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“1799: Le tre giornate di Napoli” intervento di Gianandrea de Antonellis

Posted by on Ago 12, 2023

“1799: Le tre giornate di Napoli” intervento di Gianandrea de Antonellis

Continuiamo a pubblicare gli interventi dei relatori dello storico convegno “1799: Le Tre Giornate di Napoli” su cui abbiamo già detto tutto, ed oggi seguendo l’ordine di intervento è la volta della relazione del Prof. Gianandrea de Antonellis che ci ha parlato di inediti su Elonora Fonseca Pimentel che ridimensionano l’alone di virtù che i giacobini napoletani le hanno messo intorno

Quando Ferdinando IV era Numa e non Claudio…

Gli scritti encomiastici della cortigiana
Eleonora Fonseca Pimentel

Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema

Una “santa laica”, icona del progressismo

La figura di Eleonora de Fonseca Pimentel è assurta, ai nostri giorni, allo status di “santa laica”, come ha affermato uno studioso super partes, essendo distante dalle beghe neogiacobine/neoborboniche/neosabaude: Edward Luttwak[1].

Di conseguenza, criticare questa icona del proto-femminismo è considerato un peccato degno di immediato castigo: se in Italia non si può parlare di Garibaldi, a Napoli è interdetto ogni giudizio che sia men che lusinghiero nei confronti della scrittrice iberica.

Del resto, la contrapposizione di Eleonora all’intera Casata dei Borbone di Napoli fu sancita a fine Ottocento da Mariano D’Alaya:

Ma un governo come quello non si contentava toglier vita e sostanze o tradizioni, fin procurava oscurare e infamare ancora; talmente che fece circolare nel popolo una canzone beffarda, che diceva non vivere più la bella Eleonora che ballava sul teatro e ora balla nel Mercato.

Ma Eleonora Fonseca, la quale riunì alle grazie di Saffo la filosofia di Platone, stimata dal Voltaire e dai letterati del tempo, vive e vivrà eternamente; morirono per sempre i Borbone di Napoli.[2]

Notevole l’accusa di “togliere le tradizioni” lanciata da un rivoluzionario (quando il governo giacobino, appena insediatosi, aveva stravolto tutto, anche il calendario!), ma soprattutto interessante l’affermazione finale: “vivrà eternamente”, appunto, come una “santa laica”.

*      *      *

Eleonora nacque a Roma il 13 gennaio 1752 in via Ripetta 22 dallo spagnolo don Clemente Henriquez de Fonseca Pimentel Chaves de Beja e dalla portoghese Caterina Lopez de Leon. Il padre si trasferì con la famiglia a Napoli nel 1756, per motivi che esulano la pretesa “persecuzione” papalina dei Portoghesi in seguito all’espulsione dei Gesuiti dal Portogallo, che avvenne tre anni più tardi (nel 1759) e che comunque non avrebbe dovuto interessare uno Spagnolo[3].

Il triste caso tribunalizio della separazione coniugale della trentaduenne Eleonora da Pasquale Tria de Solis ha comunque il pregio di offrirci uno spaccato della sua vita, attraverso le deposizioni dei testimoni che la conobbero:

l’itinerario elettivo che ella, nei primi anni della sua giovinezza, percorse fu quello colto, illuminato, cosmopolita che offriva la Napoli della seconda metà del XVIII secolo, in cui confluivano due tra i motivi ispiratori dell’epoca, la necessità di una riforma pedagogica che favorisse il diffondersi, accanto alla tradizione classica e giuridica, di una mentalità scientifica e tecnica e la fede nell’ingegno delle donne.[4]

Poliglotta e dai molteplici interessi, si dedicò in particolar modo alla traduzione e alla poesia (entrando nelle accademie dei Filaleti e dell’Arcadia), producendo vari lavori encomiastici, non pochi dei quali erano dedicati ai Reali di Napoli, nei quali dimostrò uno spiccato talento per l’adulazione. Nel 1785 ottenne la separazione e, soprattutto, un “sussidio mensuale” che le permise di vivere decorosamente e dedicarsi ai propri interessi.

Forse gli anni tra il 1785 ed il ’99 sono stati per Eleonora i più veri. Erano morti entrambi i genitori ed i fratelli Michele e Giuseppe si erano sposati. Fu allora che, pur essendo rimasta sola, conquistata la libertà ed una piccola indipendenza economica, poté disporre di una casa propria dove ricevere gli amici, realizzando il suo salotto di patrioti, e da questo lasciare maturare, poi, nella sua mente un ideale di libertà estesa a tutto un popolo oppresso.[5]

Nell’inciso qui sopra riportato non viene specificato, però, che tale indipendenza economica fu raggiunta grazie all’emo­lu­mento regio e al posto di bibliotecaria della Regina, cui non fece mancare (fino al 1799) le proprie sperticate lodi, come avremo modo di constatare.

Vicina agli ambienti illuministi e regalisti (nonché massonici) del suo tempo, si dichiarava sicura che i Sovrani illuminati avrebbero realizzato quelle riforme radicali tanto auspicate dalla sedicente “élite” progressista del tempo.

Forse non è inutile ricordare che la differenza tra vero progresso legato alla Tradizione e progressismo rivoluzionario consiste nel fatto che il primo è un costante miglioramento che prende il meglio (solo il meglio: non tutto!) del passato e lo adatta al momento presente («conservare il fuoco e non adorare le ceneri», secondo la bella frase attribuita a Gustav Mahler); mentre il progressismo rivoluzionario vuole fare tabula rasa del passato e creare una nuova società e un uomo “nuovo” partendo da zero. Magari anche annullando il calendario, come fecero i giacobini francesi e i loro imitatori napolitani.

Negli anni successivi al Terrore – quando la rivoluzione aveva prodotto i suoi frutti e di conseguenza le simpatie dei Monarchi partenopei nei confronti dei “novatori” si erano naturalmente raffreddate – Eleonora aveva continuato a mantenere un “salotto” di “patrioti”, sostenendo che il popolo dovesse essere educato (cioè indottrinato) al fine di emanciparlo e portarlo alla “libertà”. Quando, alla fine del 1798, la situazione a Napoli divenne drammatica, dopo la fuga in Sicilia del Re prima e del suo Vicario poi, la donna partecipò subito alla formazione del comitato centrale che favorì l’entrata dei Francesi a Napoli. Quindi diresse «Il Monitore Napolitano», il giornale ufficiale della Repubblica, che si pubblicò dal 2 febbraio all’8 giugno 1799, in 35 numeri bisettimanali.

Eleonora giornalista?

Sulla Fonseca Pimentel giornalista si sono riversati fiumi d’inchiostro: una donna al comando (almeno di fatto) del giornale ufficiale di una “repubblica sorella” era una novità.

Però, un direttore responsabile (anche se non ufficialmente tale) di una testata è, appunto, responsabile di quanto viene scritto sui fogli che dirige. Qui assistiamo a una dicotomia tra la Eleonora “teorica”, conscia che coloro che avevano più bisogno del giornale non sapevano leggere, per indottrinare i quali invocava «una gazetta in lingua vernacola colla quale istruire il minuto popolo»[6] ed il profluvio di riferimenti dotti alla storia romana di cui sono riempite le colonne del «Monitore» e che faranno esclamare a Vincenzo Cuoco:

Che sperare da quel linguaggio, che si teneva in tutt’i proclami diretti al nostro popolo? Finalmente siete liberi… Il popolo non sapeva ancora cosa era libertà: essa è un sentimento, e non un’idea; si fa provare coi fatti, non si dimostra colle parole… Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema… Era obbligato il popolo a saper la sto­ria Romana per conoscere la sua feli­cità?[7]

Giustamente Cuoco conclude:

Questo linguaggio può star bene in bocca di un conquistatore, che vo­glia nobilitare le sue conquiste; di un oratore che parli ad un’adunanza di oziosi; di un filosofo che parli agli al­tri filosofi: potrà esser anche il linguag­gio dello storico, che trasmetta alla po­sterità i risultati degli avvenimenti, ma non deve esser mai il linguaggio di un uomo, che parli al popolo e voglia muo­verlo.[8]

Al di là della buona fede presunta della giornalista, si deve notare come i tanti ideali da lei espressi rimanevano, appunto, solo ideali, vale a dire costruzioni intellettuali prive di contatto con la realtà.

Il «Monitore» aspirava ad essere uno strumento di “rinnovazione”, ma si confermava come una fucina di retorica, senza neanche rendersi conto delle contraddizioni che potevano apparire qualche riga dopo… Ecco che, ad esempio, martedì 5 febbraio 1799 (pardon, «settedì 17 piovoso anno VII della Libertà e I della Repubblica napoletana Una ed Indivisibile»), il secondo numero del «Monitore», dopo aver compianto «un paese che un Re fuggitivo e spergiuro à vilmente spogliato, e rovinato senza rispetto né per le proprietà particolari, né per quelle della Nazione, ed ha seco trasportato sui mari i tesori di quelli, che egli chiamava con impudenza suoi sudditi» ed aver spinto i Repubblicani a far «conoscere al Popolo gl’inapprez­zabili vantaggi» del nuovo regime, fa noto che, come prima misura dei “liberatori”, è stata decisa la «legge per l’imprestito forzoso»:

Art. 1. Sarà pagata all’armata Francese fra otto giorni una somma di due milioni, e mezzo di ducati a conto della contribuzione militare, ordinata dal Generale in Capo con suo decreto in data degli 8 Piovoso [27 gennaio].

Vantaggio davvero inapprezzabile…

Se non si fosse certi della buona fede (ovvero del fanatismo) di chi scriveva sul «Monitore», si potrebbe pensare a fine ironia, quando si fa riferimento all’eruzione del Vesuvio come a un giubilo della natura nel voler festeggiare l’arrivo dei “liberatori” francesi, giunti, come sappiamo, dopo tre sanguinose giornate di battaglie e un numero di morti che, a seconda delle stime, va dai cinque ai quindicimila morti; ma che nel resoconto “ufficiale”, vengono orwellianamente cancellati, facendoci sapere che la Repubblica Napolitana «ha avuto la felicità di essere formata lungi da’ turbini e dalle tempeste, e nel seno della pace interna, senza quasi alcuna effusione di sangue, sotto la protezione di un’armata vittoriosa e liberatrice». Ecco il testo completo:

I Patrioti, cioè gli amici della libertà, della eguaglianza, della umanità, oppressi da lungo tempo da un odioso Dispotismo, non attendevano che il giorno felice, che ha veduto fondare la Repubblica Napoletana.

La Repubblica Napoletana, creata sotto gli auspicj della gran Repubblica Francese, ha avuto la felicità di essere formata lungi da’ turbini e dalle tempeste, e nel seno della pace interna, senza quasi alcuna effusione di sangue, sotto la protezione di un’armata vittoriosa e liberatrice.

Il punto centrale dell’Impero ha data la commozione elettrica, che deve trasmettersi a tutt’i punti i più lontani. Napoli ha veduto piantare nelle sue mura l’albero felice della libertà, presagio de’ suoi destini. Lo stesso Vesuvio si è mostrato sensibile a questa gran rivoluzione politica, che dà l’esistenza ad un popolo, lungo tempo addormentato nel seno della tomba, ed i fuochi del Vulcano, che non erano comparsi da molti anni, han sembrato di volere aggiungere il loro splendore alla illuminazione di questa vasta Capitale.[9]

La lontananza dal vero popolo (quello che non sapeva parlare altra lingua che il dialetto e che non conosceva a menadito la storia romana) ritorna anche in passaggi come il seguente:

Se il nome di Fabrizio giunse a noi nei fasti dell’antica Repubblica di Roma segnato di tutto lo splendore delle civiche virtù, è ora segnato nella nascente Repubblica di Napoli del­l’infamia di tutti i vizi. Fabrizio è il capo masnada sedicente Cardinal Ruffo, Fabrizio è l’esoso tiranno‑Rabula Castel Cicala. Ma per quell’alta provvidenza, che opposte a gran vizj fa sempre sorger eccelse virtù, non ha quel dipartimento della Sagra, già Calabria ultra, smentita, l’energia ingenita ad ambe le valorose Calabrie.[10]

O come questo, in cui si allude alla regina Maria Carolina – un tempo benefattrice entusiasticamente esaltata in vari com­ponimenti poetici – con gli epiteti di “Aletto” e “Messalina”:

Tutt’i mali, che questa novella Aletto produsse al non suo paese, la rovina delle Finanze, la depravazione de’ costumi, l’ignoranza, e la barbarie, menate in trionfo, e protette da’ falsi devoti, e da’ piccoli Falaridi, che assistevano alle orgie della novella Messa­lina […].[11]

Può dunque considerarsi innovatrice e valida la responsabile di una rivista che predica la massima comprensione, l’aper­tura al “Popolo”, ma poi scrive come se declamasse nella sala dell’Arcadia?

Un capitolo a parte meriterebbe la trovata – molto poco professionale – di sbandierare sul giornale il nome di Luisa Sanfelice quale delatrice:

Una nostra egregia Cittadina Luisa Molina Sanfelice svelò venerdì sera al Governo la cospirazione di pochi non più scellerati che mentecatti, i quali fidando alla presenza della squadra Inglese, o di concerto con essa intendevano nel sabato massacrare il Governo, i buoni patrioti, e tentare indi una controrivoluzione. Capo del folle iniquo progetto era un tal Baccher tedesco di origine, addetto al commercio presso il Mercante Abbenanti, e che fu quella stessa notte arrestato, e condotto la mattina seguente, strascinando sotto il braccio le bandiere Regie, che furon trovate presso di lui.[12]

I risultati sono noti, con i fratelli Baccher brutalmente fucilati, in maniera fanatica (e oltretutto controproducente) mentre le armate del Cardinal Ruffo entravano in città e con il padre dei due martiri (il terzo fratello, il beato Placido Baccher, si sottrasse miracolosamente – in senso stretto – all’esecu­zio­ne) che pretese ed ottenne che non fosse concessa la grazia alla delatrice. Lascio il commento a uno studioso del periodo:

È la storia privata di Luisa Sanfelice che, dall’intimo dell’al­cova, cerca di salvare l’amante a cui tiene di più, senza pensare ai risvolti pubblici. La sventurata donna viene trascinata da Eleonora Fonseca Pimentel in una pubblicità non richiesta, né gradita. La storia non ha mai avuto il coraggio di sostenere che in tal modo la responsabilità morale di un’altra cosiddetta martire del ’99 è da attribuire alla fanatica giornalista. Ma tutti gli sforzi sono vani e alla repubblica agonizzante, priva di autorità, non resta che il Terrore. Come altrimenti giustificare l’inutile assassinio dei fratelli Baccher e di altri tre loro amici il 13 giugno, quando l’Armata del Cardinale Ruffo, vinta la battaglia al ponte della Maddalena, stava entrando nella Capitale? Un tribunale privo di legalità e senza appello condannò a morte e fece immediatamente eseguire la sentenza dei realisti in un apocalittico clima, caratterizzato dal fanatismo, che aveva ottenebrato le menti sconfitte del giacobinismo napoletano.[13]

Eleonora femminista?

Un altro luogo comune riguarda il proto-femminismo di Eleonora. Essendo donna e donna di potere, con una forzatura nel giudicare il passato con la mentalità del presente, tipica del nostro tempo, le si attribuiscono caratteristiche che il soggetto in questione non ha mai posseduto. Infatti, fino ai nostri giorni (intendo l’ultima decade del XXI secolo) l’affanno di rispettare “quote rosa” e superare il “test di Bechdel” non è mai esistito (almeno nella realtà).

Di conseguenza, anche Eleonora – che pure seppe meritoriamente farsi strada in un mondo in cui predominavano i maschi – non ebbe la smania di farsi notare “in quanto donna”, ma semplicemente in quanto persona talentuosa. Anzi, non mancano esempi in cui dimostrò di considerare il “bel sesso” un “sesso debole”, mal celando l’invidia verso i maschi.

Ecco come presenta la regina Maria Carolina ne Il tempio della Gloria (1768):

De’ Germani Superba Emulatrice

Vien dell’impaccio feminil sdegnosa

Carolina, ed ai gesti, ai sguardi indice

Qual gli bolla nel sen cura gloriosa.

Spira Maschio Valor, e già predice

Qual un giorno n’andrà chiara, e famosa,

In guisa tale alla natia dolcezza

Mista in quel volto è la viril fierezza.[14]

Però il culmine di questa subordinazione si ha nel sonetto Verrà, Donna Real, è in Ciel prescritto dedicato «A Maria Carolina, Regina delle Due Sicilie, per l’Augustissimo parto d’una seconda Bambina» nel 1773, in cui non cela il rammarico per la mancata nascita, per la seconda volta, di un maschietto: le principessine Maria Teresa e Luisa Maria Amalia sono soltanto due “aurore messaggere” del Sole, cioè dell’attesis­si­mo erede.

Non v’è alcuno scandalo e non si deve cercare di giustificare la poetessa perché “segue la mentalità del suo tempo”. In un mondo in cui, se capaci, potevano essere imperatrici anche donne come Caterina di Russia e Maria Teresa d’Austria (senza stravolgere la legge semisalica vigente), desiderare un erede maschio è una gioia di cui non ci si deve affatto vergognare, né allora né oggi.

Eleonora cortigiana?

Arriviamo all’ultimo punto. Se Eleonora fu discutibile come giornalista e non fu affatto una proto-femminista, ci si può chiedere se fu una cortigiana. Cerchiamo innanzitutto di chiarire cosa si intende con questo vocabolo, cortigiano, che ha almeno tre significati. Il vocabolario Treccani riporta al primo posto, come aggettivo:

Di corte, che riguarda le corti o chi sta in esse: costumi cortigiani. Lingua cortigiana, la lingua letteraria, «illustre», parlata nelle corti, contrapposta, nelle polemiche sull’origine e sul corretto uso della lingua sorte in Italia nel secolo XVI, alla lingua toscana o fiorentina.

Successivamente, come sostantivo, lo definisce:

Addetto alla corte con un grado onorifico o con qualche incarico di fiducia; frequentatore di una corte, gentiluomo di corte.

Infine, come terzo significato, lato e spregiativo, indica:

Persona di animo servile, portata alla simulazione e all’adula­zione opportunistica.

Volto al femminile, il termine definisce:

Propriamente, donna di corte. Già nel secolo XVI la parola fu usata a indicare donne di costumi liberi, non prive di cultura e raffinatezza. Per eufemismo, nell’uso letterario moderno, prostituta.

Anni fa, durante un convegno organizzato nel bicentenario del 1799, fui aspramente criticato per aver definito Eleonora Fonseca Pimentel cortigiana. Evidentemente, chi si scandalizzò del termine usato, ne conosceva solo l’ultimo valore, cioè lo considerava esclusivamente come sinonimo di prostituta.

Lungi da me, ovviamente, lanciare una simil accusa, di cui non avevo (e credo non esista) prova alcuna.

Però, cortigiana nel senso proprio della parola, cioè di donna di corte, Eleonora lo fu, eccome, avendo ricevuto dalla munificenza di Maria Carolina, in un momento di difficoltà successivo alla separazione dal marito e alla morte del padre, una sinecura come il compito di bibliotecaria della Regina.

E lo fu anche nel senso di persona portata all’adulazione, se leggiamo alcuni suoi componimenti encomiastici nei confronti della coppia regale. Ed è anche lecito parlare di simulazione, se, appena cambiata la sorte, la scrittrice usò la propria penna per lanciare violentissime invettive contro Ferdinando e Carolina:

Rediviva Poppea, tribade impura,

d’imbecille tiranno empia consorte…[15]

Così inizia un sonetto attribuito a Eleonora Pimentel Fonseca, scritto quando il favore regale era venuto meno. In precedenza, nel periodo in cui la scrittrice viveva presso la corte, con il ben remunerato incarico di bibliotecaria della Regina, i paragoni a cui veniva sottoposta la coppia regale erano assai diversi: infatti, anziché essere paragonato sprezzantemente a Nerone o a Claudio fuggitivo, Ferdinando IV di Borbone veniva definito da Eleonora Fonseca Pimentel come un nuovo Numa Pompilio. E la consorte Carolina, anziché a Poppea o a Messalina, veniva accostata alla ninfa Egeria, ma di lei ancor «più saggia».

Ciò accade, precisamente, nella chiusura del sonetto Cinto Alessandro la superba fronte[16], scritto in occasione della promulgazione degli statuti per la fabbrica di seta di San Leucio:

E d’innocenza, e di virtù perfetta,

Mentre Egeria più saggia a sé congiunge,

Novello Numa, nuove leggi ei detta.

Questi lusinghieri paragoni non sono, peraltro, gli unici che ricorrono nella produzione poetica della “intellettuale” portoghese; la divinizzazione della coppia regnante si era già riproposta in alcune opere precedenti: nel Tempio della Gloria, poema in ottava rima per le nozze di Ferdinando e Carolina (1770): nella cantata La nascita di Orfeo (1775), scritta in occasione della venuta al mondo del primo maschio (e quindi erede al trono, ma prematuramente scomparso) Carlo Tito (1775-1778); nel ben più tardo Il vero omaggio (1785).

Procediamo in ordine cronologico.

Il Tempio della Gloria (1768)

È il maggio 1768 e da Vienna giunge Maria Carolina Luisa Giuseppa Giovanna Antonia d’Asburgo-Lorena, nota più comunemente come Maria Carolina d’Austria, la nuova Regina di Napoli e di Sicilia.  L’avvenimento è troppo importante perché la poetessa arcadica Epolinfenora Olcesemante (anagramma di Eleonora Fonseca Pimentel), se lo lasci sfuggire: realizza un poema in 79 ottave in cui descrive un tempio, posto su un’incantevole isoletta sacra a Venere, dedicato alla Gloria, sulle cui pareti sono effigiati i principali eroi della specie umana di tutte le epoche e nazionalità: prima di tutto i saggi che ben governarono (Minosse, Licurgo, Solone, Aristide), poi generali, filosofi e condottieri in ordine sparso (Timoleone, Bruto I, Confucio, Ercole…), tra i quali emerge addirittura Odino; quindi gli imperatori (Nino, Ciro, Alessandro, Romolo, ma anche Annibale e Scipione). Da Enea alla stirpe dei Franchi il passo è breve: inizia quindi un profluvio di versi (ottave 31-68) in cui vengono esaltate le gesta di Merovingi, Carolingi e Capetingi (non escluso un sentito omaggio al Re Santo Luigi IX e alla bontà delle Crociate!), fino a giungere all’attuale Ferdinando (54-55).

Già rassembra Fernando, a quel ch’accolto

Lucido raggio ha di virtute in volto.

Già suda intento a sollevar l’oppresso,

A raffrenar l’usurpatore ingiusto,

Punir del vizio l’esecrando eccesso,

Vindice farsi, e difensor del giusto

Accorto, vigilante, ed indefesso

Volge al Publico ben il Core Augusto,

E già gode ciascun ne’ mali sui

Trovar l’Amico, e il Genitore in lui.

Parte quindi la descrizione della Casa d’Austria (56-68), in cui non manca neppure un omaggio a Filippo II («Della Spagnuola Monarchia il pondo | L’Austriaco sangue glorioso resse», 60), per poi giungere a Carolina, con i citati versi (ottava 67) che indicano come la poetessa fosse tutt’altro che una proto-femminista.

L’ultima ottava di questa sezione è dedicata alla progenie di eroi che da una tale unione non potrà che discendere. Quindi, convenuti tutti gli dèi in detto tempio, Giove parla, stabilendo le nozze tra Ferdinando e Carolina («Tra Borboni sen vada aurati Gigli | L’Aquila Austriaca a fabbricarsi il Nido», 75) onde assicurare pace e serenità al Regno, all’Italia, all’Europa tutta.

E con tali auspici, scusandosi per aver osato rivolgersi a tale solare coppia, la poetessa conclude il suo «Tributo umil di pura Fe’ sincera».

La nascita di Orfeo (1775)

Nella premessa, dopo aver ricordato che Orfeo non fu solo un musico sublime, ma anche un «fondatore di società e facitore di leggi», il primo a trarre dallo stato di natura l’umanità e a «fabbricare delle città, ed a raccogliervi in socievole abitazione i barbari allora e selvaggi abitatori della Grecia», l’autri­ce scrive:

Distendendo a tutta la terra quanto ne vien riferito della sola Grecia, ci è sembrata la nascita di Orfeo sim­bolo ben conveniente per celebrare la faustissima nascita del Real Principe Ereditario delle due Sicilie; impercioc­ché, siccome Orfeo, figlio del Dio del sapere e della più degna fra le Muse, unì e dirozzò le prime società, così il Principe Carlo Borbone, figlio di due gloriosissimi So­vrani, e germe di due augustissime Reali prosapie, per­fezionando l’opera di Orfeo, e traendo a fine ciò, che hanno i suoi maggiori saviamente incominciato, correggerà gli abusi della società e la innalzerà all’ultimo imperturbabile stato di felicità e di perfezione. I mezzi, che l’uno e l’altro adopreranno all’eseguimento di così gloriosa impresa, for­mano il soggetto della presente cantata.[17]

 Dopo aver esaltata la nascita dell’infante Orfeo, Giove smorza apparentemente gli animi dicendo che tutta la sua sagacia non basterà a risolvere i problemi degli abitanti della Terra:

lunga è l’impresa,

or l’incomincia Orfeo,

altri la compirà

«E quando avverrà ciò?», chiedono ansiosi i numi. «Passerà molto tempo», risponde l’altitonante rivolgendosi a Venere:

allora

due protette da me Famiglie invitte

che sostegno e decoro

alle virtù destino

ricche di bei germogli, in due più cari

fiorir vedransi; e quindi

lieto Fernando il gran borbonio stelo

ed indi Carolina

l’Austriaco renderà […].

Sono care agli dèi le dinastie dei Borbone e degli Asburgo, e i loro più degni fiori, Ferdinando e Carolina, emulo l’uno di Apollo e l’altra di Calliope, uniti in matrimonio non possono che generare un eroe ancor più grande:

da questi

nascer Carlo dovrà, nome serbato

a distinguer gli eroi, Carlo ch’è solo

la gran mente de’ fati

eletto ad eseguir, rifletti adesso

da chi nasca, chi sia, e dimmi poi

se ambir poteano al figlio

fregio più luminoso i voti tui,

che il grande onor di somigliarsi a lui.

Il povero Carlo Tito, destinato rinnovare «la prisca età del­l’oro», purtroppo sarebbe sopravvissuto meno di quattro anni.

Ma se lodare un infante rallegra i genitori, ancor più lucroso è lodare direttamente tali parenti. Quindi Pallade assicura che «l’età di Fernando | ogni altra avanzerà», stante che la dea si adoprerà in prima persona («io di Fernando | fida compagna al fianco | dividerò i consigli»; se necessario, padre e figlio si faranno strada letteralmente a cannonate:

apprenderanno

per lui vibrati a volo

da concavi metalli ardenti globi

fidi ministri de’ reali sdegni

a fulminar per nove strade i regni

Terminato che Pallade ha d’incensare il Re, Venere inizia ad elogiare la Regina, promettendo di rendere la sua «severa virtù» così ripiena della sua (di Venere) bellezza,

che de’ suoi sguardi

solo al soave e maestoso lume

ogni alma cangerà voglia e costume.

Non bastando l’elogio ai genitori del regale pargolo, vengono chiamati in causa anche i nonni: Maria Teresa d’Austria e Carlo III (al quale si era già accennato affermando «Carlo | nome serbato | a distinguer gli eroi». Comunque, visti i difficili rapporti tra il Re di Napoli ed il suo augusto genitore, meglio chiudere l’operina con un ulteriore omaggio al Monarca vicino; così, dopo numerosi «viva Carlo», la chiusura è nel nome di Ferdinando:

E col nome di Fernando

ripetendolo devoti

poi dagli avi più lontani

lieti apprendano i nepoti

il gran nome a celebrar.

Il vero omaggio (1785)

Dal 30 aprile al 7 settembre 1785 Ferdinando e Carolina compirono un viaggio per varie contrade del Regno. Durante la loro assenza Eleonora ottenne la separazione dal marito e – soprattutto – chiese «alla regal clemenza»[18] ed ottenne in breve tempo[19] un “sussidio mensuale”, inizialmente di 12 ducati, successivamente più che raddoppiati[20].

Per ringraziarli della concessione, la poetessa lusitana dedica loro una cantata, musicata forse dall’ischitano Silvestro Di Palma (1754-1834), allievo di Paisiello[21], in cui profonde la sua vena cortigiana, divinizzando la coppia regale.

Ecco, dunque, che in apertura dell’opera si afferma: «I nostri Dei tornarono»; si prosegue evidenziando come la presenza stessa dei Monarchi renda fertile la terra e fecondo il regno; dal canto suo, Ferdinando è più splendido di Don Giovanni d’Austria vittorioso a Lepanto e addirittura, assieme alla consorte, è assurto di nuovo alla divinità:

Quando la nobil prora

L’augusta Coppia alteramente ascese,

Deitadi novelle il mar le accolse.

Per tali recenti numi la Reggia di Caserta è un secondo Olimpo e la «Eccelsa Carolina» è definita in pochi versi «Germe di Semidei», «Donna immortal» e due volte «Donn’augusta». La stessa città di Partenope si può dir fortunatissima: «Ed or felice sei, | Che ti reggon due Dei». E l’intera terra napolitana viene spinta alle grandi avventure, ispirata dal comportamento di Ferdinando, noto studioso:

Spiega per l’acque il volo

Navigatrice ardita;

E gli ozj dilettosi a sdegno prendi,

E i faticosi spirti,

E i chiari studj del tuo Prence imita.

La stucchevole sviolinata si conclude con l’augurio che, invecchiato come Nestore, Ferdinando veda la sua prole andar «d’Europa i regni […] Felice a ricoprir».

Conclusioni

Leggendo le poesie di Eleonora Fonseca Pimentel non si può non condividere il lapidario giudizio che ne dette Benedetto Croce: «sebbene la passione politica fosse nuova, la sua letteratura era vecchia»[22], né le era possibile sostituirla agevolmente con nuove fantasie, nuovi ritmi, o nuove parole. La forma poetica di imitazione metastasiana non piacque allo studioso di Pescasseroli, il quale concluse che «letterariamente parlando, i giacobini portavano ancora il codino»[23].

Al di là (e al di sopra) della questione letteraria, però, rimane la questione umana: come giudicare una persona che ha incensato un Sovrano finché le è stato utile, profondendo versi di elogio dal tono addirittura spudorato («anzi, maravigliosi», verrebbe da dire citando la meretrice Taide, condannata all’inferno da Dante in quanto adulatrice), per poi coprirlo di contumelie appena caduto in disgrazia?

Sicuramente la figura di Eleonora Fonseca Pimentel viene fortemente ridimensionata dalla lettura delle sue prove artistiche. Ricordiamo che ella nacque nel 1752: ciò significa che aveva trentatré anni quando divinizzava la «regal coppia» ne Il vero omaggio e trentasette quando paragonava Ferdinando a Numa e Maria Carolina alla ninfa Egeria. Non si tratta quindi di scritti che possano essere liquidati come il parto letterario di una ragazzina esaltata – come si potrebbe fare per l’epitalamo per le nozze reali, scritto a sedici anni – ma devono essere considerati lavori realizzati da una persona pienamente matura[24].

In conclusione, non trovo migliore commento di quello espresso nel 1890 da Michele Arcella, che giustamente fustigò certi “Bruti” dell’ultim’ora. Dopo aver riportato – in una breve antologia di testi inediti o… “dimenticati” – la poesia encomiastica Verrà, Donna Real, è in Ciel prescritto, immaginando lo stupore dei lettori del suo tempo, ricorda le altre opere “cortigiane” di Eleonora e quindi conclude:

E poi quando

Cadde Seiano, e sorsero

I Bruti cinguettando,

anch’ella, al paro dell’altro Catone in miniatura, Luigi Serio[25], nel famoso «Monitore» la caricò di contumelie e di ogni sorta di oltraggi. Che non si conosca un principe, che non si sia le­vato mai lo sguardo sino al culmine del fasto sociale, e se ne voglia tener un giudizio sfavorevole, vada pure: ciò non esce dai confini della sana logica; ma conoscerlo, adularlo, sol­lecitarne favori e beneficii, e poi tramarne la rovina; è uno splendido esempio che solo i pretesi riformatori del mondo ci porgono, solo coloro che si vantano “vasi” di tutte le virtù civili, siccome ne abbiam veduti parecchi di obbrobriosa me­moria, anche nella catastrofe del 1860, massime fra i condot­tieri dell’eser­cito. Onde ben disse il Giusti:

Vedrai, che l’uom di setta è sempre quello;

Pronto a giocar di tutti, e a dire addio

Al conoscente, all’amico e al fratello.[26]


[1] Edward Luttwak, Il mio Bush «giacobino», Corriere del Mezzogiorno, 19 gennaio 2005. Così scriveva lo studioso statunitense: «Comunque vorrei rassicurare i difensori dell’augusta memoria di Eleonora Pimentel Fonseca, evidentemente ormai assunta a santità laica dimenticando o, peggio, ignorando i severi giudizi di Croce e più dettagliatamente la spietata denuncia di Cuoco: non l’ho citata nell’articolo, né tantomeno l’ho paragonata al presidente George Walker Bush…».

[2] Mariano D’Ayala, Vite degl’Italiani benemeriti della libertà e della patria. Uccisi dal carnefice, Bocca, Torino 1883, p. 296.

[3] «Contrariamente a quanto viene riportato nelle biografie a lei relative, Eleonora si trasferì a Napoli con la sua famiglia nel 1756 all’età di quattro anni e non di otto; è probabile che l’errore cronologico trovi le sue ragioni nella volontà di voler far individuare la causa del trasferimento della famiglia in un problema politico che coinvolse i portoghesi allora residenti nello Stato della Chiesa». Antonella Orefice, Eleonora de Fonseca Pimentel – La rivoluzione al femminile, in «Nuovo Monitore Napoletano», 7 Marzo 2013, ‹www.nuovomonitorenapoletano.it› [04.01.2023].

[4] Cinzia Cassani, voce Eleonora de Fonseca Pimentel, Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 48 (1997).

[5] Antonella Orefice, op. cit.

[6] «Propongo dunque, che in lingua vernacola per ora, giacché per ora altra lingua il minuto Popolo non intende, sia in ogni settimana fatto un piccolo giornale contenente l’estratto di tutte le nostre notizie, ed anche di quelle tra l’estere che sembrino importanti; più, l’estratto delle leggi ed operazioni più interessanti del Governo, con a ciascuna le opportune istruzioni; e dilucidazioni: che questo foglio sia ne’ dì festivi letto in tutte le Chiese di Città, e di Campagna; che le sei nostre Municipalità tengano ciascuna degli uomini pagati apposta per leggerlo il dopo‑pranzo ne’ gruppi del popolo: che questo metodo della centrale sia comune a’ dipartimenti. Rammento a’ nostri degni Rappresentanti, ch’egli è non solo utile, ma d’intrinseco dovere nella democrazia, che il popolo sia inteso de’ fatti, e posto in istato di giudicarne; altrimenti come vi prenderà interesse? Rammento che l’Assemblea costituente, prima Madre, ed ingeneratrice dello spirito pubblico di questi stessi mezzi si servì per eccitarlo. Conchiudo in fine: l’istruzione teorica fa qualche filosofo, la sola istruzione pratica fa le nazioni». «Monitore», n. 10.

[7] Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, §. XIX, Milano 1801, II, p. 35.

[8] Ivi, p. 36n.

[9] «Monitore», supplemento al n. 2.

[10] «Monitore», n. 8. Da notare la immediata (legge del 21 piovoso, alias 9 febbraio) decisione di cambiare i nomi a tutte le Province del Regno, non solo definendole Dipartimenti (alla moda parigina), ma anche battezzandoli con nomi di fiumi (e del Vesuvio). Cfr. «Monitore», n. 4 (12 febbraio).

[11] «Monitore», n. 1.

[12] «Monitore», n. 19 del 13 aprile 1799, alias quartodì 24 germile anno VII.

[13] Francesco Maurizio Di Giovine, Il 1799, cap. Analisi di una esperienza, Controcorrente, Napoli, in corso di pubblicazione.

[14] Il tempio della Gloria, ottava 67. Corsivi miei.

[15] Incipit di un sonetto di invettive contro la regina Maria Carolina, composto nel 1798 nella prigione della Vicaria, insieme al perduto Inno alla libertà, recitato in Sant’Elmo nel gennaio 1799, oggi introvabile ma menzionato nel n. 14 (23 marzo 1799) del «Monitore napolitano», in cui si legge: «La Cittadina Pimentel recitò in un’altra un inno alla libertà, da lei composto in S. Eramo, allorché i valorosi Cittadini colà rinchiusi e co’ quali er’anch’ella, la proclamarono i primi; ed un sonetto fatto durante la sua prigionia nella Vicaria. Tutta la sala replicò con lei le strofe di odio ai Re, e di giuramento alla libertà: quindi prima di scendere, soggiunse: Proprio della democrazia, e perciò della vera libertà, è render i popoli dolci, indulgenti, generosi, magnanimi. All’indulgenza con cui mi avete ascoltata, al generoso favore, che colla voce, e colle mani mi dimostrate, conosco, che Napoli è libera». Il testo completo del sonetto chiude questa antologia. Superfluo sottolineare come il riferimento alla “indulgenza, generosità e magnanimità” contrasti nettamente con la ferocia dimostrata nei fatti dai tribunali rivoluzionari.

[16] Componimenti poetici, per le leggi date alla nuova popolazione di Santo Leucio da Ferdinando IV re delle Sicilie, Napoli 1789, p. 123.

[17] La nascita di Orfeo, Argomento.

[18] Lettera al Marchese Tontulo, Regio Consigliere Delegato, 7 giugno 1785. Cfr. Elena Urgnani, La vicenda letteraria e politica di Eleonora de Fonseca Pimentel, La città del sole, Napoli 1998, p. 289.

[19] La richiesta fu effettuata il 7 giugno, la riposta positiva giunse il 16 agosto.

[20] «Nel corso di quell’anno, il giudice Tontulo, nel provvedimento di deduzione patrimoniale di Don Pasquale [Tria de Solis, marito di Eleonora], le assegnò altri 191,68 ducati annuali [cioè circa 16 mensili], sicché alla fine ella poté disporre di circa 31 [ma: 12+16=28] ducati al mese, quanto bastava per assicurarsi un’esistenza decorosa». Elena Urgnani, op. cit., p. 288.

[21] Mariano Ayala, op. cit., p. 288-289.

[22] Benedetto Croce, Aneddoti di varia letteratura, Laterza, Bari 1930, p. 143.

[23] Ibid.

[24] L’immaginario collettivo tende a considerare la “santa laica” Eleonora dotata anche di eterna giovinezza: si pensi al film Il resto di niente (2004), in cui la scrittrice è interpretata da Maria de Medeiros, allora trentanovenne. In realtà la donna che salì sul palco aveva quarantasette anni e sette mesi: quindi non era affatto una fanciulla facilmente illusasi per il vento di novità spirante d’Oltralpe, bensì una persona di quasi mezzo secolo dalla quale ci si sarebbe attesa maggiore riflessione e coerenza.

[25] Anche Luigi Serio (1744-1799) – noto soprattutto per il Vernacchio (1780), polemica risposta vernacolare alla grammatica napoletana di Ferdinando Galiani dell’anno precedente (testo recentemente ripubblicato con traduzione e commento a cura di Domenico Scafoglio e Rosa Troiano nella collana «Le onde del Sebeto» per i tipi di questa stessa casa editrice) – prima di realizzare nel 1799 l’Inno del cittadino («Da cantarsi nel Gran Teatro nazionale di Napoli per la vittoria riportata sul Po dall’esercito francese sopra gli Austro-Russi»), aveva scritto, oltre a vari componimenti in onore dell’aristocrazia napolitana, la cantata Nella faustissima occasione in cui il Re Nostro Signore entra negli anni di sua età maggiore (1767), la canzoncella in napoletano N’accasione de la nascita de le primmo gneneto Rejale Carluccio, figlio de Ferdenanno IV Rre de Napole (1775); la Canzonetta per la nascita del reale infante secondogenito Francesco Borbone (1777); Per l’inoculazione di Ferdinando IV Re delle Due Sicilie (1778); Ammore mparagone pe la nasceta de lo Secunnogeneto de lo Rre nuosto (1780); i sonetti Per l’augustissima defunta Maria Teresa d’Austria (1781); l’epitalamio Per le nozze delle altezze loro reali Teresa e Luisa di Borbone, Francesco e Ferdinando d’Austria (1790). Cfr. Raffaele Giglio, voce Luigi Serio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 92 (2018).

[26] Un pugno di gemme. Raccolta di documenti storici e di versi inediti o dimenticati, pubblicati a cura del Cav. Michele Arcella, Rinaldi e Sellitto, Napoli 1890, p. 60. Il distico iniziale di Giusti fa parte dell’ode Dello scrivere per le gazzette; la terzina finale proviene dal sonetto Se leggi Ricordano Malespini. Cfr. Giuseppe Giusti, Versi editi ed inediti, Felice Le Monnier, Firenze 1852, rispettivamente p. 311 e 330.

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