Alfredo Saccoccio a spasso con Curzio Malaparte
Alfredo Saccoccio ha scritto spesso recensioni su Curzio Malaparte, gran bella penna ma non sempre ha avuto comportamenti all’altezza del suo talento, e con questo articolo li pubblichiamo in sequenza.
L’enigma Malaparte
Jean-Luc Godard girò nella famosa villa di Curzio Malaparte, a Capri, “Il disprezzo”, che vede Brigitte Bardot sdraiata a prendere il sole sulla terrazza della villa, immersa nella luce e nella natura a picco sugli scogli di Punta Masullo. L’attrice ha come unico indumento un libro aperto che le copre le natiche.
Lo scrittore l’ aveva fatta costruire sulle ripe scoscese dell’isola, simbolo della sua modernità come del suo desiderio di mettersi in scena e del suo gusto per la provocazione. La vita di Malaparte fu tumultuante, piena di cambiamenti di rotta e di contraddizioni. Lo scrittore italiano, nato a Prato il 9 giugno 1898 e scomparso nel 1957, ebbe erranze un pochino caotiche, partendo dal suo attaccamento alla sua Toscana e dall’esperienza fondamentale del conflitto del 1914-1918, da cui trasse il suo primo libro, un libello contro la guerra, proibito dalla censura. Il suo fascino per la rivolta lo conduce nelle braccia del fascismo, al quale resterà legato fino al termine degli anni ’30, benché le sue relazioni con il regime mussoliniano non siano sempre facili.
Dandy alla D’Annunzio, romanziere e saggista, direttore di riviste letterarie e grande reporter, drammaturgo e cineasta, Malaparte concatena febbrilmente le attività. Dai suoi viaggi e dalle inchieste, egli trae la materia dei suoi due romanzi più celebri: “Kaputt” e La pelle”, libro di una straordinaria capacità figurativa, il cui scandalo complica ancora di più la sua situazione già delicata all’epoca dell’epurazione, dell’ostracismo che ha pesato su Malaparte nell’Italia del dopoguerra. Curzio fu per lungo tempo tenuto in disparte dal mondo letterario. Ciò non gli impedì di perseverare nelle sue attitudini sconcertanti. Egli si convertì, nell’ultima ora della sua esistenza, al cattolicesimo, grazie a padre Rotondi, e prese, nello stesso tempo, la tessera del Partito Comunista, il tutto sul suo letto di morte, in una clinica romana, reduce da un viaggio nella Cina maoista !
Incoerente? Sconcertante?
Agli occhi degli italiani, Curzio Malaparte non è più uno scrittore maledetto, essendo stato pienamente riabilitato. Parecchie pubblicazioni e manifestazioni contraddistinsero, nel 1998, il centenario della nascita del romanziere e giornalista, tra gli intellettuali più controversi del nostro Novecento, dalla personalità molto sfaccettata, ricca di chiaroscuri da essere difficilmente penetrabile. Nel passato, il duplice ostracismo del mondo cattolico e di quello comunista ha per lungo tempo rigettato questo scrittore narcisista, provocatore e contraddittorio, epicureo e mistico, protestante e cattolico, controriformista e rivoluzionario, affascinante ed odioso nello stesso tempo, che è restato fascista fino alla seconda guerra mondiale e che, all’indomani del conflitto, scandalizzò il pubblico con il suo romanzo “La pelle”. Recentemente Malaparte è uscito dall’oblìo e ha trovato un posto di rilievo nel pantheon della letteratura italiana, grazie alla pubblicazione delle sue opere maggiori, “Opere scelte”, nella prestigiosa collezione dei “Meridiani” della Mondadori. Luigi Martellini, a cui si deve questo ricco volume, ha ugualmente appena ritrovato e pubblicato un soggetto inedito, “Lotta con l’angelo” (Edizioni scientifiche italiane), una storia nera e morbida tratta da un fatto di cronaca per un film che lo scrittore non ha mai girato. Un secondo soggetto inedito, “Il Compagno di viaggio”, è annunciato più tardi. L’unico film realizzato dal Malaparte fu “Il Cristo proibito” (1951), il suo testamento spirituale, di cui Curzio fu anche soggettista e sceneggiatore.
A Prato, in occasione del centenario, si tenne un grande convegno internazionale. Nello stesso tempo fu visibile, presso l’Istituto culturale italiano di Parigi, una mostra fotografica consacrata all’attività di Malaparte reporter sui fronti di guerra ( in Africa, nei Balcani o in Russia) e in copertura dei grandi avvenimenti storici, come la rivoluzione cinese. Sempre a Prato, nei locali della Villa Fiorelli, si aprì un Centro di studi su Malaparte, dove durono depositati gli archivi dello scrittore. Secondo Massimo Luconi, autore di un film sullo scrittore , coordinatore delle manifestazioni di Prato, il centenario permette di “riabilitare completamente l’autore di “Kaputt” e di riaffermare il suo statuto di scrittore europeo avanti lettera, valorizzando la varietà dei suoi interessi, che vanno dal romanzo al libello politico, dall’attività giornalistica al cinema e al teatro; un insieme di orizzonti differenti che ci rivelano la sua grande modernità”, oltre alla sua opera multiforme. Tuttavia, secondo Luigi Martellini, “la sua partecipazione attiva al fascismo è stata l’origine della sfiducia di una parte della sinistra culturale e del mondo universitario; il suo valore letterario è stato minimizzato. Benché ora la situazione sia in procinto di evolversi, c’è ancora molto da fare prima di un pieno riconoscimento”.
Il rischio, secondo alcuni critici, è piuttosto contrario, cioè un eccesso di valorizzazione, come la tentazione di normalizzare uno scrittore, la cui vera originalità è spesso nel carattere sulfureo e controcorrente delle sue opere maggiori. “La rivolta dei santi maledetti”, “Tecnica del colpo di Stato”, libro che lo rivela a livello internazionale, “Kaputt”, dalle descrizioni orripilanti e pudiche, crudeli e delicate, con finale ad effetto, teatralmente preparato, e “La pelle” sono là per attestarlo, soprattutto le ultime due opere che divennero presto dei bestsellers, tradotti in tutte le lingue. Il secondo “lavoro”, del 1949, accese violente polemiche, soprattutto a Napoli, città emblematica di una nazione vinta, per la maniera con la quale Malaparte aveva raccontato alcuni momenti ed alcuni ambienti della Napoli dell’immediato dopoguerra, colpita da una terribile pestilenza e in degradazione per i bambini venduti ai soldati marocchini e per la giovane che consente ai soldati, per un dollaro, di accertarne la verginità. L’opera, una sorta di carnevale macabro, fu accolta molto male, perché le ferite dell’ultimo conflitto bellico mondiale erano ancora sanguinanti e proprio sulle piaghe della città partenopea, nei giorni dello sbarco alleato, nell’ottobre del 1943, lo scrittore toscano sembrava avesse versato il sale della sua scrittura acida e provocatoria. Liliana Cavani, nel 1981, ne trasse un film, molto discusso per alcune esplicite sottolineature di violenza, di esecrande crudeltà, di abiezione e di orrore più fondo.
Inviso a Gramsci ed a Silone, lo scrittore di successo e seduttore da salotto (era un parlatore affascinante), accusato dal primo di “sfrenato arrivismo”, di “smisurata vanità” e di “snobismo camaleontesco”, fu scrittore di respiro europeo, cittadino del mondo, pur conservandosi direttamente dipendente dalla tradizione toscana, da cui traeva vigore.
Nella “ Casa Rossa”, lunga 60 metri per 10, che Malaparte lasciò agli artisti della Cina di Mao, ora appartenente alla Fondazione Giorgio Ronchi, Malaparte scrisse, tra l’altro, “Kaputt” e “La pelle”. Fu qui che ospitò scrittori, artisti e uomini politici celebri, da Cocteau a Camus, da Soffici a Togliatti; fu qui che ricevette il maresciallo Rommel e il generale Cork.
Il salone, grande come una piazza, pavimentato, di una pietra napoletana, chiamata pipèrno, ricorda i selciati romani. La stanza è rettangolare: le pareti sono bianche, mentre l’esterno della casa è rosso pompeiano. “Le due pareti “ lunghe” sono interrotte da quattro finestroni fatti del vetro degli oblò delle navi, da cui irrompe, con abbagliante prepotenza, il paesaggio di rocce e mare (l’anfiteatro della Grotta Bianca, i Faraglioni, la Punta della Campanella a rilievo contro l’orizzonte) che circonda il promontorio su cui la Casa Rossa (disegnata nel ’39 dall’architetto Libera e costruita negli anni successivi dal capomastro Amitrano) fu edificata, non senza benevole facilitazioni di Galeazzo Ciano”.
Lo scrittore comprò da un contadino, Antonino Vuotto, la suggestiva Punta Masullo, isolata e selvaggia, protesa sul glauco, omerico mare di Capri, che, per la sua struggente bellezza, non ha eguali al mondo, da cui si può godere la parete a picco di Matromania, i tre Faraglioni, la penisola sorrentina, le isole delle Sirene, le lontananze di Amalfi, il remoto bagliore dorato di Paestum A Rommel, suo ospite, che gli chiese se avesse acquistato la casa bella e fatta, rispose: “Sì. Io, invece, ho disegnato il paesaggio”, un paesaggio folgorante, fatto di splendori naturali e di megalomanie al limite del faraonico. Oggi la casa, dal tetto piatto, di un rosso sanguigno, che Malaparte chiamò anche Casamatta, riposa come un’aragosta al sole sull’impervio promontorio, a 3 km. dall’abitato.
Quando soggiornava nella sua villa di Capri, Curzio si metteva a tavolino la sera verso le nove e vi restava fino all’alba.
Si sono avvicendati nell’isola molti scrittori di ogni Paese, da Shelley a Gide, da Longfellow a Conrad, da Norman Douglas a Turgenev, da Gorki a Lenin, da Rilke a Bunin, da Nemirowicz -Dancenko ad Andreieff. Alcuni di essi vi hanno scritto libri diventati celebri (Gorki, “La madre”, Conrad, “Il Tifone”, Nemirowicz-Dancenko, “Il vecchio”). Con il Gregorovius, Capri aveva conservata la fama di isola peccaminosa e demoniaca.
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Il riflesso di Bonaparte
“Ho scelto Malaparte, perché Bonaparte è finito male. Io finirò dunque bene”, era solito dire Curzio Suckert per spiegare il suo pseudonimo. presumendo che egli si sbagliasse probabilmente sulla sua fine. Non ci si smarrirà in una psicanalisi delle catacombe per sottolineare che la metà germanica della sua genealogia (suo padre era tedesco) non è sopravvissuta al suo nome più che alla sua opera.
La sola via
E’ uno degli aspetti del fascino e della potenza seduttrice dell’uomo, quello di saper così bene sconcertare con la leggenda di cui lui fu il maestro . Non si riduce Malaparte dicendo che nessuno racconta meglio di lui stesso. Si può in compenso leggerlo e al meglio descriverlo.
Andare al di là delle etichette fascista, comunista, che appiccicano al nome di Malaparte un odore di zolfo, approfondire l’accusa di narcisismo, di dandismo, che è l’altro peccato di cui lo si è caricato. Da questo punto di vista, ciò è riuscito. E in questo tempo di a priori e di giudizi recisi, aspri, il compito pare sufficientemente arduo perché lo si accolga (proclami). L’incredibile tragitto di Malaparte, mussoliniano talmente innanzi tempo che sarà bandito da Roma dal Duce all’apice del suo potere, più italiano degli italiani, araldo di un giornalismo nel suo grande tempo, in cerca di una libertà di proposito (intenzione) assumendo tutti i paradossi, avrebbe potuto complicare il compito del biografo.
L’egocentrismo di quello che, ai funerali, voleva essere il morto, basta a definirne il motore letterario. “Non c’è persona, in Italia, che abbia tanto coraggio quanto me”, si dilettava a dire alla fine della sua esistenza e senza dubbio sapeva di che parlava.
Malaparte fu uno scrittore che seppe descriversi come una donna, un santo, poi un cane, riassuma al meglio, con l’infallibilità dei grandi, questo torbido periodo storico di cui noi siamo gli eredi laboriosi.
L’apparente incoerenza politica di questo enigmatico italiano non rivela né smonta l’opera.
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Malaparte e i soldati sbandati
Come con Brahms, la domanda può porsi. Amate voi Malaparte? Se la risposta è positiva, malgrado le ambiguità del personaggio e il suo percorso politico di un gioioso opportunismo, allora bisogna tuffarsi in questo piccolo testo rimasto sconosciuto fino al 2009, dal fascino così italiano, che ha per titolo “Il compagno di viaggio”, che racconta l’epopea tragicomica di un soldato nell’Italia in rotta, nel 1943.
La storia è semplice e ci tuffa nel cuore di una di quelle terribili ferite della storia di un popolo che ha il dono di trasformare il dramma in farsa. Nel settembre del 1943 il comando supremo romano, dopo essersi sbarazzato del Duce, decide di rompere con l’alleato nazista e passa dalla parte anglo-americana. Tutto, però, si fa nella precipitazione. Regna la confusione.
I soldati si ritrovano abbandonati a se stessi, mentre la famiglia reale lascia Roma in tutta fretta per fuggire a Salerno ed evitare di essere arrestata dai tedeschi. Ecco dunque il Paese consegnato ad una terribile domanda: occorre cont\inuare a combattere al fianco dei tedeschi, gli amici di ieri, o sposare la nuova causa degli Alleati, gli amici di domani? La maggior parte dei furbi sceglieranno una terza soluzione: approfittare di questo spaventoso caos, indegna di una grande nazione, per tornare semplicemente a casa. “Tutti a casa!”
Il ritorno, però, sarà lungi dall’essere una partita di piacere, come lo testimonia questo racconto, sobrianente scritto, da Malaparte, che lo cominciò a scrivere nel 1946 e che lo riprenderà nel 1956, come viene precisato da Carole Cavallera, l’eccellente traduttrice e curatrice della postfazione di questo “Compagno di viaggio”.
Certamente questo piccolo romanzo non ha la forza dei grandi libri di Malaparte, “La pelle” o il sublime “Kaputt”, testimonianza insostituibile della guerra vista dalla parte delle forze dell’Asse. Però, attraverso l’epopea tragicomica di un giovane soldato perduto, Calusia, coraggioso ragazzo di Bergamo, dolorosamente colpito da una storia che in fondo non è la sua, quella di un’Italia “sporca, grassa, stupida, sadica”, Malaparte sa commuoverci tuffando il lettore nello scompiglio dell’Italia del 1943.
Egli esprime una certa tenerezza per il popolo italiano. In mezzo agli infelici, che scappano sulle strade del Sud, Calusia, ragazzo del Nord sperduto in Calabria, ha fatto il giuramento di riportare la spoglia mortale del suo tenente nell’aristocratica casa napoletana di quest’ultimo. Calusia conoscerà le peripezie proprie di questo genere di ritorno nella terra di cui Benedetto Croce diceva che essa è un “paradiso abitato da diavoli”.
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Un ingombrante testimone
Ecco chi fa pensare ad un film celebre della commedia italiana, la buona, quella degli anni Risi, Monicelli e Comencini. Gli appassionati si ricorderanno forse di quel piccolo capolavoro del grande maestro Luigi Comencini, “Tutti a casa”, tradotto in francese sotto il titolo abbastanza scorretto de “La Grande Pagaille”, “La Grande Confusione”: una storia di soldati sbandati, che, in quello stesso mese di settembre 1943, dopo l’armistizio, tentano di riguadagnare la loro casa evitando i tedeschi e i fanatici di Mussolini.
La pellicola, del 1960, con Alberto Sordi, Serge Reggiani, Eduardo De Filippo, Martin Balsam, ha il merito di spezzare il muro di silenzio calato, negli anni Cinquanta, sulla Resistenza.
Questo tema assilla la memoria italiana, di cui si sa quanto Malaparte è un ingombrante testimone. Occorre leggere, a questo proposito, l’eccellente ritrattino che fa di lui Raymond Guérin in un racconto del 1950, rieditato con molta opportunità dall’editore di Bordeaux, Finitude. “Du coté de chez Malaparte” non è solo il rendiconto di un soggiorno di tre settimane passato nella celebre casa di Capri, appollaiata su uno sperone roccioso, e che servirà da cornice a “Il disprezzo” di Godard. E’ anche un’introduzione gradita al genio di Malaparte, particolarmente il suo senso acuto delle situazioni, ciò che gli servirà tanto per i suoi libri quanto per la sua carriera. Non si resisterà all’aneddoto della cravatta di Mussolini che lo scrittore mette in scena, brillante, tanto indipendente quanto cortigiano.Un buon riassunto, in fondo, del personaggio.
Alfredo Saccoccio