155°anniversario della morte del guerrigliero legittimista “NINGHE NANGHE”
Il
13 Marzo 1864 a Frusci (AVIGLIANO) il capo banda legittimista Giuseppe Nicola
Summa alias “Ninco Nanco” viene giustiziato dalla Guardia Nazionale. Il
capitano Ninco Nanco è uno dei più devoti luogotenenti di Carmine Crocco,
protagonista di numerose rappresaglie ai danni di ricchi possidenti e militari
sabaudi. Era conosciuto per le sue brillanti doti di guerrigliero, per la sua
freddezza e brutalità, attributi che lo resero uno dei briganti più temuti di
quel tempo. Nonostante la sua efferatezza, viene da alcuni considerato un eroe
popolare, da parte di quella schiera di popolani che si ribellarono ai soprusi
e alle repressioni sabaude. In una rissa venne pestato e pugnalato ad una gamba
da quattro o cinque persone che lo costrinsero a tre mesi di guarigione.
Giuseppe, anziché denunciare l’accaduto alla polizia, preferì la vendetta
personale. Qualche mese dopo, uccise uno dei suoi aggressori a colpi di ascia.
L’omicidio gli costò dieci anni di carcere a Ponza, ma riuscì ad evadere
nell’agosto 1860. Recatosi a Napoli, tentò di arruolarsi nell’esercito di
Giuseppe Garibaldi per poter ricevere la grazia ma fu scartato. Tentò la stessa
cosa sia presentandosi a Salerno da Nicola Mancusi, comandante della colonna
insurrezionale di Avigliano, e sia facendo domanda di arruolamento nella
Guardia Nazionale ma entrambi gli esiti furono negativi. Costretto al
brigantaggio, Ninco Nanco iniziò a vivere di rapine e furti, rifugiandosi nei
boschi del Vulture. Il 7 gennaio 1861, incontrò Carmine Crocco, del quale
divenne uno dei più fidati subalterni. Il brigante aviglianese, assieme a
Crocco, partecipò a numerosi saccheggi, conquistando prima tutto il Vulture,
senza mai riuscire a prendere la sua città natia, Avigliano, poi gran parte
della Basilicata, spingendosi fino all’avellinese e il foggiano. Si distinse
soprattutto nella battaglia di Acinello, comandando la cavalleria dei briganti
e dimostrando la sua padronanza in campo bellico. Non esitava ad aggredire le
famiglie borghesi, ricorrendo al sequestro, all’omicidio e alla devastazione
delle proprietà in caso di mancato sostegno. Nel gennaio 1863, isieme ad alcuni
membri della sua banda uccisero brutalmente il delegato Costantino Pulusella,
il capitano Luigi Capoduro di Nizza e alcuni suoi soldati, dopo che Capoduro,
sperando di indurre il brigante alla resa, si era avviato con i suoi uomini nel
bosco di Lagopesole. I loro cadaveri furono scoperti alcuni giorni dopo. Il 12
marzo 1863 nei dintorni di Melfi, massacrò un gruppo di cavalleggeri di
Saluzzo, guidati dal capitano Giacomo Bianchi. All’agguato parteciparono anche
le bande di Crocco, Caruso, Giovanni “Coppa” Fortunato, Caporal Teodoro,
Marciano, Sacchetiello e Malacarne. Solamente due soldati piemontesi
sopravvissero, mentre il capitano Bianchi venne ucciso da Coppa con una
pugnalata alla nuca e la sua testa fu troncata dal busto. La falcidia avvenne
in risposta alla morte di alcuni briganti avvenuta nei pressi di Rapolla, i
quali vennero catturati, uccisi e i loro cadaveri bruciati dai regi soldati.
Carmine Crocco durante un interrogatorio, negò torture e scempi da parte del
brigante aviglianese ai danni dei militari prigionieri, asserendo che era
«terribile solo per la propria defesa», infatti Ninco Nanco si rese
protagonista anche di atti generosi. Aiutava economicamente le sue sorelle, le
quali versavano in condizioni misere ed, essendo profondamente religioso,
mandava soldi ai preti affinché celebrassero messe in onore della Madonna del
Carmine, la cui effigie portava sempre con sé al collo. Durante l’assedio di Salandra,
risparmiò un sacerdote che, in passato, aveva aiutato la sua famiglia e gli
garantì la sua protezione. Ninco Nanco depositò alcuni oggetti di valore nella
cappella del Monte Carmine, che furono sequestrati e venduti per ordine della
commissione antibrigantaggio nel 1863; con il ricavato vennero effettuati
lavori di ristrutturazione dell’edificio.
Una volta, fermò un mercante di panni di Potenza confiscandogli una manciata di
ducati ma, subito dopo, gli restituì la somma. L’antropologo di scuola lombrosiana
Quirino Bianchi, autore di una biografia su Ninco Nanco, nonostante lo
considerasse un «brigante tanto feroce e di indole perversa», appartenente ad
una «famiglia degenerata», sostenne che, avendo pietà della miseria, intimò il
capobrigante Giuseppe Pace, detto il Castellanese, di smettere di minacciare di
morte i poveri, i quali non avevano la possibilità di sostenere le bande. Per
cinque anni in tutto il Vulture-Melfese e la valle di Vitalba (da Atella fino
al castello di Lagopesole) non ci fu un viaggio non disturbato dai briganti o
che non sfuggisse alla loro vigilanza.
Chi si avventurava senza una adeguata scorta armata (per esempio agli operai
addetti ai lavori di costruzione della strada Moliterno-Montalbano fu
predisposta una scorta armata) veniva sistematicamente depredato, come capitó
al corriere postale ai primi di giugno 1861 nel territorio di Venosa, o a
quello proveniente da Melfi nell’aprile 1864, o al saccheggio effettuato a
scapito di un carretto carico di sale e tabacco nel luglio 1862 ad opera delle
bande di Ninco Nanco e di Tortora. L’attività di Ninco Nanco iniziò a perdere
colpi l’8 febbraio 1864, quando la sua banda fu decimata presso Avigliano e 17
dei suoi uomini furono uccisi. Il 15 febbraio dello stesso anno, venne emessa una
taglia di 15.000 lire sul brigante. Circa un mese dopo, il 13 marzo, Ninco
Nanco e 2 dei suoi fedeli (uno di questi era suo fratello Francescantonio)
furono braccati nei pressi di Lagopesole dalla Guardia Nazionale di Avigliano.
Vennero giustiziati subito presso Frusci (frazione di Avigliano) e Ninco Nanco
morì per mano del caporale della G.N., Nicola Coviello, con due colpi di cui
uno dritto nella gola, per vendicarsi dell’assassinio del cognato compiuto dal
brigante aviglianese il 27 giugno 1863. Tuttavia, altre ipotesi ritengono che
il brigante venne ucciso per ordine del comandante della G.N. aviglianese, Don
Benedetto Corbo, appartenente ad una delle maggiori famiglie gentilizie della
zona, per evitare che venissero alla luce sue presunte connivenze con le bande.
Due mesi dopo, lo stesso Corbo fu coinvolto in un’altra vicenda di complicità
con i briganti e venne accusato dal generale Baligno, comandante delle truppe
di Basilicata, di aver rilasciato senza permesso alcuni briganti della banda
Ninco Nanco. Carmine Crocco raccontò nelle sue memorie che, venuto a conoscenza
della morte del suo luogotenente, decise di vendicarlo e, trovandosi nelle
vicinanze del posto in cui avvenne l’assassinio, preparò la punizione da
infliggere ai suoi esecutori ma, vedendo l’arrivo di un reggimento di soldati,
dovette abbandonare il piano. La salma di Ninco Nanco fu trasportata, il giorno
dopo, ad Avigliano e fu appesa all’Arco della Piazza come monito. Il giorno
seguente, il suo corpo fu portato a Potenza, ove venne seppellito. Deceduto il
brigante, i suoi uomini confluirono nella banda di Gerardo De Felice detto
“Ingiongiolo”, brigante di Oppido Lucano.
Per la morte di Ninco Nanco l’avv. De Carlo che ricopriva all’epoca la carica
di Sindaco del Comune di Avigliano, compose questo originale acrostico:
Ero e non son più, di sangue intriso
Corsi i campi ove sorge il Sacro Monte
Col ferro, il fuoco, lo sterminio e l’onte
O’ l’uman diritto e quel di Dio deriso.
Nessun
mi guardi con pietade in viso
Il nome di Cain mi bolle in fronte ;
Non rispettai del mio battesimo il fonte;
Crudel mi son su cento tombe assiso
Or del Carmelo la Patrona e Diva,
Non più soffrendo la mia fausta sorte,
Arcano, ausilio ad AViglian largiva;
Negar non posso che Colei può molto,
Che al di qua di quel Monte ebb’io la morte.
Oltre quel Monte è mio fratelsepolto.