ANGIOLO DE WITT – STORIA DEL BRIGANTAGGIO
La 16′ Compagnia in colonna mobile – il feroce Capitano Crema
Ritornati dalla perlustrazione, fatta nei pressi di Sepino e sul Matese unitamente ad altri drappelli del 45* fanteria, ci giunse la dolorosa notizia, che il nostro beneaffetto colonnello de la Róche, cessava di comandare la zona militare di Campobasso, perchè destinato al comando di quella più estesa, che aveva sede in Foggia.
La inattesa perdita più di un amico, che non di un superiore, dispiacque all’intiera cittadinanza di Campobasso, ed indistintamente a tutti i militi di quel presidio; purnonostante riusci di conforto ad ognuno il sapere, che veniva rimpiazzato da altro ufficiale superiore, il quale, per meriti di patriottismo, e per prerogativa di soldato, poteva ritenersi come degno successore del conte Mazé.
Il colonnello Bartolommeo Oalletti di Boma, uno dei gloriosi avanzi del 1^ esercito nazionale, che nel 1848 e 1849, tenne alta la fama dell’italo valore, fuso stituito al comando di Campobasso, con poteri discrezionali perciò che riguardava la repressione del brigantaggio.
Intanto, per essere giunto il maggiore Dalmasso, come comandante il battaglione, il capitano Crema riprese il comando della 16 nostra compagnia; e sotto la di lui dittatoria direzione, fummo mandati a Casalciprano per ripristinare la pubblica sicurezza.
In quell’epoca era tale e tanto il timor panico degli abitanti di quei paesi, che intiere popolazioni dalle due alle quattromila anime (siccome erano quelle di Baranello, Macchiagodena, Spineto e Frosolone) tolleravano che pochi briganti, non solo passeggiassero impunemente pelle loro contrade, ma che ricattassero i grandi proprietari, e dileggiassero in tutti i modi gli stemmi nazionali italiani, o quanto altro aveva limpronta del novello stato di cose.
Infatti pochi giorni prima della nostra partenza per Casalciprano, alcuni gregari della banda capitanata da Nunzio di Paolo, avevano invaso quel paese in pieno meriggio, ed ivi, non solo avevano voluto gozzovigliare senza nulla spendere, ma si erano, altresì, condotti alla casa del Sindaco, per burbanzosamente imporgli di abbassare le armi di Casa Savoja, che in nome dell’unità italiana erano state collocate sulle soglie dei pubblici dicasteri.
In tal guisa, a poche miglia di distanza dal capoluogo di quella provincia, i reazionari dei boschi, cominciavano ad imporre una violenta restaurazione a quei popoli, che oltre essere impauriti pel moltiplicarsi dei briganti, avevano allora sufficiente ragione di diffidare circa l’avvenire dell’italiano stato unitario.
E sia lode al vero, in quell’anno 1862 erano molto dubbie le sorti della nuova Nazione italiana, che all’ infuori della Francia napoleonica, nessuna altra potenza appoggiava con fatti il nuovo stato di cose della penisola; ed anzi l’Austria, la Spagna, la Prussia, la Baviera, ed il Belgio, non solo ricusavano di riconoscerci, ma per soprassello inviavano i loro più sfegatati legittimisti al Papa-Re di Roma, ed i più audaci avventurieri all’esercito raccogliticcio di Francesco II, ex-re di Napoli, che dalla città eterna, si dedicava a suscitare ogni orrore di brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia.
Intanto il nunzio pontificio faceva credere alle corti europee, che il grande partito cattolico italiano, era stato mistificato dalla politica piemontese, e che l’animo delle fedeli popolazioni d’Italia fosse sempre affezionato alla teocrazia papale, ed al vecchio ordinamento dei piccoli Stati.
Tali menzognere delazioni diplomatiche venivano però sbugiardate dalla ferma politica del gabinetto Ricasoli, il quale, dopo avere bene organizzato tutte le forze vive del paese, faceva paralizzare tali gratuite asserzioni dell’apostolica ambasceria, da delle imponenti dimostrazioni antipapiste ed antiseparatiste, fatte sorgere per ovunque d’Italia, e più specialmente a Firenze, della quale città, si sarebbe voluto dare a credere, che il partito guelfo si desse a mene federaliste.
Frattanto l’Elvezia e la Grecia avevano formalmente riconosciuta la nuova Italia, e le spavalde minaccie dell’imperatore d’Austria, che dopo aver passato in rivista tutte le sue truppe di Mantova e di Verona, brindava in onore del prossimo ricupero della Lombardia, dell’Emilia, e della Toscana, venivano rese frustranee dalle note diplomatiche del governo francese, il quale dichiarava ritenersi come casus belli qualunque, sebben minima, violazione fosse stata fatta al principio di non intervento, da esso governo proclamato a Villafranca.
E così, appoggiata dai soli deputati della destra parlamentare, la politica estera del gabinetto Ricasoli (politica che era allora “una sors una mens” con quella della Francia democratica) mentre procurava di guadagnar terreno all’estero, e di dare opera al progressivo ordinamento dell’Italia una, col promulgare leggi liberali, coll’abbattere i vecchi confini e coll’arricchire la penisola di una grande rete ferroviaria, veniva minata da un partito di opposizione, accozzato col mostruoso connubio dei deputati conservatori piemontesi e dei sinistri onorevoli di tutte le Provincie.
Nel tempo stesso il cosidetto partito d’azione, che si faceva esclusivamente suo il gran nome di Garibaldi, e che aveva, per meta un lontano ideale politico, e per stendardo dei suoi moti interni, le sospirate conquiste nazionali di Roma e di Venezia; trascurando di riflettere che alla nostra necessaria capitale, per allora non m sarebbe potuti andare senza fare la guerra alle nazioni cattoliche, né che tampoco da soli eravamo in grado di contendere colle armi il Veneto all’Austria, invadeva mercè le sue spesse e pubbliche agitazioni gran parte del campo amministrativo.
Onde ne avvenne che si videro molti municipi delle più cospicue città italiane, mandare indirizzi al pontefice,invitandolo, nientemeno, che a sgombrare volontariamente
dal Vaticano, ( In questo tenore fu mandato al Papa un indirizzo firmato dalla giunta municipale di Livorno.) e si udirono i più autorevoli apostoli del partito rosso, fra le popolari effervescenze dei comizi, eccitare il popolo alla sommossa, solo perchè il governo aveva ordinato severe misure di repressione, ed aveva tratto in arresto pochi generosi sconsigliati, che da Sarnico miravano a fare una spedizione contro l’Austria, compromettendovi il nome glorioso dell’eroe dei due mondi.
Tali moti sovversivi dell’ordine interno dovevano, come difatti avvenne, motivare i necessari provvedimenti per parte del governo di allora, ed uno schema di legge,
presentato alla camera elettiva dal ministero Ricasoli, legge con la quale si sarebbe dovuto temperare le riunioni popolari fatte a scopo politico, fece si che i più striduli organi della progresseria gridassero all’incostituzionalità di quel gabinetto, caratterizzando tutti i liberali che sedevano a destra per antiliberali.
Ma era poi vero che fossero tali retrogradi i conservatori di destra?
Se si debba giudicare sotto l’impero della storica imparzialità, io ritengo che non sia vero.
Infatti, fossero pure, come si dice, stati eccitati dalla sinistra, ma è cosa indiscutibile, che sotto i ministeri di destra furono promulgate leggi effettivamente liberali, e compiti gli avvenimenti più importanti del nostro patria risorgimento.
Durante il regime della destra furono pensionati i Mille di Marsala, ed incorporati nell’esercito circa duemila ufficiali garibaldini — fu istituito il matrimonio civile — posto in essere l’imprestito forzoso, che salvò le nostre finanze — e messa in esecuzione la socialistica legge dell’incameramento dei beni ecclesiastici.
Sotto il governo di destra fummo riconosciuti da tutto il mondo come Nazione, avemmo il Veneto malgrado la sconfitta delle nostre armi di terra e di mare, ed il cannone italiano apriva impunemente la breccia di Porta Pia, quando uomini di destra regolavano la nostra politica estera.
Tali cronologiche verità distruggono tutte le maligne insinuazioni, che furono fatte a carico di quel liberale consesso che fu la destra storica.
Ma all’epoca cui si riferisce il presente capitolo, il gabinetto Ricasoli era caduto, e l’amministrazione politica dell’Italia era diretta da Urbano Rattazzi, cosicché in ogni angolo della penisola si gridava o Roma, o morte.
In quella circostanza più inferociva la reazione brigantesca, e mentre nelle disgraziate provincie dell’irredento Veneto, le ingenti tasse, imposte dall’austriaco governo, ammontavano al settanta per cento sulla rendita reale, molta truppa era impiegata nel mezzogiorno di Italia, dove tuttodì scaturivano nuove bande di cosmopoliti masnadieri.
I quarti battaglioni d’ogni reggimento italiano, per numero, erano insufficìenti a presidiare tutti i paesi assediati o invasi dai briganti, ed i reggimenti che si trovavano nell’alta Italia o in quella centrale, non potevan mandarci rinforzi di uomini per rimpiazzare i morti, attesoché, per far fronte alle minacce dell’Austria ed a quelle interne del partito d’azione, avevano allora un personale numericamente piccolo.
I dolorosi fatti di Aspromonte posero termine al melodramma politico, che si era svolto nella penisola, e noi intanto, quasi all’oscuro di quanto avvenisse nella nostra patria lontana, attendevamo invano nuovi drappelli.
Intanto tutti i paesi del Molise chiedevano al comando di quella zona militare distaccamenti di milizia regolari, che ove non erano essi, i reali carabinieri, quando non venivano massacrati, da soli erano impossibilitati a tutelare le vite e gli averi dei cittadini.
Onde è che il saggio colonnello Galletti, dopo avere ordinate in colonne mobili, diverse compagnie del 36° e del 45° fanteria, nonché un intiero battaglione di bersaglieri, ordinò ai singoli comandanti di quelle colonne di supplire alla defìcenza numerica delle truppe col costringere le guardie nazionali a dar la caccia ai briganti, e coll’esercitare un certo rigorismo su quelle apatiche popolazioni.
Simile consegna data al capitano Crema, comandante la nostra compagnia, valeva lo stesso che invitare (come suol dirsi) la lepre a correre ; onde egli, che nei mesi allora decorsi, aveva terrorizzato su quelle popolazioni a segno tale, che dovette essere più volte richiamato all’ordine dal colonnello, non capiva più nella pelle per avere riavuto l’autorità ed il mezzo di frustare ben bene chiunque avesse avuto il nome o l’apparenza di reazionario, come chiunque altro avesse dimostrato una condannabile indifferenza di fronte ai mali che colpivano quei paesi.
Il capitano Crema era un vecchio soldato del ducato di Parma; colla sua eterna virilità mostrava una quarantina d’anni, ma infatti ne aveva circa sessanta.
D’aspetto imponente, perchè alto e tarchiato della persona,aveva sulla faccia dei lunghi mostàcchi e pizzo nero; di quel nero che dura quanto la tinta del parruchiere.
Aveva, oltre di ciò, lo sguardo sinistro, come hanno tutti coloro che sono affetti da strabismo; nonostante ci raccontava, che nella sua vita aveva reso molte belle, vittime del suo amore.
Non starò a dire quanto valesse come uomo di coraggio individuale; il lettore dal fatto di Colletorto può facilmente arguire che di quello ne aveva poco, ma posso però affermare che di coraggio civile ne aveva assai, ognivoltachè con soli novanta uomini era capace di provocare in tutti i modi una intiera popolazione.
Mi rammento che in uno dei rari giorni in cui ci fosse dato di passeggiare lungo le vie di Campobasso, per avere
egli diretto parole poco convenienti alla graziosa sorella del duca F… fu mandato a sfidare da uno dei di lei fratelli, e che egli per tutta risposta gli fece sentire, che, se il giovane duca non ritirava la disfida, lo avrebbe fatto ammanettare dai suoi soldati, per poi farlo consegnare all’autorità politica come reazionario.
Un’impudenza di questo genere non indica ardire in chi la commette, ma a mio modo di vedere credo, che ad osar tanto ce ne voglia del coraggio, forse più di quanto ce ne possa occorrere per attaccare alla bajonetta.
Tutto sommato è un fatto che Crema era un prepotente, ma un ameno prepotente, che colle sue sortite serio-umoristiche dal tragico cadeva spesso nel ridicolo.
In onta al regolamento esigeva quattro ordinanze per solo suo uso, delle quali due erano destinate al di lui servizio personale, una per il suo cavallotto morello, a cui aveva dato il nome di Solferino, e la quarta aveva l’incarico di governare la sua animalesca famiglia, composta di cani, gatti, agnelli, cinghialotti, pappagalli, canarini, ed altri volatili, di cui faceva incetta da molto tempo; dimodoché quando la sua compagnia cambiava sede di distaccamento, si vedeva in coda della medesima quella strana processione di bruti, che faceva ridere i viandanti.
Nella marcia che facemmo sotto i suoi ordini, da Campobasso a Casalciprano, egli, per vieppiù imporre suggezione agli agricoltori di quella campagna, dispose la sua unità tattica, come se si fosse trattato di una brigata.
Mandò circa duecento metri avanti di noi mezza squadra di militi scelti e comandati da un sergente, coll’ordine di avanzarsi tenendo sempre il fucile alla posizione di pronti; egli ne seguiva a cavallo circondato da una intiera squadra di soldati con bajonetta innastata, ed a me dette l’ordine di farmi avanti col restante della compagnia in doppie file aperte, nel tempo stesso che ordinò al sottotenente Bacci di prendere con sé una ventina di uomini e con questi guardarci le spalle, e spingere innanzi lo stuolo dei suoi bruti.
In questa comica guisa, arrivammo ben presto a Casalciprano, dove trovammo gli abitanti dediti alle loro occupazioni, non curanti di noi, e poiché Crema nell’entrare in quel piccolo paese aveva ordinato ai quattro trombettieri, che suonassero un inno patriottico, cosi egli pretendeva, che tutte a quel suono le autorità del paese venissero ad incontrarlo, come dicesi che ai tocchi armoniosi della magica lira di Orfeo, tutte le orecchiute querci gli andassero incontro.
Invece il solo bidello municipale si presentò a lui, offrendogli i nostri biglietti d’alloggio, ed indicandogli la chiesa, dove avrebbe potuto fare accasermare la bassa forza.
Crema irritato per la poca impressione, che il suo arrivo aveva fatto negli abitanti di Casalciprano, incominciò dal prendere a frustinate quel disgraziato di bidello, che non aveva colpa alcuna, e poi cosi gli disse:
-So ben che scherzi, o mascalzone: torna dal tuo sindaco e digli, che se nel termine di mezz’ora non viene a mettersi ai miei ordini, lo vado a prendere io stesso
con un buon bastone. —
Inaugurato cosi il di lui ingresso, fece fare alto alla compagnia nella più vasta piazza che si trova al centro di quel paese, ed ivi, fatto aprire a viva forza l’unico caffè che vi fosse stato, frustò come si deve ancora il proprietario di quello, perchè al giungere della truppa italiana aveva chiuso il suo negozio; e dopo tutto ciò dettò al foriere il seguente proclama, che redatto in più copie, fece affiggere a tutte le cantonate di Casalciprano.
Cosi diceva il famoso proclama di Crema:
IN NOME DI
VITTORIO EMANUELE Re eletto dalla Nazione
— Il sottoscritto, comandante la colonna mobile, incaricata dal superiore governo di ripristinare l’ordine in questo mandamento, avvisa indistintamente tutti gli abitanti di Casalciprano e dei suoi contorni, che da oggi fìno a nuove disposizioni, saranno posti in esecuzione i seguenti rigori di legge eccezionale:
1^ Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato.
2^ Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato.
3^ Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per la campagna con provvigioni alimentarie superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato.
4^ Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande, non sarà sollecito di avvisarne il sottoscritto, verrà considerato per manutengolo e come tale fucilato.
Oltre di ciò la sottoscrìtta autorità politico-militare ordina quanto appresso:
1^ Che tutti gli impiegati civili e municipali, nonché i graduati di ogni milizia, da oggi fino a nuove disposizioni si portino tutti i giorni alle ore dieci di mattina all’abitazione del Sindaco (dove il sottoscritto stabilisce la sua dimora per ivi ricevere gli ordini opportuni.
2^ Che i signori ufficiali della milizia cittadina nell’ottemperare a tale ordine, vestano In completa uniforme del loro grado.
3^ Che gli esercenti industrie, commerci, o professioni si guardino bene dal chiudere i loro esercizi prima delle ore nove di sera.
4^ Che da domani in poi tutti coloro, che dai ruoli resulteranno appartenere alla guardia nazionale, intervengano armati alla chiamata, che sarà fatta loro per
mezzo dei trombettieri della truppa, i quali a tale oggetto suoneranno l’assemblea per le pubbliche vie.
Qualunque inadempimento o infrazione ai surriferiti ordini, sarà punita col carcere militare, coll’applicazione dei pollici e con altre più severe pene per la persona che la commetterà.
Dopo avere pubblicato un cosi marziale proclama, il capitano Crema chiamò a rapporto noi ufficiali, e ci ordinò di tenere la compagnia per metà libera, e per metà di
picchetto, tanto per essere pronti a qualunque evenienza dimodoché Bacci ed io ci alternammo il servizio di vigilanza per sei ore ciascuno, distribuendo eguale repartizione di turno fra il primo e secondo plotone.
Così disposte le cose i quaranta uomini di picchetto stavano notte e giorno al pied’arme dirimpetto alla chiesa, e gli altri quaranta riposavano nell’interno della medesima.
I residuali dieci individui di bassa forza, compresi i nostri attendenti, insieme ai reali carabinieri avevano avuto l’ordine da Crema di perlustrare tutte le vie interne e suburbane del paese durante la notte, e di riposare nel giorno, cosicché se il più lieve allarme di notte tempo ci fosse stato, un ufficiale ed oltre cinquanta uomini erano sempre pronti ad accorrere dove il bisogno lo avesse richiesto.
Non era un bel vivere né per noi né per la truppa, ma era necessario adottare tale sistema per impedire, o almeno far fronte ad ogni possibile sorpresa dei briganti, che in numero considerevole si annidavano nei boschi prossimi a quell’aperto paese.
L’ indomani, dopo aver riposato, in casa del capitano della guardia nazionale, dalle ore quattro di notte fino alle nove del mattino, fui dal medesimo invitato a colazione.
Mi presentò alla sua famiglia, e fra un bicchiere e l’altro di un eccellente vino, quell’uomo di circa quaranta anni, dalla folta capigliatura, e dalla ispida barba, mi confessò, che la nomea, ed il proclama del mio capitano gli avevano messo addosso una paura maledetta.
Mentre di lui si parlava, Crema, per mezzo dell’uomo di foreria ci mandò ad avvisare, che avrebbe dato rapporto, non più all’abitazione del sindaco, ma invece sulla
stessa piazza, ove era schierata la truppa.
Mancavano venti minuti alle dieci, ed il grosso capitano della milizia cittadina mi pregò di assisterlo, mentre con qualche difficoltà si accingeva per la prima volta a monturarsi.
La tunica era bella e nuova, ma dacché l’aveva comprata, egli era divenuto più grasso, onde senza l’aiuto della signora, di me, e della mia ordinanza, non avrebbe potuto indossarla per essergli divenuta stretta.
Il povero capitano (di cui non ricordo il nome) sudava ghiaccio per non poter capire nell’uniforme, si restringeva, si comprimeva l’epa, ed alfine, mercè il nostro aiuto, meglio le nostre fatiche, potè abbottonarsi sin l’ultimo bottone.
Allora divenuto gonfio e rosso in viso, per la stretta alla gola che gli dava il colletto, cosi disse alla consorte :
— Maria pigliami il cinturino e la sciabola, che è di là nel mio studio, appesa alla parete mediante un chiodo. —
Ritornò la bruna signora col cinturino di cuoio rivestito da triple liste in argento, pur uso del poco guerriero marito; ma quell’oggetto era stato comprato da lui senza prima misurarselo, e mancavano ancora quattro dita di lunghezza per tutta ricingere la voluminosa circonferenza del di lui ventre.
— E adesso come si fa? mi disse tutto impensierito l’infelice civico. —
Io allora mi accorsi, che la placca era affibbiata al secondo ordine di occhielli, e calcolai che mettendola, al primo si sarebbero potute guadagnare tre o quattro dita di lunghezza.
E cosi, tira tu, che tiro io, potemmo alla meglio agganciargli l’inesorabile cinturino ; ma — vedi fatalità — questi all’estremità non era rinforzato dall’anima di cuoio come lo era all’intorno, onde, appena quel povero uomo, commise l’imprudenza di starnutire, si ruppe la poca pellicina rossa che era in cima al cinturino, si schiantarono gli occhielli, ed il brando, colla sua ricca buffetteria rotolò irreparabilmente per terra.
Erano vicine le ore dieci, ed il buon uomo, intimorito dalle comminate pene, se per disgrazia avesse dovuto ritardare, si disperava per non poter fare atto di presenza nella forma prescritta dal militare invito, perocché, imbarazzato da cosi piccola sciagura, si rivolse a me per un ripiego.
— Disgraziato me — mi diceva — che aggio a fa? Ditemmello voi, signore ufficiale, che aggio a fa? —
Allora per tranquillizzarlo gli dissi che venisse pure come si trovava, che io stesso avrei procurato di raccontare il caso successo al capitano Crema.
Infatti cosi rinchiuso nella sua uniforme e provveduto di colossale canna d’india, il pacifico ospitaliere venne insieme a me per porsi agli ordini di Crema, il quale con viso torvo, stavasi seduto in mezzo alla sua milizia, parodiando un console romano, che dall’alto del suo vallo, attendesse gli omaggi delle vinte schiere.
Appena Crema scorse andargli incontro quella figura anfibia di ufficiale e di borghese — Mascalzone! — urlò — ed alzato il suo frustino, gli si fugò addosso onde percuoterlo; ma io corsi a trattenerlo, ed a raccontargli la imprevedibile disgrazia del cinturino rotto.
Allora il feroce Crema sogghignò, e col suo solito intercalare, mi disse ad alta voce:
— So ben che scherza: veda che razza di bestie nascono in questi luoghi; comprano un oggetto senza prima accertarsi se va al loro personale! —
Il capitano della guardia nazionale, contento di essersela passata cosi liscia, e ricevendo in santa pace gli epiteti di mascalzone e di bestia, se ne andò al suo posto, cioè fra gli altri ufficiali della sua milizia, i quali come lui erano in uniforme, ma provveduti di sciabola.
Il proclama di Crema aveva fatto effetto in tutto, menochè nel far venire sotto i suoi ordini i militi cittadini; costoro, un poco per la paura di compromettersi dirimpetto al capo brigante Nunzio di Paolo, terrore di quelle contrade, ed in parte per indolenza, rimanevano sordi alle chiamate delle nostre trombe, che da più di un’ora giravano invano pel paese suonando a raccolta.
Erano le undici passate da venti minuti, e meno un trentinajo fra militi, caporali, e sergenti della guardia nazionale, nessun altro aveva obbedito all’ordine del pro-
clama, onde, riscontrato che fu da noi, come i ruoli assommassero a circa centosessanta gli individui, che come appartenenti alla milizia cittadina, avevano in quel paese ricevuto dal governo fucile e munizioni, fu da tutti convenuto che gli abitanti di Casalciprano non volevano saperne di organizzarsi militarmente, per far fronte ai briganti.
A tale imprevisto inconveniente, Crema, che per certe contingenze aveva degli espedienti tutti suoi particolari, domandò al sindaco, che cosa ne avessero fatto dei fucili consegnati loro dal governo, e poiché il capo del municipio lo ebbe assicurato, che le armi governative erano custodite nelle proprie abitazioni dalle stesse guardie nazionali, egli adottò immediatamente tale efficace temperamento.
Chiamò a sé il sergente Palmieri, e lo mandò con quattro soldati a togliere dallo stecconato di un prossimo giardino quanti bastoni o pali più potesse prendervi, e ciò fatto, divise il 2° plotone in otto squadriglie di cinque uomini ciascuna, le quali, fatte comandare dai caporali più anziani e dai sergenti, furono provvedute dei suddetti bastoni.
Allora ordinò ai capi squadriglia di suddividersi per le diverse strade del paese, di entrare nelle case, ed ivi, quando avessero potuto ritrovarvi un qualche fucile da guardia nazionale, domandassero chi era lo iscritto nei ruoli, e, saputolo, a suon di bastonate lo forzassero di armarsi e condursi sulla piazza per rispondere alla chiama.
Un’ora dopo che fu impartito tale ordine, si rese scenico il vedere scaturire da tutte le viuzze di quel paese, dei branchi di cafoni, con cappello a cono in testa e con sandali ai piedi, i quali mentre tenevano in mano un arrugginito fucile da munizione, muti e gesticolanti ricevevano delle legnate sul dorso, quali di tanto in tanto i nostri soldati gli applicavano.
Crema stava ad attendere loro sul piazzale, ed a misura che arrivavano, consegnava ad essi delle buone frustate sulla faccia, cosicché quei poveri diavoli, percossi
in più parti della persona, nel mettersi a rango procuravano di nascondersi uno dietro dell’altro.
Appena che gli indolenti abitanti di Casalciprano si accorsero che la corte (Cosi chiamavano in quei luoghi la truppa ) entrava per le case a costringere i militi della guardia nazionale di rispondere all’appello, per evitare le busse, quasi tutti si affrettarono di adempiere volontariamente al loro dovere, ma quando giungevano
sulla piazza vi trovavano Crema, che, col suo pezzo di ippopotamo in mano, trattava loro siccome in parte si meritavano.
Tutto era andato bene; vi era stato qualcheduno di quei cafoni, che aveva tentato di reagire con rivolgere la bajonetta ai soldati, ma da questi era stato prevenuto con una buona calciata di fucile sulla testa.
Erano indescrivibili il fracasso, gli urli, ed il casa del diavolo che facevano le donne ; quelle muliebri jene, più audaci degli stessi uomini, si avventavano contro i soldati armate dei lunghi spilli d’argento coi quali sogliono te- nere raccomandate alla nuca le voluminose chiome, ma i soldati italiani non le percuotevano,sibbene le racchiudevano nelle varie stanze, dopo averle legate fra loro colle lunghe treccie dei disciolti capelli.
In fìn dei conti circa centocinquanta militi cittadini risposero alla chiama, fatta con voce tremante dal capitano mio ospite, ma quando si trattò di condur loro nel vicino bosco, quei pusillanimi trovarono il pretesto di non avere munizioni, perlochè Crema mi ordinò di far togliere dalla nostra portatile santa Barbera (che era un grosso cassone pieno zeppo di cariche) trecento pacchi cartucce, e farle distribuire a ragione di due pacchi per ogni guardia nazionale.
Quei villici, di costumi quasi primitivi, si allietarono tutti per tale loro nuova dovizia di munizioni, e senzachè ne avessero ottenuto il permesso spiegarono i pacchi e misero le cartuccie into a sacca per esser più pronti a caricare la scoppetta.
Le autorità del paese e gran parte delle guardie nazionali, sebben costrette dalla forza, avevano ottemperato agli ordini del proclama;solo il caffettiere era mancato,
e non contento delle busse ricevute il giorno avanti, ancora questa volta si era rinchiuso entro il proprio caffè, nonostantechè rivestisse il grado di sergente.
Questa seconda infrazione alla legge eccezionale da lui commessa, e come milite, e come esercente negozio, indispetti il capitano Crema in modo che volle dargli una tremenda lezione.
Mandò a chiamare alla chetichella un magnano, e gli ordinò di aprire con glimaldello la porta serrata a chiave per di dentro; ciò eseguito con pochissimo rumore fu dischiusa la porta, ed il capitano, seguito da me e da due bassi-ufficiali entrò, nel caffè ove non trovò anima vivente; ma dietro al banco vi era un’usciolino per mezzo del quale si poteva accedere ad una stanza appartata; ivi penetrati, con grande nostra sorpresa trovammo il caffettiere, il quale, sebbene avesse in capo il bonetto di sergente della guardia nazionale, se ne stava spensieratamente a fare il giuoco della scopa con un vecchio sessuagenario.
Crema, divenuto furibondo, a tal vista gli si scagliò addosso e con un colpo di frustino fortemenente applicatogli sulla faccia, gli fé’quasi schizzare fuori della orbita l’occhio sinistro.
Al lamento spasmodico di quell’infelice, ed alla vista del sangue che sgorgò copioso dalla profonda ferita, un urlo d’indignazione fu da noi tutti mandato, e poiché l’inferocito Crema seguitava a percuotere quell’infelice, io gli trattenni il braccio cosi dicendogli:
— Capitano, non dobbiamo mica rinnovare le gesta dei briganti ? !
— So ben che scherza — mi rispose, e si ristiè dal percuotere. —
Ai gridi strazianti del ferito, molte guardie nazionali ed anche qualche soldato entrarono nel caffè ; mi accorsi che a tanta inumanità il sindaco fremeva, e gli stessi fantaccini della compagnia nel veder trasportare a casa il ferito sergente, battevano a terra i calci dei fucili, e guardavano in faccia il terribile Crema, minacciandolo di una sommossa.
Egli però, fidando nella disciplina dei suoi soldati ed indifferente ai segni di generale disapprovazione, montò a cavallo e con voce rauco-tonante cosi comandò :
— Guardie nazionali e truppa fianco destro-destr — e poi ordinato che ebbe alle trombe di suonare la marcia al campo, condusse la colonna verso il vicino bosco.
Giunti per due miglia fuori di Casalciprano, ed arrivati all’altezza del macchioso monte, che comunica con quella serie di colline che si estendono fino alla montagna del Matese, ordinò alle guardie nazionali di penetrare nel folto di quella selva, ed a noi di seguire i passi loro con la consegna di far fuoco addosso a chiunque di quei cafoni avesse tentato di fuggire.
Mezz’ora dopo che con tale ordinamento eravamo entrati in quel forte bosco, le prime guardie nazionali si imbatterono nella banda di Nunzio di Paolo, composta allora di novanta masnadieri, parte a piedi e parte a cavallo.
Costoro da primo, nel riconoscere i loro amici di Casalciprano, non se ne fecero maraviglia alcuna, e credettero che fossero andati loro incontro per combinare un qualche ricatto alcuna dimostrazione ostile al governo piemontese; ma quando si accorsero che i supposti amici erano armati, e sentirono dipoi ronzarsi intorno le prime schioppettate, si nascosero dietro le piante ed i cespugli, ed ancora essi aprirono un vivo fuoco di moschetteria contro le guardie nazionali.
Nunzio di Paolo, sorpreso che quella gentaglia di reazionari, colla quale, pochi giorni addietro, aveva egli cioncato assieme, osasse di muovergli contro, sospettò che
il tutto fosse opera della milizia regolare, e prima che noi si avesse potuto avere il tempo di circondarlo, girandogli ai lati, egli, insieme alla sua banda, si dette a precipitosa fuga, lasciando nelle mani della guardia nazionale una giovane e magnifica giumenta carica di due barili (I barili di quei posti contengono circa cento litri ) di vino bianco, di venti mazzi di sigari virginia, di molte forme di cacio cavallo, e di altri oggetti consistenti in camicie di finissima tela per far bende o filaccie, in più risme di carta per comporre cartucce da fucile, ed in varie pellicine di capra conciate, delle quali si servivano per dormirvi sopra quando erano costretti di pernottare sull’umido terreno.
Appena preso dalle guardie un tal bottino, fu tantosto consegnato al comandante la colonna, capitano Crema, il quale ordinò che il vino ed i sigari venissero equipartiti fra i militi della guardia nazionale e quelli della truppa, e la giumenta con tutto il resto fu li per li venduto ad un ricco speculatore, che era fra gli ufficiali di quella guardia nazionale, per il prezzo di ducati cento, i quali, mediante tanti piccoli boni a vista, vennero ripartiti fra i soli militi della guardia cittadina.
Quei centocinquanta cafoni, lieti per la riportata vittoria sui temuti masnadieri, e contenti di avere guadagnato qualche carlino, nonché esilarati pel vino bevuto, incominciarono a sparare fucilate in aria come per segno di gioja, nel tempo stesso in cui gridavano evviva Vittorio, evviva Garibalda.
Ritornati in Casalciprano furono rotte le righe, ma Crema avanti di ciò ordinare, volle da quelle guardie nazionali la promessa che l’indomani alla stessa ora sarebbero ritornate col fucile ripulito dalla ruggine: ed invero le più di costoro mantennero la data promessa.
Quel movimento cosi disposto in un paese che aveva il nome di essere reazionario, da un punto di vista lo si può ritenere per azzardato, da un altro punto è logico il dire che fu di molto profitto per la estirpazione del brigantaggio.
Assai azzardato perchè esporre una sola compagnia in mezzo a centocinquanta guardie nazionali armate e di dubbia fede, ed a novanta o più briganti, era cosa che toccava l’imprudenza: fu di molto profitto per la repressione del brigantaggio perchè, coll’indurre quella gente di Casalciprano, indisciplinata e poco o punto tenera
della rivoluzione italiana, ad attaccare il fuoco contro i briganti, il Crema fece si, che fra i cafoni ed i masnadieri sorgessero sentimenti di antipatia, di ostilità e di reciproca diffidenza, sentimenti che col tempo educarono quella guardia a dare da sola la caccia a tutti i disturbatori della sicurezza pubblica e specialmente ai briganti.
Ma Crema eccedè nella misura col ferire cosi spietatamente il mal consigliato caffettiere, e quel suo brusco ed inumano modo di malmenare la gente, fu cagione che dopo due tre giorni, venisse richiamato a Campobasso e messo agli arresti per eccesso di misure repressive.
Quando il prelodato capitano si divise dalla compagnia e ne cede a me il comando, per verità dispiacque a tutti la di lui partenza, ma da un altro lato ciascuno di noi giudicò in cuore, che quel suo modo di trattare i borghesi veniva a sostituire un malandrinaggio legale a quello illegale.
Nella nuova mia qualità di comandante la colonna mobile,rimasi arbitro di dirigere la nostra marcia verso dove meglio avessi creduto, essendomi ancora stata accordata la facoltà di prelevare da tutte le esattorie o casse governative l’occorrente per i viveri e per il soldo della mia truppa.
Onde ne avvenne che quando riconobbi come a Casalciprano la milizia cittadina era arrivata al punto di potere da sé stessa difendere il proprio territorio, partii da quel paese e mi diressi alla volta di Spineto, ove da un rapporto dei reali carabinieri ebbi sentore, che la solita banda di Nunzio di Paolo, oltre esercitare ricatti e requisizioni di viveri e di contanti, tentava impadronirsi dello stesso paese.
Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da: “Storia Politico-Militare del Brigantaggio nelle Provincie Meridionali d’Italia”Firenze1884
CAPITOLO IX pag.209-226
fonte
https://www.pontelandolfonews.com/storia/il-brigantaggio/angiolo-de-witt-storia-del-brigantaggio/