Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Storia del diritto nel Regno di Napoli di GAETANO ARCIERI (II)

Posted by on Set 14, 2022

Storia del diritto nel Regno di Napoli di GAETANO ARCIERI (II)

Gaetano Arcieri, Storia del diritto nel Regno di Napoli
A cura di Gianandrea de Antonellis
Edizione originale:Storia del Dritto per servire d’introduzione allo studio delle leggi civili e del dritto amministrativo con la successione dei giureconsulti ed interpetri [sic] del dritto romano, seguita da comentario [sic] delle leggi regie, pontificali e decemvirali del Dottor Gaetano Arcieri, Accademico Florimontano, Socio Corrispondente della Società Economica di Basilicata, dell’Accademia Cosentina, di Aci-Reale, ec. ec.Stabilimento Tipografico Perrotti, Napoli 1853

Diverse nella struttura, le due opere ed i loro autori hanno comunque molti elementi in comune. Entrambi gli scritti si inseriscono in quel filone che, da Giannone in avanti, predilige lo studio della storia civile, ossia dell’esperienza giuridica come punto di partenza per delineare il quadro organizzativo della società: storia del diritto, più che storia dei giuristi come ceto, quindi storia della cultura, della conoscenza, della dinamica cetuale, dell’ideologia, degli assetti istituzionali. I rispettivi autori vivono, entrambi non senza contraddizioni, un’epoca di profondi mutamenti da cui sono sollecitati a porsi interrogativi importanti; entrambi considerano il “diritto dei francesi” elemento perturbatore, che scuote dalle fondamenta la società e segna un’evidente cesura istituzionale, ma occorre comunque distinguere. Talune innovazioni sono inevitabili e s’innestano nell’ordinamento che appare già pronto ad accoglierle: ne modificano solo formalmente alcuni elementi, ma lasciano sostanzialmente invariato in quadro d’insieme, evidenziando una sorta di sostanziale continuità istituzionale benché non politica; altre, invece, segnano decisamente un punto di rottura con le consuetudini vigenti, sconvolgono l’ordine sociale e politico, travolgono equilibri consolidati e provocano reazioni più o meno prevedibili. Nel Marini è molto più tangibile il proposito di comprendere quanto di quel “diritto nuovo” sia stato imposto nell’ordinamento da un comando legislativo o non piuttosto quel comando ne abbia accelerato l’assorbimento riconoscendo alcune di quelle novità come “connaturali” alla struttura politica e giuridica dello stato napoletano e delle sue istituzioni (diritto del Regno); ma occorre anche chiedersi fino a che punto il rifiuto di quel diritto negli aspetti più radicali ne abbia effettivamente limitato la sua pur breve vigenza (come per gli atti ema­nati durante il semestre giacobino o per alcuni istituti regolamentati dal Codice durante il Decennio).

È un compito che il giurista cosentino dichiara di voler assumere perché osservare in quale direzione si muove il diritto ed intuirne la traiettoria, consente di comprendere qual è o quale potrà essere il futuro assetto sociale e politico dello Stato. Perciò, la sua opera, a differenza della Storia di Arcieri si spinge a fare previsioni sul diritto «quale potrà essere». Ciònaturalmente non esclude che analoga intenzione animi anche le pagine dell’Arcieri, ma sicuramente l’autore non la dichiara espressamente, preferendo un atteggiamento di prudenza e manifestando un cauto riformismo.

Gaetano Arcieri fu personaggio di spicco nella cultura napoletana, pur vivendo apparentemente ai margini della vita politica della capitale. Membro di diverse accademie, carbonaro nel 1821, liberale nel 1848, cavourriano nel 1860, egli incarnò le inquietudini della sua generazione, che oscillava tra desiderio di novità e rifiuto di ogni radicalismo. Laureato in utroque iure presso l’Università di Napoli, strinse legami con ambienti filo-risorgimentali (al contrario del Marini che si attestò sempre su posizioni sostanzialmente filo-borboniche), ma ciò non gli impedì di apprezzare il riformismo dei Borbone, riconoscendone i progressi apportati in campo sociale, economico, legislativo. Era un riformismo che si innestava nella tradizione rispettando le consuetudini: “diritto tradizionale” che nasce dal basso e si trasmette alle generazioni future; diritto di cui Arcieri afferma che la legge non può né deve essere altro che

emanazione del dritto stesso evoluto nella pratica: il dritto che parla in particolar modo a quella nazione, a quel dato popolo, il diritto anteriore in una parola che si svolge nell’esterno, e che ha per obietto di far conseguire all’uomo quello sviluppo fisico e morale cui è chiamato per sua propria destinazione.

Sulla stessa lunghezza d’onda, Marini dirà che

la Costituzione di un popolo non è che l’espressione dei suoi bisogni, dei suoi desideri, de’ suoi costumi, delle sue abitudini, delle sue tendenze, delle sue virtù, e persino degli stessi suoi vizi e de’ pregiudizi che l’ingombrano, e che fanno l’un popolo dall’altro distinto

precisando altresì – forse non senza una sottile vena polemica – che «non è dato ad un popolo di prendere in prestito le istituzioni di un altro paese e trasportarle belle e fatte in casa propria»: parole da cui traspare in maniera inequivoca una sorta di diffidenza, se non proprio di ostilità, verso le novità transalpine che si volevano trapiantare nel Regno prescindendo dalla sua storia, ma anche il senso di una forte preoccupazione per quanto stava accadendo sotto i suoi occhi, preludio di guasti ancora più gravi.

I moti del 1847-1848 non potevano che sollecitare ad un’attenta riflessione sull’intera vicenda giuridico-istituzionale napoletana, in un momento in cui la consueta indisponibilità ad accogliere un diritto non conforme alla natura ed alla storia della sua popolazione si trovava a dover fare i conti con la necessità di non chiudere la porta al diritto nuovo che si affacciava in tutta Europa. Fino a che punto si potevano accogliere tali novità senza rinnegare la propria l’identità?

La storia del diritto nel Regno di Napoli dimostrava che il diritto del Regno era stato il frutto di una progressione storica e rifletteva una continuità garantita dalla tradizione: perciò era possibile ripercorrerne le tappe, evidenziarne i limiti e gli avanzamenti, seguirne gli adattamenti nel mutare delle dinastie succedutesi sul trono napoletano (ben sette, come evidenzia il curatore di questa edizione della Storia: Normanni, Svevi, Angioini, Durazzo, Aragonesi, Asburgo e Borbone). Altrettanto dimostrava che quando era, invece, prevalsa la linea della discontinuità e si erano introdotti nell’ordinamento elementi di netta rottura con il passato sconvolgendo equilibri sociali consolidati, gli effetti erano stati devastanti. A dispetto dei proclami con i quali la rivoluzione annunciava l’abolizione della feudalità, Arcieri osservava invece che «la feudalità non fu abolita, ma perseguitata, spogliata dalla prepotenza umana». Era illusorio, del resto, pensare di poter cancellare con un tratto di penna, in virtù di un comando legislativo, ciò che costituiva da secoli l’ossatura stessa della società. Di fatto, furono invece create le premesse dello scontro sociale che avrebbe animato i decenni successivi. Analogamente, l’introduzione del divorzio aveva generato secondo Arcieri una morale dissoluta, che strideva con i costumi e la sensibilità sociale. E tuttavia, quel Code che mutava la storia ed il concetto stesso di famiglia, introduceva altre novità importanti e soprattutto operava alcune fondamentali riforme, a partire da quella giudiziaria, che sarebbe stato difficile non accogliere. Infatti, fu conservato: i Codici della Restaurazione del 1819 ne mantennero inalterata la struttura, intervenendo soltanto sulle norme che apparivano più “eversive” per adeguarle alla storia ed al diritto del popolo napoletano.

D’altronde, quel diritto nuovo che aveva disciplinato la vita delle popolazioni regnicole per ben dieci anni, era stato in gran parte assorbito dalla popolazione, entrando a far parte delle consuetudini osservate: abrogarlo tout court sarebbe stato controproducente e addirittura contraddittorio rispetto alla storia stessa del diritto del Regno, lo si poteva solo emendare. Arcieri loda, perciò, la saggezza delle leggi borboniche e plaude al riformismo dei sovrani napoletani, che giudica strumento indispensabile attraverso il quale si possono prevenire o eliminare gli squilibri sociali, ascoltando le istanze che vengono dal basso: «i migliori Re si pongono in contatto con i sudditi. Le rivoluzioni rimangono così incatenate».

È forse possibile leggere in queste parole anche una sorta di monito rivolto a Ferdinando II perché ascoltasse i diversi umori serpeggianti nella società, che i moti del 1847-1848 avrebbero reso manifesti di lì a poco in tutta la loro carica esplosiva. Pur legato ad ambienti filo-risorgimentali Arcieri si collocava sul versante di un moderato riformismo, guardando con preoccupazione agli effetti di una rivoluzione. Non è un caso che, pur essendo l’opera data alle stampe nel 1853, il termine ad quem dell’esposizione storica sia il 1847, come egli stesso ha cura di precisare alla fine dell’opera. Quella data segnava una sorta di spartiacque: il peggio poteva ancora accadere e, di fatto, accadde una decina di anni dopo (Arcieri era ancora in vita per assistere alla dissoluzione del Regno ed allo sconvolgimento sociale e politico conseguente all’unificazione italiana) segnando il punto di rottura nell’ordinamento e la cancellazione di una storia e di istituzioni secolari…….continua

Carmela Maria Spadaro

2022 – D’Amico Editore di Vincenzo D’Amico
Via Pizzone, 50 – 84015 Nocera Superiore
libri@damicoeditore.it-www.damicoeditore.it +39 349 8108119

Finito di stampare
nel mese di aprile 2022
presso Infolio srls
via Alfonso Albanese 26
84010 Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno)

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.