“Albanesi” di Terra di Lavoro nelle vetrerie francesi di Fernando Riccardi
Ormai le immagini di quei disperati che, ammassati l’uno sull’altro nelle putride carrette del mare, dopo giorni di traversata, stremati ma felici, approdano sulle coste italiane, non destano più scalpore. La vita è così frenetica nel suo scorrere che fa abituare rapidamente a tutto, persino alle tragedie di dimensioni epocali.
In passato l’emigrazione ha svuotato parecchi paesi della nostra Penisola, specie nel centro-sud. Spinti dalla miseria, dalla fame e dal lavoro che non c’era, in tanti sono partiti in cerca di fortuna verso nazioni vicine e lontane. Il fenomeno, almeno nelle sue linee generali, è abbastanza conosciuto. Quel che non tutti sanno, invece, è che dalla seconda metà dell’800 fino al primo decennio del secolo scorso, l’attuale porzione meridionale della provincia di Frosinone è stata grandemente afflitta da un particolare tipo di emigrazione: quella infantile. La cosa, ben presto, assunse risvolti drammatici. In un articolo apparso su “Il Corriere della Sera” il 29 novembre 1901, si parla, senza mezzi termini, della “tratta dei fanciulli diffusa nelle province di Terra di Lavoro e Campobasso”. I bambini erano reclutati dagli “incettatori”, persone avide e senza scrupoli, tra le fasce più povere della popolazione, in contesti familiari dove era arduo provvedere al sostentamento giornaliero. Una relazione pubblicata nel 1913, quando già il fenomeno era in sensibile diminuzione, elenca i paesi che rifornivano il turpe traffico: Casalvieri, Pescosolido, Campoli Appennino, Broccostella, Colle San Magno, Carnello, Posta Fibreno, Vallerotonda, Belmonte Castello, Vicalvi, Alvito, Fontechiari, Atina, Picinisco, San Donato Val di Comino, Settefrati, San Biagio Saracinisco, Santopadre. I loschi figuri che ben conoscevano la misera realtà di quei posti essendovi nati e cresciuti, “acquistavano” i bambini dalle loro famiglie facendo leva sulla necessità provocata dalla indigenza. L’incettatore stipulava con il padre del fanciullo un vero e proprio contratto (la durata generalmente era triennale), in virtù del quale si impegnava a versare un corrispettivo che, grosso modo, si aggirava sulle 100 lire annue. Dal canto suo assumeva l’obbligo di provvedere al vitto, all’alloggio, alla cura e al mantenimento del fanciullo. Ma, una volta sottoscritto il patto, che fine facevano i ragazzi? Venivano portati di nascosto a lavorare in Francia o in Inghilterra oppure erano utilizzati in altri infimi impieghi: suonatori di organetto, venditori ambulanti, mendicanti, spazzacamini. La sorte più terribile toccava a chi era dirottato in terra di Francia: le vetrerie di Rive de Giers, Givors, Saint Romain le Puy, Saint Galmier e, soprattutto, quelle dislocate nei sobborghi di Lione, accolsero parecchie migliaia di ragazzini in tenera età diventati, ormai, “proprietà” pressoché esclusiva di avidi affaristi. Qui i poveri infelici diventavano “gamins”, ovvero provvedevano con una canna di ferro a prendere dal forno il vetro liquefatto e a passarlo a chi doveva darvi la forma. Per lunghissime ore, ogni giorno, il ragazzino restava fermo davanti al forno dove il calore raggiungeva anche i 1.400 gradi. In quelle fabbriche malsane venivano impiegati anche i fanciulli più piccoli: erano i “porteurs” che prendevano l’oggetto di vetro lavorato e lo portavano in un altro forno dove si ultimava la cottura. Mansioni faticosissime, anche perché le vetrerie funzionavano a ciclo continuo, con turni ininterrotti. Per questo lavoro massacrante i ragazzi percepivano uno stipendio di 50 franchi al mese, soldi che finivano nelle tasche dell’incettatore a titolo di rimborso spese: egli, infatti, doveva provvedere al mantenimento dei piccoli lavoratori. Di solito, però, nel corso della settimana non avevano “che pane e cattiva minestra, per la quale le mogli degli incettatori, peggiori ancora dei loro mariti, utilizzano ogni rifiuto del mercato”. Per non parlare, poi, dell’abbigliamento perennemente putrido e lacero e della stanza adibita ad alloggio: “…dormono tutti nudi a tre, quattro, fin cinque per letto o su pagliericci immondi buttati per terra o su casse rovesciate”. In siffatte condizioni moltissimi di quei poveretti non resisttetero a lungo e finirono per essere decimati dalla fatica e dalle malattie. Angosciante la descrizione che dei “gamins” fece il giovane economista Luigi Einaudi divenuto poi, nel 1948, Presidente della Repubblica: “Avevano l’aria stanca, sfinita, che muoveva a pietà: scarni, con larghe bruciature, chi alle gambe, chi sul collo, chi sul viso. Camminavano zoppicando, strascicando i piedi come fossero vecchi cadenti”. Con il passare degli anni la “tratta dei fanciulli” cessò fino a scomparire del tutto. Qualche incettatore venne arrestato e condannato ma i più la fecero franca e poterono godersi i proventi della loro “attività”. E’ questa una pagina tra le più drammatiche, quanto poco nota, che la nostra nazione abbia mai conosciuto. Anche perché rimane pur sempre difficile ammettere che un tempo, neanche troppo lontano, gli “albanesi” eravamo noi.
Fernando Riccardi
Tragedie della poverta’…o inganni dell’ignoranza…ma non si possono esimere dalla responsabilita’ i genitori di questi fanciulli, sempre che lo fossero realmente…o piuttosto no…per cui meglio liberarsene… crudelta’ verso fanciulli non desiderati, per i quali poi nacquero orfanatrofi o similari…o affidamenti strani magari per questua al seguito di suonatori ambulanti… Poveri bambini!…Si sa di nessuno che cresciuto sia stato poi piu’ fortunato e magari abbia voluto e saputo raccontare la tragedia vissuta?… caterina ossi