8 – I giochi invernali – Seconda parte
IL GIOCO DELLE “CASTELLE”
Questo gioco, come quelli del palmo e muro, del palmo e zirracchio e del quadrato si svolgeva tra novembre e gennaio. Si stabiliva una posta iniziale, quindi, con una nocciola (o – come variante – un nocciolo di pesca) si effettuava un tiro che aveva lo scopo di portare il proiettile nei pressi di una linea precedentemente tracciata. Colui che fosse riuscito a collocare la nocciola più vicino a tale linea aveva la precedenza nel colpire le castelle. Gli altri turni venivano stabiliti sempre in base alla maggiore vicinanza alla linea.
Ma cosa erano queste castelle?
Erano una specie di piramide con alla base tre nocciole (o noccioli di pesca) poste all’incirca a 120° ed una quarta posta sopra. Ogni gruppo così composto formava una castella. Queste, secondo la posta fissata in precedenza, venivano collocate l’una a fianco dell’altra, assumendo alla fine della sistemazione, quasi l’aspetto di una scogliera in miniatura. Quando tra i giocatori non era presente qualcuno notoriamente bravo, si poteva anche decidere di giocare col capitanio, cioè una castella posta ad una distanza di 10 – 15 centimetri davanti alla fila. Colui che fosse riuscito a centrare [1] il capitanio si aggiudicava tutte le castelle, senza dover effettuare tiri successivi.
Il gioco, comunque (tranne l’eccezione del citato capitanio), aveva come fine quello di venire in possesso di tante castelle quante se ne riuscisse a colpire. Poteva capitare di non colpire alcunché al primo tiro. Allora il proiettile (pallone) rotolava lontano dal bersaglio. Una volta che tutti i giocatori avevano effettuato il primo tiro secondo l’ordine in cui si erano piazzati all’inizio, il gioco riprendeva a ritroso e rispettando sempre il turno. Questa volta, però, c’era una condizione da rispettare che consisteva nel dover colpire il bersaglio non più facendo rotolare il pallone, ma con un tiro dall’alto in basso, o, per dirla alla nostra maniera, a coppamano. Se durante questa seconda serie di tiri la fila delle castelle aveva subito qualche notevole assottigliamento, si poteva decidere di aggiungerne altre in numero uguale per tutti. E il gioco riprendeva.
Con le nocciole si faceva anche un altro gioco: la fossetta. Il gioco, prettamente femminile, consisteva nello scavare una piccola buca per terra e stabilire poi l’ordine dei tiri con la solita linea alla quale ci si doveva avvicinare il più possibile. Successivamente tutti i partecipanti mettevano nelle mani della prima le nocciole precedentemente stabilite come posta, che costei lanciava in direzione della buca. A questo punto il gioco diventava del tutto simile a quello del quadrato, con la differenza che, al posto delle monete, c’erano le nocciole.
IL QUADRATO, IL PALMO E MURO, IL PALMO E ZIRRACCHIO
Il quadrato, il palmo e muro e il palmo e zirracchio erano altri giochi di abilità e venivano effettuati con monete o, come del resto quasi tutte le cose di allora, con un surrogato. Nella fattispecie: tappi di birra, di gassosa o di altre bevande, che venivano da noi pazientemente lavorati, in modo che, dopo di averne rivoltati all’interno i bordi zigrinati, i tappi risultassero il più possibile rotondi e ridotti di spessore. Ogni asperità, infatti, rendeva di difficile esecuzione almeno i primi due tiri, i più importanti: quello per stabilire l’ avvicendamento dei giocatori e quello per il lancio delle monete (o dei tappi) che corrispondevano al numero dei partecipanti. Queste, raccolte le une sulle altre, con un movimento a spirale impresso contemporaneamente a tutta la pila dallo scatto del pollice, venivano lanciate verso un quadrato disegnato a terra. Tutte le monete, infatti, erano tenute nel dito indice, leggermente incurvato, ed il pollice, partendo dall’interno della mano, imprimeva alla parte posteriore delle monete il detto movimento a spirale. Raggiungere più o meno il bersaglio, e quindi aggiudicarsi tutte le monete cadute all’interno del quadrato, dipendeva esclusivamente dalla bravura del tiratore, perché erano considerate acquisite solo le monete (o i tappi) cadute all’interno. Delle monete (o dei tappi) non lanciate all’interno del quadrato si dirà come ci si regolava.
Partiamo dalle monete che erano cadute completamente all’ interno del quadrato. Esse venivano immediatamente acquisite da colui che aveva effettuato il lancio. Per l’ aggiudicazione delle altre monete venivano effettuati dei tiri successivi, partendo dalla moneta più lontana, che, con un pizzico e rasoterra, veniva indirizzata all’interno del quadrato. La buona riuscita del tiro, oltre all’aggiudicazione della moneta, permetteva che, fino a che non si commettessero errori, si continuasse a tirare. Se poi si fossero commessi errori, sarebbe toccato al secondo, al terzo e così via, fino all’esaurimento delle monete.
IL PALMO E MURO
Il gioco si svolgeva nel modo seguente. Mediante la conta o il lancio della moneta sotto un muro o verso una linea tracciata in precedenza, si stabiliva il turno dei lanci dei partecipanti. Per questi ultimi non c’era un numero fisso. Anzi, quanti più partecipanti c’erano, meglio era. Colui che era riuscito ad assicurarsi il primo tiro faceva rimbalzare una moneta sul muro, di piatto o di taglio. Quest’ultimo modo, detto alla sghierra (vale a dire, di sghembo) era il preferito, almeno per il primo tiro, perché consentiva a chi lo effettuava di mettere tra il muro e la moneta una distanza maggiore che non tirando di piatto, il che rendeva meno facile al giocatore successivo e agli altri di aggiudicarsi la moneta. Dopo il primo lancio si avvicendavano tutti gli altri, secondo l’ordine sortito,
Il fine del gioco era quello di far giungere la propria moneta ad una distanza massima di un palmo da tutte le altre in gioco, per cui, se essa risultava inferiore ad un palmo, tanto meglio.
Qualora lo scopo fosse stato raggiunto dal secondo giocatore, costui si impossessava dell’unica moneta in gioco : quella del primo. Diversamente, anche la seconda moneta sarebbe rimasta a terra, preda per i giocatori successivi. Se il terzo giocatore riusciva ad aggiudicarsi una o entrambe le monete con il suo lancio, il quarto doveva a sua volta tirare ed esporsi ai tiri degli altri, fino ad esaurimento del numero dei partecipanti. Se non v’erano altri giocatori, l’ultimo designato dalla conta tirava lo stesso e l’ex primo, che aveva aperto la serie, diventava questa volta, da preda, cacciatore.
IL PALMO E ZIRRACCHIO
Gioco tra due o più persone, che aveva il seguente svolgimento. Effettuata la conta tra i partecipanti, il primo lanciava una moneta ad una certa distanza. A questo punto subentrava nel tiro il secondo designato, il quale, però, col proprio lancio, doveva far cadere la propria moneta ad una distanza da quella a terra stabilita dal primo giocatore. Se si sentiva di accettare, effettuava il lancio; diversamente, rifiutava lasciando il compito di tirare a chi aveva fissato la distanza. Nel primo caso, se il secondo, col suo tiro, non riusciva a collocare la moneta alla distanza assegnatagli, questa finiva automaticamente nelle tasche del primo giocatore. Se, invece, la moneta veniva collocata alla distanza giusta, o addirittura inferiore a quella assegnata, il secondo tiratore si aggiudicava la posta.
Una precisazione doverosa sul nome del gioco. Esso era chiamato così dalle misure adottate: il palmo, cioè la distanza tra il pollice ed il mignolo, e lo zirracchio, distanza tra il pollice e l’indice: accezione registrata con identico significato anche dall’Andreoli nel suo Vocabolario Napoletano/Italiano.
IL GIOCO DELLE FIGURINE (“RITRATTIELLI”)
Il gioco si svolgeva partendo, come minimo, da due giocatori, essendo illimitato quello massimo. Era tacitamente convenuto, però, che qualora questo numero superasse le cinque-sei persone, si formassero due diversi gruppi di giocatori .
I turni di gioco venivano stabiliti, come per tanti altri, mediante la conta, dopo di che si concordava la posta (o parata) , con cui si stabiliva quante figurine dovesse puntare ogni giocatore. Tutte queste figurine venivano messe l’una sull’ altra prestando scrupolosa attenzione a che fossero perfettamente allineate e non presentassero sporgenze di sorta. In base al numero dei concorrenti, e della puntata, le figurine così sistemate formavano una pila alta 5 o 10 centimetri : il montone (o mucchietto). Il primo designato dalla conta atteggiava la mano a mo’ di coppa e dava un violento schiaffo su un pezzo di marmo gelido (solitamente, le soglie degli androni o i davanzali dei finestroni dei palazzi), il più vicino possibile alle figurine, ma senza toccarle, per non invalidare il tiro. L’aria prodotta da questo schiaffo (pacchero)[2], schizzava violentemente tra la mano e il marmo, investendo le figurine ed imprimendo loro una rotazione di 180°. Pertanto, le figurine che dopo un tale schiaffo risultavano posizionate a faccia in giù (unica condizione che rendesse valido il tiro) venivano acquisite da chi aveva effettuato il tiro. Non era insolito vedere tutto un mucchio di figurine, in numero di cento o duecento, presentare il dorso al primo tiro di uno dei partecipanti! Poteva anche accadere, però, che il getto d’aria facesse solamente slittare le figurine facendo loro assumere l’aspetto di un mazzo di carte spianato. In tal caso, esse rimanevano così, ed i giocatori successivi si avvicendavano al tiro fino a che, in un modo o nell’altro, non si fosse riusciti a far ribaltare tutte le figurine o deciso di rimetterle nella posizione iniziale dopo che tutti i partecipanti avevano effettuato il tiro.
E’ facile immaginare il colore e lo stato davvero pietoso delle nostre mani, dovuti sia alla sporcizia che le lordava sia al continuo schiaffeggiare con il palmo la gelida superficie del piano di gioco, tanto che il sangue dava l’impressione di volere schizzare via attraverso la pelle ad ogni nuovo colpo!
Una variante di questo gioco era il “soffio”, in dialetto ‘o-ppà. Tutto come il precedente, solo che il soffio d’aria per far ribaltare le figurine veniva prodotto con la bocca, accostando le labbra e pronunciando violentemente, e dopo una profonda inspirazione, la parola “ooppà “, che dava appunto nome al gioco.
I L GIOCO DELLA TROTTOLA
( Strummolo )
Gioco prettamente maschile e che, almeno dalle nostre parti, avveniva d’inverno. L’attrezzo che dava nome al gioco era costituito da un pezzo di legno a forma conica, la cui estremità inferiore terminava con una punta d’acciaio, solitamente costituita da un chiodo o comunque da un pezzo di ferro appuntito. L’attrezzo, a parte la forma, aveva alcune caratteristiche il cui chiarimento è possibile solo osservando la figura. Come si può vedere, subito dopo la punta, le pareti coniche presentavano delle scanalature attorno alle quali veniva avvolta una cordicella in modo da formare una spirale. Questa cordicella, nell’atto del lancio, imprimeva alla trottola una forza di rotazione che, più o meno vorticosamente e più o meno a lungo, la teneva in momento. Anche qui, come per tutti i giochi, c’erano delle vere e proprie competizioni per vedere chi riusciva a farla girare più a lungo. Inutile dire che il gioco annoverava dei veri e propri campioni, molto invidiati per la loro eccezionale abilità nel far girare la loro trottola sulle mani, sulle ginocchia, sui supporti più impensabili. Le modalità di gioco erano diverse ma la più comune consisteva nel disegnare un cerchio per terra del diametro di circa un metro e mezzo. La trottola in rotazione veniva lanciata all’interno del cerchio, chi riusciva a far uscire la trottola del cerchio continuava il gioco. Se invece la trottola, al termine della propria corsa, si fermava dentro il cerchio gli altri giocatori si accanivano a colpirla con le loro. Ma se una trottola lanciata non riusciva a girare o ad uscire dal cerchio restava ferma a prendere i colpi delle trottole avversarie. Si scagliava la propria trottola su quelle ferme nel cerchio, facendo in modo che il perno, agendo come un trapano, spaccasse il legno. La punta metallica della trottola dello sconfitto rappresentava l’ambito trofeo.
LA LIPPA
(Mazza e pivuz)
Gioco di gruppo, all’aperto. Gli attrezzi per il gioco, entrambi provenienti da manici di scope in disuso o rami abbastanza diritti, erano un bastone ( la mazza) lungo circa 60 – 70 cm. ed un tronchetto (la lippa : ‘o pivuz ) di circa 15 cm, appuntito alle estremità. Il gioco – esclusivamente riservato ai maschi (almeno dalle nostre parti) e praticato nel periodo invernale – era costituito da due squadre di due giocatori ciascuna ( una squadra battitrice ed una ricevente). Una circonferenza di circa un metro di diametro ( che costituiva la casa ) veniva tracciata per terra. Si stabiliva quale delle due squadre doveva collocarsi all’interno della casa, si collocava la lippa al centro del cerchio e con la mazza se ne colpiva una delle due estremità appuntite e, al volo, si cercava di mandarla il più lontano possibile dalla squadra avversaria. (Volendo, il gioco poteva essere praticato anche individualmente. In questo caso il giocatore, un tiro dopo l’altro, doveva misurarsi con se stesso.)
IL GIOCO DELLE PULCI
Era un gioco praticato solitamente al chiuso con dei dischetti colorati o dei bottoni che, pressati ai bordi, dovevano cadere all’interno di tappi o di vaschette precedentemente numerati. Il piano d’appoggio ideale era costituito da un panno o da una coperta stesi su un tavolo. Ogni concorrente doveva far entrare la pulce nel primo tappo e, se riusciva nell’ intento, poteva continuare mirando ai tappi successivi. Si potevano immaginare anche percorsi diversi, con penalità per chi non riuscisse a completare il gioco.
LO STECCO NELLA SABBIA
( ‘A mozzarella )
Gioco praticato sulla spiaggia. Veniva ammassata una certa quantità di sabbia in modo da formare un monticello nel quale veniva conficcato uno stecco. Si stabilivano i turni e poi ogni concorrente portava via dal monticello una quantità di sabbia a piacere. Inizialmente, per creare subito difficoltà agli altri giocatori, veniva portata via una grande quantità di sabbia che rendeva precario l’equilibrio dello stecco. A questo punto ogni giocatore, pronunciando la frase “ Un poco a me, un poco a me …”, cercava di porre la massima attenzione a portar via la minima quantità possibile per evitare la caduta dello stecco. Questa, infatti, comportava il pagamento di un pegno a discrezione del capogioco.
NASCONDINO (TANA o RIMPIATTINO)
Gioco che non richiedeva alcun attrezzo, ma che faceva divertire in un modo incredibile. Conosciuto anche come “ Tana” o “ Rimpiattino “, aveva il seguente svolgimento. Si sceglieva per prima cosa la “tana”, poi, mediante la conta si designava chi doveva “stare sotto”. A chi toccava in sorte di “ stare sotto “era affidato il compito di contare ad occhi chiusi fino ad un numero precedentemente concordato (da noi si contava fino a 31 ed il gioco stesso era indifferentemente chiamato anche “ Trentuno “). Mentre chi stava sotto si accingeva a contare, gli altri partecipanti andavano a nascondersi. Terminata la conta, chi era andato “ sotto” cominciava a darsi da fare per scovare i compagni di gioco. Appena riusciva ad avvistarne qualcuno doveva gridarne il nome (a volte anche toccarlo) e correre il più velocemente possibile verso la “tana” insieme al giocatore appena scoperto. A questo punto si instaurava immediatamente una competizione tra lo scopritore e lo scoperto a chi dei due raggiungesse per primo la “tana”, toccarla e gridare a squarciagola “tana!”. La competizione aveva come immediata conseguenza che il meno veloce dei due, la prossima volta, doveva “stare sotto” mentre si riprendeva la caccia ai partecipanti ancora nascosti. Chi riusciva a raggiungere la “tana” con successo poteva così gustarsi il resto del gioco da puro spettatore. L’obiettivo dei giocatori nascosti era di cercare di lasciare i rifugi senza essere visti o toccati e di raggiungere il punto di tana gridando “tana” per liberare se stessi, oppure il favoloso “tana liberi tutti”. Ogni fase del gioco (che non aveva né un numero di tornate né un periodo di tempo stabiliti) si concludeva quando tutti i giocatori erano stati scoperti e ne restava uno “sotto”: quello che era stato scoperto per primo, salvo che ci fosse stato il “tana libera tutti”, nel qual caso restava sotto sempre lo stesso giocatore designato con la prima conta.
ACQUA, FUOCO E FUOCHINO
Gioco molto semplice e riservato quasi esclusivamente o alle bambine o ai bambini che richiedeva un oggetto qualunque, preferibilmente piccolo per essere nascosto senza difficoltà. Con la solita conta si stabiliva chi dovesse stare “sotto”. Ciò stabilito, gli si coprivano gli occhi con una benda, mentre un altro dei partecipanti, con la massima circospezione, andava a nasconde l’oggetto. Dopo di che, si procedeva a togliere la benda dagli occhi di chi era andato “ sotto “ e a questo punto tutti i partecipanti lo aiutavano nel ritrovamento con le parole “acqua … acqua” se il cercatore si allontanava dal nascondiglio; “fuochino …. fuochino” se si stava avvicinando; “fuoco … fuoco” se era abbastanza vicino. A queste parole il cercatore non si allontanava dal punto e si metteva a cercare l’oggetto nel ristretto ambito indicato fino a trovarlo. Un grido di gioia segnalava il ritrovamento. A questo punto si poteva ripartire con un altro giocatore. E’, questo, un gioco che si può praticare sia all’aperto che al chiuso, ove la maggiore disponibilità di nascondigli offre più occasioni per occultare l’oggetto da ricercare.
I QUATTRO CANTONI
Gioco all’aperto a cui potevano partecipare sia ragazzi che ragazze. (Anche per questo gioco, però, c’era una generale propensione a considerarlo più indicato per le ragazze). Si articolava nel modo seguente: per terra veniva disegnato un quadrato, ai cui angoli si posizionavano quattro giocatori, mentre un quinto stava al centro. Quest’ultimo doveva cercare di occupare uno dei quattro angoli mentre gli altri si scambiavano il posto. Se ci riusciva, chi aveva perso il posto doveva andare al centro del quadrato e il gioco continuava fino a che i partecipanti ne avevano voglia.
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Nel prossimo articolo verranno trattati i seguenti giochi: palla avvelenata, cavallina, uno monta la luna, un due tre … stella!, girotondo, settimana (o campana), biglie, cinque pietre, salto con la corda, ruba bandiera, tappi e scupidù. La serie si concluderà con uno spaccato della società di fine Anni Cinquanta.
Castrese L. Schiano
Il termine dialettale, però, è molto più pittoresco e rende appieno l’idea : spalommare, cioè, colpire il bersaglio in modo da farlo aprire come le ali di una farfalla, che in dialetto si chiama palomma
[2] Dal greco “pan cheiròs” = tutta la mano