8 DICEMBRE 1861 – QUANDO L’IMMACOLATA CONCEZIONE DISSE NO ALL’UNITA’ D’ITALIA
“Quel dì 8 dicembre fu sacro a maggiore sventura. A Torre del Greco celebrandosi la festa dell’Immacolata, i camorristi italianissimi, indarno opponendosi il preposito, canonico Noto, svestirono la Vergine e, sacrilegamente, l’addobbarono di massoniche insegne, con la tricolorata fascia, a guisa de’ loro delegati poliziotti.
E così volean menarla a processione, e ‘l facevano, se un castigo di Dio nell’ora stessa nol vietava. Limpido era il cielo, dolce l’aere, poco mancava al meriggio, quando improvvisamente sotterranee frequenti scosse, pria lievi, poi gravi, travagliarono la vesuviana mole. Mugghia il monte e geme, sinché sull’ore tre, con gran fracasso si squarcia ne’ fianchi e getta nugoli di smisurato fumo, che alzatosi alla vetta, a forma d’immenso pino lo copre. Sembra fitta notte … Fu grandissima sventura con grandi disagi e perdite di roba, ma non pericolò uomo; onde questo e lo arrestamento della lava ascrissero a miracolo dell’Immacolata”.
Con queste parole, (brevemente trascritte eliminando la minuziosa descrizione, peraltro alquanto imprecisa, dell’eruzione e delle sue conseguenze su Torre del Greco), Giacinto de Sivo ci racconta in modo molto succinto del grave episodio verificatosi nella chiesa parrocchiale di Santa Croce di Torre del Greco appunto.
Prima di descrivere più doviziosamente questo episodio, unitamente ad un altro di altro genere e che vede protagonista Sua Maestà Francesco II al suo primo anno di esilio.
Dunque, l’azione si svolge a Torre del Greco; piccolo paesino (al tempo) amato per il suo clima e invidiato per la sua posizione al centro del golfo di Napoli. Signoria di Sergianni Caracciolo, dal 1418 al 1420, e della nobile famiglia Carafa del ramo della Stadera, dal 1420 al 1699; città amata da Alfonso d’Aragona; devotissima a Re Carlo di Borbone e ai suoi discendenti fino all’amatissimo quanto sfortunato Francesco II, dai quali tanto ha ricevuto.
Come era pia usanza e devozione almeno dal ‘500, tutti i torresi erano convenuti nella parrocchiale chiesa di Santa Croce per onorare la loro Patrona, la Patrona del loro ex Regno. (Già dal 1500 è documentato il culto della Concezione Immacolata di Maria a Torre del Greco, col la presenza di una cappella a Lei dedicata nella vecchia chiesa parrocchiale distrutta nell’eruzione del Vesuvio del 15 giugniìo 1794). Si era nel pieno delle celebrazioni, quando all’improvviso fece irruzione in chiesa un gruppo di donne. Erano delle donne poco raccomandabili e per i loro costumi e per essere molto conosciute in ambienti malavitosi; si trattava di Marianna De Crescenzo, cugina del più famoso Salvatore De Crescenzo (alias Tore ‘e Croscienzo), e di un gruppo di donne della sua risma, accompagnate da un folto gruppetto di galanuomini.
Si avvicinarono alla statua della Vergine, cominciarono a spogliarla dei paramenti e ad addobbarla con fasce e coccarde tricolori, cercando di imporre che si facesse una processione. Il parroco Don Salvatore Noto e altri fedeli, poco o nulla potettero contro quelle “fanatiche indiavolate” e i loro scagnozzi armati di tutto punto. “Abbiamo detto che la Madonna esce in processione così, e così sarà. Tutti devono vedere che anche la Madonna è italiana. Niente e nessuno ci fermerà, nemmeno un castigo di Dio”.
Ci pensò Lei, l’Immacolata. In quel preciso momento, durante il trambusto, si avvertì forte una scossa di terremoto, la paura appianò ogni diverbio e impedì il grande sacrilegio. Si racconta, da testimoni del tempo e da qualche appunto scritto dal parroco, su una sorta di piccolo diario, che l’assortito gruppo di malavitosi fuggì di gran corsa lungo l’antica strada di Capo Torre. I torresi fecero voto all’Immacolata, se li avesse protetti dalla furia del Vesuvio, di portarla in processione per tutta la città, ogni anno in quel giorno. Ancora oggi quella promessa viene mantenuta con lo stesso ardore e devozione.
E qui ci si pone una domanda che non ha ancora trovato ancora risposta tra le carte conservate nei vari archivi (ma le ricerche continuano): “Perché la Sangiuvannara e la sua cricca vennero proprio a Torre del Greco”? Penso che a Torre del Greco, nonostante un nutrito gruppo di ascari che detenevano il potere al comune, vi fosse uno zoccolo duro dell’animo borbonico della città, costituito dal clero, dalla media borghesia e da quasi tutto il popolo. E la riprova di questo mio pensare, potrebbe essere un altro episodio accaduto nella stessa circostanza di quella eruzione vesuviana.
Avvenne che Sua Maestà Francesco II, esule da meno di un anno a Roma, saputo dell’eruzione e dei danni da essa causati alla città, volle (nonostante le ristrettezze dovute alla perdita del suo patrimonio personale, ad opera dei grassatori piemontesi) mandare un contributo di 800 ducati per aiutare il popolo torrese. La somma era allegata ad una lettera datata 15 dicembre e diretta all’Arcivescovo di Napoli, il Cardinale Sisto Riario Sforza, nella quale il Re esterna la sua tangibile solidarietà al popolo torrese colpito dall’eruzione. Ecco la trascrizione della lettera:
Eminenza,
Come a Pastore della Diocesi a cui appartiene Torre del Greco, trasmetto a Vostra Eminenza una somma di ottocento scudi, nel mio nome e nel nome della Regina, per aiuto di quelli infelici danneggiati. Non vi è una lagrima de’ miei sudditi che non ricada sul mio cuore, e non penso alla mia povertà, che quando, come adesso, m’impedisce di fare il bene che ho desiderato sempre con passione. Una nuova calamità è venuta ad aggiungere crudeli sventure alle tante che colpiscono i miei popoli. Gli abitanti di una città vicina alla mia capitale errano desolati ne’ rigori del verno, intorno a’ loro focolari distrutti. Torre del Greco rassomiglia a Pontelandolfo e Casalduni; meno misera sol perché non può rigettare su gli uomini l’atrocità della sua ruina. Sa già l’E.V. quello che la iniquità ed il tradimento han fatto della mia Corona. Sovrano proscritto, non posso accorrere in mezzo ai miei sudditi, per sollevare le loro pene. II potere del Re delle Due Sicilie è paralizzato, e le sue risorse sono quelle di un esiliato che non ha portato con sé, nel lasciare la terra in cui riposano i suoi avi, che il suo imperituro amore per la patria perduta. Ma per quanto grande sia la mia rovina, per quanto deboli siano le mie risorse, Re sono, e debbo l’ultima goccia del mio sangue, ed il mio ultimo scudo a’ miei popoli; e l’obolo del povero che oggi gl’invio, avrà, forse, più valore a’ loro occhi, che tutto quello che in tempi più prosperi, che certo ritorneranno, potrò fare per soccorrere le loro sventure.
Di vostra Eminenza Aff.mo.
FRANCESCO
Quando arrivarono i soldi a Torre del Greco, fu imposto al consiglio comunale, dai pochi eletti e deputati ascari (guidati dal sacerdote Pietro Palomba, amico di Garibaldi e, poi, deputato al Regno d’Italia), di rifiutare quel denaro perché “sporco del sangue del popolo” e “frutto di tirannia e vessazioni”. Ed evitarono in tutti i modi di far trapelare la notizia, dando, per contro, gran risonanza agli aiuti che pervennero da tutta Italia. Però qualcosa si seppe, come sempre accade, tanto più che i soldi inviati dal Re arrivarono lo stesso a Torre del Greco e, forse, furono quelli assegnati ai veramente bisognosi. Eh si, i soldi del Re arrivarono a Torre tramite l’Arcivescovo che, attraverso i sacerdoti, provvide alla bisogna. Inoltre, nel febbraio seguente un nutrito gruppo di torresi, provvide, tramite lettera indirizzata all’Osservatore Romano, a ringraziare il Re e ad esternargli l’amore e la fedeltà del popolo torrese. Ecco la trascrizione di quella lettera:
“Pregiatissimo Signor Direttore
Torre del Greco li 5 febbraio 1862.
Per quanto ne so e posso, le rendo infinite grazie a nome del popolo torrese, perché si è compiaciuta di far di pubblica ragione nel suo egregio giornale la risposta che esso popolo faceva a quella vergognosa e bugiarda protesta del Municipio e della guardia nazionale. Non mi ho parole per esprimerle da quanta gioia è stato compreso questo buon popolo nel vedersi così rinfrancato dall’onta che gli si voleva gittar sulla faccia. Intanto abusando della sua cortesia mi fo oso di pregarla a compire l’impresa col pubblicare pure la lettera seguente, che a quest’ora forse già si trova nelle mani dell’ottimo Re Francesco II, inviatagli sotto la data del 5 corrente.
Eccola.
“Maestà,
Niuno, che ben fatto sia di cuore e non abbia la mente travolta nel putrido lezzo delle odierne vergogne, aveva mai dubitato della magnanimità del cuore di Vostra Maestà, nata a grandi imprese ed educata a nobili e generosi sentimenti. Pruove non dubbie in quei pochi mesi che fummo da V. M. paternamente governati, avean ciò mostro con tanta evidenza da non cercar più innanzi. Ma quest’ultimo atto, col quale V. M. dalla terra del suo esilio s’intenerisce delle miserie dei suoi sudditi colpiti dalla sventura, e con cuore di vero Padre si priva del suo per soccorrerli generosamente, è di tal natura da far chiaro a tutto il mondo, chi sia Re, cui la Divina Provvidenza e non il cotanto decantato voto popolare, ha affidato le sorti di una nazione. Si, Maestà, i poveri di Torre del Greco non si seppero contenere dalle lagrime per tanta pietà che splende nell’animo di Lei; essi han mille volte benedetta quella mano paterna che li soccorre: e se ancora deplorano la loro sventura, ciò è che van ripetendo di continuo non sarebbe questa così dura e crudele, se la iniquità di uomini snaturati e traditori non avesse violentemente strappata V. M. dalle braccia del suo popolo. Né creda V. M. a quella sfacciata protesta sottoscritta da pochi consiglieri di questo Municipio. Essa è menzognera e crudele, ed anziché essere la espressione della volontà del popolo torrese e dello stesso Municipio, è invece opera di un uomo solo, obbrobrio e rifiuto della stirpe umana; è opera di un così detto deputato del Parlamento, che obbligò quei pochi consiglieri municipali ad apporre vilmente il loro nome a quel sozzo e schifoso documento- il vero popolo torrese n’è altamente indegnato e lo condanna; e nella gratitudine del suo animo fa voti ardentissimi al Signore per la felicità di V. M. alla cui sudditanza si reputa fortunatissimo di appartenere.
E qui prostrati ai piedi di Lei le baciamo con filiale affetto la destra e ci diciamo per la vita.
Di Vostra Maestà Reale
Umilissimi, obbedientissimi e devotissimi sudditi”
(seguono numerose firme)
A riprova della “spietata tirannia borbonica” mi preme segnalare come i vari Sovrani hanno “tiranneggiato e vessato”, nella fattispecie, Torre del Greco:
- Ferdinando IV, tra il 1789 e il 1790, per tutelare principalmente, gli interessi degli armatori di barche coralline, dei pescatori e dei lavoranti del corallo di Trapani e di Torre del Greco, si fece promotore della nascita della “Reale Compagnia del Corallo” e della promulgazione del “Codice Corallino”.
- In occasione dell’eruzione del Vesuvio del 16 giugno 1794, propose agli abitanti di Torre del Greco di lasciare la città, quasi tutta distrutta, e di stabilirsi in altri luoghi. Al rifiuto dei torresi, concesse loro generosi aiuti per il sostentamento e la ricostruzione; inoltre, ordinò all’Intendente di Portici di provvedere all’istituzione di un prestito con tassi di interesse bassissimi, restituzione solo della metà e a cominciare dal secondo anno.
- La chiesa parrocchiale di Santa Croce fu ricostruita anche con il generoso contributo di Ferdinando I e Francesco I (spesso ospite a Torre); inoltre, Ferdinando I donò ai torresi la statua dell’Immacolata Concezione che tuttora si venera nella detta chiesa.
- Ferdinando II, oltre a somme di denaro e a materiali da costruzione, provvide, con appositi provvedimenti, ad agevolare fiscalmente i corallari, gli agricoltori e i commercianti; fece dono anche di una grande campana, che ancora oggi fa sentire la sua voce.
Piero Di Stasio
un post che sembra quasi un romanzo per le vicende e il pathos di cui narra…e si vorrebbe ancora nascondere?!…col senno di poi vien da dire: meno male che esiste la Stampa, specie nei tempi bui…di oggi e soprattutto di ieri! con ritardo… ma la verità emerge sempre!..e mentre penso di girarlo ad amici, vi ringrazio! caterina ossi