A chi è servito il fallimento del Banco di Napoli?
Con il decreto Salva Banche, e nello specifico con il trasferimento per legge al Ministero del Tesoro dell’intero capitale della SGA (Società per la Gestione di Attività), la bad bank dell’ex Banco di Napoli, la disponibilità di cassa della società, intorno a 500 milioni di euro, viene destinata al salvataggio del Monte Paschi di Siena: si tratta di un palese furto ai danni del Sud ma al tempo stesso si corre il rischio di porre la parola fine alla plurisecolare storia del Banco, oggi Fondazione Banco di Napoli.
Prima di spiegare le ragioni di tale posizione, va detto in premessa quanto segue: le banche se falliscono al Sud sono una zavorra per il sistema paese e vanno immediatamente liquidate, se invece falliscono al Nord diventano priorità nazionale e vanno salvate coi soldi di tutti. Se poi succede che con i fondi delle cosiddette banche fallimentari meridionali si arricchiscono, ed in più occasioni, le banche settentrionali, siamo all’apoteosi del sistema coloniale interno.
IL Monte dei Paschi di Siena ha infatti recentemente beneficiato di una ricapitalizzazione da parte dello Stato di 3,9 miliardi di euro e di una garanzia statale di 13 miliardi concessa sulle passività nell’ambito del regime italiano di garanzia a favore delle banche, operazione approvata dalla Commissione di Bruxelles per “motivi di stabilità finanziaria”. Come se tutto ciò non bastasse, il governo ha pensato bene di decidere che fosse proprio la SGA la principale società a dar vita ad “Atlante 2”, la nuova SGR pensata per affrontare le crisi bancarie ma che ad oggi ha il compito specifico di salvare MPS. Il fondo complessivo a disposizione dovrebbe arrivare a circa 3-3,5 miliardi, di cui 450 milioni dalla SGA, la quota più alta in assoluto. A titolo di raffronto basti pensare che colossi come Generali e UnipolSAI hanno versato, rispettivamente, appena 200 milioni la prima e 100 la seconda.
Qual è stato invece il trattamento riservato all’ex banco di Napoli?
Dal Febbraio 1995 al Dicembre 1995 viene posta in essere una severa ispezione della Banca d’Italia che punta il dito contro le sofferenze del Banco di Napoli, nel Giugno 1997 una cordata composta da BNL e dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (BN-Holding) acquista circa il 60% del capitale del Banco di Napoli per 62 miliardi di lire, una cifra ridicolmente bassa. Nel Luglio 2000 Il San Paolo Imi lo rileva a sua volta per circa 3mila miliardi, una valutazione ben 50 volte superiore a quella di appena tre anni prima. Grazie a tale straordinario guadagno, la BNL si salva da una profonda crisi finanziaria. Ma l’operazione fa bene anche alla banca piemontese, dato che, come scrisse Fabio Massimo Signoretti il 14 giugno 2000 su Repubblica, “con l’acquisto del Banco di Napoli, il gruppo San Paolo-Imi sale al vertice delle banche italiane con attività finanziarie totali per circa 580mila miliardi, di cui 230mila di risparmio gestito, 180.000 miliardi di impieghi e una rete di 2.100 sportelli.” Contemporaneamente Intesa priva il Banco di Napoli di qualsivoglia autonomia decisionale: il 31 dicembre 2002 il Banco di Napoli cessa di esistere come banca autonoma, ridotta a “sportello meridionale” della banca torinese, essenzialmente con la funzione di rastrellare risparmio privato al sud per investirlo a più settentrionali latitudini.
Come è possibile che una banca pressoché fallita in soli tre anni aumenti di 50 volte il suo valore di mercato? Per spiegare tale “miracolo” all’italiana (di natura coloniale, s’intende) va precisato che il Banco di Napoli “era sulla strada del risanamento tanto è vero che quello stesso anno, il 1997, avrebbe avuto un attivo di ben 142 miliardi – più del doppio del prezzo pagato da BNL-INA per la quota acquistata”; che “doveva parte delle sue esposizioni al fatto che durante l’era Ventriglia la Banca d’Italia gli aveva chiesto di anticipare alle imprese i soldi dei finanziamenti pubblici, quindi cifre che prima o poi sarebbero rientrate”; ed infine che “il 94% delle esposizioni che avevano decretato la fine del banco sarebbero rientrate attraverso la bad bank nel giro di sei anni, quindi i crediti dell’ex Banco di Napoli non si sono rivelati irrecuperabili nella severa misura a suo tempo certificata dagli ispettori della Banca d’Italia” come riportato da “Il caso del Banco di Napoli” di Emilio Esposito e Antonio Falconio.
Una versione dei fatti confermata anche da un altro libro inchiesta, “Miracolo Bad Bank. La vera storia della SGA a 20 anni dal crac del Banco di Napoli” di Mariarosaria Marchesano, in cui si parla di “quasi 6 miliardi di euro di crediti cattivi recuperati e restituiti allo Stato. Cinquecento milioni di euro di utili in cassa più altri 200 milioni previsti in arrivo dalle 4mila pratiche ancora inevase, su un totale di 37mila posizioni classificate vent’anni fa come sofferenze. Sono i numeri della Sga, la società con sede a Napoli nata come bad bank del vecchio Banco di Napoli, tracollato nel 1996 e venduto a gennaio del 1997 con un’asta pubblica promossa dal Tesoro. Una incredibile performance, un caso unico in Europa”.
Per queste ragioni, del resto, Francesco Fimmanò, giurista e consigliere della Fondazione Banconapoli, sostiene che la liquidità della SGA sono soldi del Banco di Napoli, e non esclude che l’eventualità di chiedere un maxi risarcimento alla bad bank. Del resto con quei soldi si potrebbero porre in essere alcune delle azioni indispensabili per creare sviluppo e ricchezza del territorio, a partire dal sostegno alle piccole imprese del Mezzogiorno, e invece l’attuale governo sceglie di utilizzarli per ripianare una parte delle perdite del Monte dei Paschi di Siena.
In sintesi l’operazione Banco di Napoli, con tutto il relativo e vergognoso Sputtanapoli che ne seguì sulla stampa, è in realtà servito, nell’ordine, prima per salvare la BNL dalla crisi in cui si trovava, poi per far diventare Intesa San Paolo una delle prime banche del paese, ed infine oggi per tamponare le perdite di MPS: pacco, doppio pacco e contro-paccotto, questa è la sintesi. Qualcuno, dagli alti “scranni” della stampa nazionale, ha anche la faccia tosta di chiedersi come mai dal profondo Sud ci sia chi non plauda ad una tale iniziativa, nel solco della salvaguardia dell’interesse bancario nazionale. La verità è che l’unica cosa di cui dovrebbero meravigliarsi è che non siano già arrivati fiumi di imprecazioni: ma solo perché, probabilmente, al momento le abbiamo esaurite tutte.
Lorenzo Piccolo
fonte
uniomediterranea.info