Appunti sul Risorgimento /1
Padre Sale della Civiltà Cattolica (quad. 3848) ricorda che sessanta vescovi — uno di essi, mons. Felice Romano (1793-1872), di Ischia (Napoli), è quello che vedete effigiato — delle regioni meridionali furono cacciati dalle rispettive diocesi nel 1860 perché legittimisti filo-borbonici. Strano, no? In genere i vescovi si situano al di sopra delle parti, accettano i buon grado i cambiamenti, convinti della provvidenzialità di tutto quanto accade nella storia dell’uomo e, sempre disponibili a contentarsi del bene comune possibile in ciascun singolo frangente storico. Eppure allora no. C’è solo un altro caso di legittimismo, però in senso opposto: il rifiuto della Repubblica e l’adesione al movimento nacional dei vescovi spagnoli nel 1937-1939: ma allora il problema era la violenza comunista perpetrata dietro lo schermo delle istituzioni di facciata legittime.
Evidentemente davanti alle modalità con cui si era instaurato il nuovo dominio nelle terre del Mezzogiorno, scattarono meccanismi psicologici o valutazioni analoghe. Obiettivamente il governo piemontese non può essere confrontato con gli orrori del bolscevismo staliniano. Ciononostante, se si tiene anche conto che i sessanta non furono i soli — il vescovo di Spoleto, il ligure mons. Giovanni Battista Arnaldi (1806-1867) — nel 1863 finirà in galera per aver difeso il potere temporale del Pontefice — qualcosa di “forte”, di inusitato, di così grave, almeno tanto grave da far abbandonare a presuli cattolici il loro consueto aplomb, dovette allora succedere.
Padre Sale sottolinea lo shock da fine di “regime di cristianità” che accolse l’entrata in vigore delle “leggi Siccardi” in tutte le province conquistate dai Savoia. Giusto. Shock psicologico, ma soprattutto orrore e sdegno nel vedere chiudere i conventi, confiscare le chiese, disperdere i religiosi fra mille soprusi e violenze, mandare alla malora patrimoni inestimabili di cultura oppure buttare sul mercato arredi, libri, dipinti, statue, beni delle abbazie, terreni, edifici. Dilapidare cioè un capitale che la Chiesa aveva accumulato nei secoli grazie al contributo del popolo fedele e al genio e alla munificenza dei suoi dirigenti: cardinali, vescovi, prelati, capitoli, abati, collegi, priori, arcipreti…
Di solito non si riflette su questo aspetto: quello che la Chiesa possedeva non era suo. Non l’aveva prodotto lei, perché la sua missione non è di coltivare e di produrre ma di celebrare il culto e di evangelizzare. Lo aveva ricevuto nei secoli da uomini e donne che avevano liberamente e piamente ritenuto di mettere parte dei loro beni lasciati sulla terra alla loro dipartita al servizio dei poveri attraverso il curato o il vescovo. Già: i beni ecclesiastici servivano per il culto e per sostenere i meno abbienti, per far studiare i più svantaggiati, per curare chi, come tutti allora, non aveva la mutua, per mandare in missione un religioso, per creare un orfanotrofio o un oratorio. E non pensiamo solo ai beni di diritto privato. Al pontefice come sovrano temporale si affidavano in feudo terre, città, principati. L’ostinazione di Pio IX a non voler cedere il potere temporale fu dovuta sì alla necessità di un presidio politico della Cattedra di Pietro, ma anche e soprattutto al dovere di tutelare diritti su cose e persone che non erano originariamente della Santa Sede ma a lei si erano affidati e non potevano essere alienati né si poteva venissero espropriati senza il consenso del datore, ovvero non potevano esserlo in assoluto essendo costui o costei defunto magari trecento anni prima!
A fianco di questa esperienza diretta si può credere che i vescovi del Mezzogiorno vedessero o sapessero che cos’era l’insorgenza popolare della Lucania e delle Calabrie, cioè con quanta crudeltà venisse condotta la guerriglia contadina e quanto violenta fosse la risposta a essa, come conducevano cioè le operazioni di controguerriglia i soldati “piemontesi”, fucilando senza pietà veri e presunti briganti, violentandone le donne, mutilandone i corpi, abbandonandone i cadaveri o facendosi fotografare a fianco dei loro corpi messi in posa, in piedi o seduti, con gli occhi tenuti aperti apposta, oppure con le loro teste ai piedi, come se i poveri cafoni in armi fossero bestie selvagge uccise durante una “caccia grossa”.
Ma tutto questo non basta. Quello che i vescovi non digerivano allora era la soppressione manu militari di un regno, del loro regno, l’esilio coatto di una dinastia cattolica con la quale avevano avuto frizioni e scontri, ma tutt’altro che indegna. Non è possibile non capire che cosa significasse per uomini di quel tempo e in quel ruolo vedere applicare al regno borbonico criteri che neppure uno Stato coloniale avrebbe applicato contro un popolo asservito. Francesco II viene sconfitto, e come sono andate le cose si sa: corruzione, oro inglese a fiumi, promesse di fulgide carriere militari e diplomatiche nel regno unificato, tradimenti di massa, diserzione dei propri doveri istituzionali e morali. Ma un nemico sconfitto a metà secolo XIX — non siamo ancora ai tempi di Varsavia oppure di Dresda e di Amburgo o di Hiroshima e Nagasaki, né di Carlo d’Austria — distruggendone e deportandone l’esercito, appropriandosi delle sue navi, confiscando il suo tesoro e i suoi averi privati. Solo i giacobini e Napoleone avevano avuto il coraggio di giocare con i regni e i sovrani come a un tavolo di Monòpoli.
Pensando o facendo credere d’incarnare il principio di nazionalità, di fare la volontà dei — potenzialmente — ventisei milioni d’italiani di allora, i sabaudi e i garibaldini pensavano — e agivano di conseguenza — di potersi permettere, maramaldescamente, qualunque “disinvoltura”. Certo la caduta di Napoli non si può paragonare alla caduta di Saigon, né il Lager di Fenestrelle ai campi di lavoro dove per decenni hanno faticato fino alla morte i fame o di malattia migliaia di dirigenti e quadri politici e militari del governo vietnamita libero, almeno quelli non fucilati nei giorni della vittoria del Nord. Comunque, il modo con il quale l’antico regno normanno — e non solo esso — è stato “liberato” viola ogni regola di rapporti fra Stati. E l’uomo di Chiesa non deve mai rendersi prono alla minima violazione dei diritti fondamentali degli uomini e delle entità collettive.
Oggi una resistenza come quella dei vescovi napoletani è semplicemente impensabile, perché i nemici del Sud non hanno più bisogno né di tagliare teste — le teste i meridionali se le tagliano virtualmente da soli omologandosi al politicamente corretto –, né di svuotare i conventi perché questi si svuotano da soli e quelli che restano spesso hanno solo l’apparenza di cenobi.
Oscar Sanguinetti