tempi che si concluse con un’occupazione della scuola per sette giorni.
    E chest’è!

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