Un anno senza Pietro Golia
Non sono mai andato d’accordo con Pietro Golia. C’era sempre un motivo o un altro per contrastarci per essere… scompagni, come si dice a Napoli. Sia quando editò il mio primo libro (grazie alla saggia e paziente mediazione di Gabriele Marzocco) sia quando non pubblicai più con lui gli altri miei libri. Lui ed io – sempre per rimanere in ambito espressivo partenopeo – eravamo come… ‘a limma e ‘a raspa. Ciò nonostante, una reciproca, inconfessata stima rimase sempre intatta.
Il miglior (e più esaltante) ricordo che ho di lui è legato al pomeriggio del 15 marzo 2003 quando ci piazzammo davanti al Duomo di Napoli per impedirne l’ingresso al penultimo savoiardo, amnistiato dal suo esilio dal politicastro di turno, che aveva scelto proprio Napoli come luogo di rientro in Italia. Mentre tutti gli altri, me compreso, si limitavano solo a trillare coi fischietti ed a sventolare il vessillo delle Due Sicilie, da Pietro venne un gesto eclatante: avvicinatosi ad uno dei giannizzeri sabaudi che col loro sorrisetto ironico e beffardo rivolto verso di noi si apprestavano ad entrare in chiesa, tentò di dar fuoco al mantello che gli aveva prima, con gesto fulmineo, sfilato dalle spalle. Fu l’unico atto, veramente concreto, di quella protesta che, comunque, impedì allo squallido Savoia di entrare nel Duomo dalla porta principale.
Incrociandoci nei tanti convegni che ripetutamente hanno luogo, non ci salutavamo: ci scambiavamo solo uno sguardo. Di continuo, comunque, a prescindere da ogni cosa, le mail delle sue iniziative editoriali o congressuali mi arrivavano sempre puntuali e, ora che ci penso, esse per me erano una conferma, la certezza di un punto fermo, un punto spigoloso, ma comunque inamovibile, nel panorama del nostro ambiente filoborbonico. Perciò la sua morte era impensabile; per questo motivo, la sua scomparsa mi ha sconvolto, come mai avrei potuto immaginare; per tale motivo, quando ho visto la bandiera delle Due Sicilie avvolta attorno al suo feretro, mi si è annebbiata la vista di lacrime e, sempre per lo stesso motivo, mentre usciva a spalle dalla chiesa, l’ho salutato come a lui avrebbe fatto piacere, romanamente.
Erminio de Biase
scritto un anno fa