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VITA DI COSIMO GIORDANO BRIGANTE (II PARTE)

Posted by on Ott 13, 2020

VITA DI COSIMO GIORDANO  BRIGANTE (II PARTE)

Cosimo Giordano e la sua banda nel mese di agosto del 1861 furono protagonisti dei noti fatti di Pontelandolfo e Casalduni.

Il 7 di quel mese scoppiano a Pontelandolfo dei moti filoborbonici, le Guardie Nazionali scappano e Caporal Cosimo con i suoi ne approfitta per entrare nel paese e issare la bandiera dei Borbone, negli scontri vi furono quattro morti. Il giorno 11 giunge in ricognizione un drappello di 45 soldati piemontesi che si accampano nella torre del castello. Vengono, però, affrontati da un gruppo di briganti e contadini per cui scappano prima verso San Lupo poi verso Casalduni. Lungo la strada vengono accerchiati dalla banda diretta dal brigante Pica, catturati e uccisi tutti, tranne tre o quattro che, in qualche modo, riuscirono a salvarsi. Alcuni storici raccontano che furono torturati, massacrati con le mazze e calpestati con i cavalli. Altri che furono fucilati (Vergineo).
La ritorsione sabauda non tardò ad arrivare, il generale Cialdini con pieni poteri per la repressione del brigantaggio, il 14 agosto incarica il colonnello Negri ed il maggiore Melegari di recarsi a Pontelandolfo e Casalduni affinché dei due paesi “non resti pietra su pietra”. A Casalduni erano fuggiti proprio tutti, a Pontelandolfo quasi tutti. Negri se la prese con i pochi civili rimasti a Pontelandolfo tra cui due liberali amici dei piemontesi, i fratelli Rinaldi, ed una ragazza uccisa, qualcuno racconta, dopo essere stata violentata. Totale: 13 morti accertati. I due paesi vengono dati alle fiamme cosicché Negri può comunicare a Cialdini che “giustizia è fatta, Pontelandolfo e
Casalduni bruciano ancora”.
Dopo questi accadimenti la banda Giordano continua ad imperversare. I briganti vivono sui monti, nascosti nelle grotte. La latitanza ha il suo costo e quindi ancora estorsioni (dalle quali sono sempre esenti medici e farmacisti), sequestri, agguati ed omicidi ma anche combattimenti contro le truppe piemontesi che Caporal Cosimo riesce in più di una occasione a tener testa e a metterle in difficoltà con la tattica di isolare singoli reparti dei battaglioni sabaudi. Giordano acquista la fama di una inafferrabile primula rossa. (Molfese).
Nel 1862 Cosimo commette due crimini dalla motivazione opposta. A maggio, insieme ad una quindicina di compagni, va a prelevare nel Circolo Sociale di San Lorenzo Maggiore, frequentato dai benestanti, il ricco possidente Pasquale Melchiorre. I briganti lo portano sui monti e fanno strazio del suo corpo. Gli tagliano le orecchie, il naso e i genitali che inviarono alla moglie. Perché? Il Melchiorre aveva violentato una “ragazza cerretese”.
Nel mese di luglio tende un agguato a Salvatore Pacelli, politico di San Salvatore e acerrimo avversario del politico cerretese Michele Ungaro, quest’ultimo presidente in carica della neonata provincia di Benevento. L’attentato a Pacelli fallisce per una circostanza favorevole ma il principale sospettato di essere il mandante fu proprio il Commendatore Ungaro che, si dice, fornisse protezione politica al Giordano e che lo utilizzasse per i suoi scopi.
Un altro delitto al quale si possono attribuire connotazioni di ordine politico fu quello di Nunziante Cefarelli di Civitella nel 1863. Cefarelli era un fervente liberale, capitano della Guardia Nazionale, potenziale avversario dell’Ungaro alle vicine elezioni per la Camera nonché instancabile braccatore del brigante. Cosimo Giordano gli tende un agguato e lo uccide insieme ad altri 10 uomini del suo drappello. A Cefarelli, in senso di disprezzo, taglia il pizzetto “alla piemontese”.

Nel frattempo Capraccosimo, mentre sostiene economicamente, con i proventi dei ricatti, molte bande di briganti (tra le quali quelle di Domenico Fuoco, Alessandro Pace e Francesco Guerra) che erano state cacciate dal Molise e costrette a rifugiarsi sui monti di Cusano, continua a reclutare uomini per la causa dei Borbone.
Ma alla fine del 1864 sparisce da Cerreto e si rifugia a Roma dove, per altro, viene arrestato con l’accusa di omicidio, dalla quale viene poi assolto. Ritorna nella sua zona l’anno dopo, ma nonostante nel suo paese avesse sempre goduto dell’omertà dei suoi compaesani, dell’appoggio dei “manutengoli” e della protezione politica, decide di ritornare, alla fine dello stesso anno, nello Stato Pontificio.
Ormai la repressione dell’esercito italiano aveva sempre più successo, gli arresti si susseguono, le fucilazioni e le delazioni pure. I soldati piemontesi, ma anche i “liberali” meridionali, erano autorizzati dalle autorità militari, a tagliare le teste dei briganti e mostrarle in segno di valore e, soprattutto, per essere ben ricompensati.
Sulla sua testa pende una taglia, “immediatamente pagata in oro”, di complessive 16.000 lire (paragonabili a circa 50.000 euro) di cui 13.000 offerte dal Governo e 3.000 messe a disposizione dalla Provincia, cosa che alletta molto pastori, contadini e la poverissima gente del popolo.
I briganti sono sempre più sfiduciati e hanno cominciato a capire che in quelle condizioni al più vengono strumentalizzati da qualche politico. Oppure hanno capito, come sostiene Vergineo, che essendo essi ad approfittare dei Borbone per armi, soldi e legittimazione politica, e non viceversa, i giorni del Regno di Napoli erano finiti.
A Roma invece, Cosimo è diventato un personaggio e la sua notorietà è diventata nazionale.
Soprattutto da quando uno scrittore napoletano, Pasquale Villani, ne fa il protagonista del romanzo di avventura “Cosimo Giordano e i saccheggiatori di Cerreto del 1860”, edito nel 1864. Veste bene ed è accolto bene negli ambienti filoborbonici per cui non scappa all’estero come altri capi briganti anche perché “spera in una restaurazione borbonica e di diventare Generale con il ritorno di Francesco II” (Sangiuolo) Torna comunque a Cerreto dove tutto gli va storto, ha il tempo di effettuare un paio di sequestri che non gli fruttano le somme sperate e di essere accusato, nel 1866, dell’omicidio di Raffaele De Blasio, padre dell’antropologo e storico guardiese Abele De Blasio (ecco il motivo di tanta avversione). Di questo omicidio Cosimo Giordano non se ne assunse mai la responsabilità dichiarandosi sempre innocente.
Ormai i tempi sono cambiati, sparisce di nuovo per riparare a Marsiglia nel 1867, poi un’altra fugace apparizione nella sua terra, nel 1868, quando pare volesse consegnarsi alle autorità, infine fa perdere completamente le sue tracce.
Durante la sua assenza parecchi malviventi ed ex briganti approfittano del terrore suscitato dal suo nome per inviare falsi pizzini ricattatori firmati Caporal Cosimo ad alcuni benestanti. Di Cosimo Giordano, però, restava solo il suo fantasma perché per una decina d’anni non si ebbero più sue notizie.
E’ segnalata di nuovo la sua presenza a Cerreto solo nel 1880, molto probabilmente perché aveva bisogno di soldi. Si favoleggiò, nel paese, circa un suo tesoro nascosto che era venuto a riprendere, ma, di fatti, per procurarsi il danaro fu costretto a rapinare di una considerevole somma un signorotto di Morcone.
In Francia si chiamava Giuseppe Pollice e aveva stabilito la sua residenza a Lione dove gestiva un negozio di frutta e verdura. Ha una compagna, con la quale convive, ed un figlio. Ha intenzione però, e sarà la sua fine, di regolarizzare l’unione sposando la sua donna. Per il matrimonio si rende necessario il certificato di “stato libero” che il prete francese richiede al parroco di Cerreto.
La cosa non sfugge alle autorità italiane, presumibilmente avvertite dal prete. Ma non essendoci l’estradizione e forse perché considerato rifugiato politico, non poteva essere arrestato in Francia. Per cui viene attirato in Italia con uno stratagemma. Un funzionario di polizia, fingendosi un commerciante di frutta, gli propone un grosso affare da concretizzarsi a Genova. Giordano abbocca, ma come mette piede in Italia viene arrestato nel 1882.
Da Genova viene portato nel carcere di Benevento dove resta esattamente due anni, fino alla conclusione del processo. Di questo periodo ci è giunta una lettera inoltrata ad un nipote poco dopo l’arresto.
Il contenuto della missiva, dove “piange” per le precarie condizioni di salute del congiunto e si doglie di saperlo senza denaro (“ma neppure io”, scrive); dove prega Iddio più per il nipote che per i suoi figli “che almeno stanno bene dove stanno”; dove, nel salutarlo insieme alla famiglia, dice “non pensate a me che avete sofferto abbastanza”; ha fatto pensare ad alcuni storici che “Il brigante Giordano non era certamente dotato di quella ferocia e quel cinismo, che, invece, caratterizzarono l’indole ed il comportamento di alcuni suoi collaboratori come il “Pilucchiello” e
l’Albanese”(Spada).
La causa si concluse nel mese di agosto del 1884, Giordano venne difeso dai migliori avvocati sulla piazza. Prima di tutto Michele Ungaro e poi da Giuseppe D’Andrea entrambi di Cerreto, dall’avvocato Corrado di Montesarchio e dall’avvocato di Torrecuso Antonio Mellusi, poeta e storico, mazziniano e tra i primi fautori dell’unità d’Italia. La linea difensiva fu basata nel presentare “i misfatti della banda Giordano come una conseguenza di una particolare condizione politica nel Circondario di Cerreto”.
Nonostante lo schieramento difensivo, la Corte lo ritenne colpevole di tutti i capi d’imputazione tra cui 4 omicidi (incluso quello del padre di Abele De Blasio),10 reati di furto, estorsione o mancata estorsione violenta nonché per essere “capo-banda di malfattori”.
Il Pubblico Ministero, come riporta De Blasio, non gli imputa nulla di scritto relativamente ai fatti di Pontelandolfo ma i Giudici, nella sentenza emessa in nome Sua Maestà Umberto I, al punto 12, lo ritengono colpevole di aver: “nell’agosto 1861 in Pontelandolfo in riunione di banda armata di cui egli era il capo consumati atti di esecuzione aventi per oggetto di cangiare e distruggere la forma del Governo e di istigare gli abitanti ad armarsi contro il potere dello Stato”.
Lo condannano dunque, sia come delinquente comune che come reazionario borbonico, ai lavori forzati a vita, alla perdita dei diritti politici e civili, all’interdizione patrimoniale e a pagare le spese.
Trasferito nel carcere siciliano di massima sicurezza dell’isola di Favignana, scontò la pena per soli 4 anni. Infatti, nel novembre del 1888 morì (non è dato sapere come, se di morte naturale o violenta,

malattia o stenti) quando aveva da qualche giorno superato i 49 anni.

Antonello Santagata

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