Bambini vetrai: una drammatica pagina dell’immigrazione italiana in Francia
Condividendo con voi l’inchiesta di Ugo Cafiero[[Ugo Cafiero era un diplomatico, di formazione giuridica, che frequentava il gruppo dei socialisti alla Camera]] Fanciulli italiani nelle vetrerie francesi (Opera di assistenza degli operai italiani emigrati in Europa e nel Levante, giugno 1901), vogliamo proporvi le testimonianze e le storie della tratta minorile italiana in Francia riportando fedelmente le parole e le intuizioni dell’autore. Quello descritto è il ritratto di una gioventù sacrificata all’industria dell’incettatore, prima ancora che a quella del vetro.
Ci fu detto, per una parte, che anche in Francia le Leggi esistenti non sono sempre ed ovunque applicate col dovuto rigore, che Ispettori del lavoro in certi casi o si astengono dal compiere le loro ispezioni o vedono male o non vedono punto; che influenze elettorali di interessati nelle vetrerie e quindi nello sfruttamento dei giovani italiani si farebbero a volte sentire in più d’un pubblico ufficio…
(…) Altre fonti, in paese e fuori, c’indicavano invece quali cause specifiche della tratta, la trascuratezza, se non addirittura spesso la interessata complicità, delle Autorità locali (Sindaci, Segretari comunali) in taluni centri nostrani dell’emigrazione.
(…) Il rapporto Scelsi, come una parte delle informazioni da noi raccolte, conclude prevalentemente a cercar in Paese i rimedi alla tratta dei piccoli italiani per le vetrerie.
(…) Sarebbe stato giusto, in omaggio al vero, di soggiungere che questi speculatori sono essenzialmente italiani.
È così che il dott. Alberto Geisser introduce le impressioni e le analisi del viaggio di Ugo Cafiero nei circondari di Isernia (Molise) e Sora (Lazio) ai primi del Novecento, inchiesta che raccoglie documenti e testimonianze della tratta, dell’arrivo, della permanenza e, spesso, del mancato ritorno dei piccoli italiani obbligati a lavorare nelle vetrerie francesi.
Lo spettacolo che si presentò agli occhi di Cafiero al suo arrivo nelle due città, ci offre un quadro netto del grado di miseria che attanagliava le regioni sul finire dell’Ottocento.
Appena si scende alle stazioni ferroviarie di questi due circondari, immancabilmente un fenomeno vi colpisce. Frotte di contadini di ogni sesso ed età, ammucchiati con sacchi di effetti di uso, aspettano il treno, che li porti lontano dall’Italia. Sono tutti uomini corpulenti e robusti, donne belle, con graziose acconciature di panni alla testa, rosei bambini, vecchi arzilli. La popolazione di queste contrade è tutta bella e forte, è forse la più bella d’Italia. Ed è anche buona. Si usano tra loro le cortesie più ingenue, nel dividersi il pane e qualche companatico, che portano con loro come provvista di molti giorni; prima le parti ai bambini, poi ai vecchi, poi alle mogli, ultimi i padri di famiglia.
Ai perché di Cafiero i migranti rispondevano loquacemente e senza velare la loro rabbia.
Non è più possibile tirare avanti. La terra non dà più niente. Se c’è, piglia tutto il padrone; non ci resta come sfamarci… trovino ora le braccia… Se la lavorino loro, ora, la terra!
L’emigrazione, in questi paesi desolati e dimenticati dal mondo, era un fenomeno “normale”, le fatiche e le sofferenze di molti rappresentavano contemporaneamente il successo e la fortuna dei pochi: funzionari, amministratori e commercianti, come documenta Cafiero, costruirono la propria ricchezza sui risparmi e le rimesse di denaro che gli emigranti facevano pervenire alle proprie famiglie.
Dal Sindaco di Sora a quelli di Venafro, di Sandonato e di Fontana Liri, tutti bravi amministratori, ai principali cittadini, come il dottor Cardelli di Settefrati, come il signor Bartolomucci di Picinisco, come il dottor Gentile di Atina, agli egregi segretari di Isola del Liri, di Roccasecca, di Pozzilli, di Venafro, tutti energicamente affermano, che l’emigrazione sia una sorgente di ricchezza.
Un’ «emigrazione patologica», a ben vedere, che travolse soprattutto i minori: bambini costretti e manipolati dai propri concittadini e compaesani, condotti oltralpe a soffiare torba di vetro incandescente nelle fabbriche francesi e belghe, in cambio di poche lire versate alle famiglie. La povertà aveva portato anche gli stessi genitori a sacrificare i figli sull’altare del “Dio” denaro.
Lusingati dai negrieri – sono sempre dei compaesani che dimorano in Francia e vengono per poco tempo, a rifornirsi di carne umana – si videro promessa una vita di agi, di ricchezze, davanti a cui in contrapposto delle miserie locali, s’inebriano gl’ingenui fanciulli. In modo che, quando non sono i genitori, che cedono per le promesse cinquanta lire a semestre, sono i ragazzi, che con pianti e preghiere e moine persuadono le tenere madri a mandarli.
Il giudice Maietti affermò in un colloquio con Cafiero:
Posso ben certificare che l’avidità del denaro è causa principale di tanta ignomia (…). Contadini ed operai agiati lasciavano tutto per dedicarsi alla tratta. (…) Altri vi si piegavano per necessità. Partiti per le vetrerie, non erano ammessi senza fanciulli; e o ne compravano di seconda mano in Francia dai grossi fornitori, ovvero ritornavano in Italia ad intercettarne. (…) Questo lavoro dei fanciulli italiani è un affare eccellente per gl’imprenditori francesi.
Furono gli atti del processo Vozza a mettere a nudo i particolari più terrificanti della tratta dei minori che Cafiero descrive così:
Donato Vozza giunse nel 1896 a St. Denis con 13 fanciulli di proprietà sua e di un tal Carlesimo, e li impiegò nella vetreria Legras. Di accordo col proprietario della fabbrica li accompagnava ogni giorno, si sentissero o no in forze, e li sorvegliava, durante la giornata di lavoro nella fabbrica stessa. Intascava più di mille lire al mese. La stanza dove i ragazzi dormivano era in un pianterreno non scantinato, umidissima, la cui porta dava in un corridoio nero, senza altra apertura da cui venisse la luce tranne un foro nel soffitto. Quando in seguito all’inchiesta delle autorità francesi il Vozza coi piccoli fu stanato di là, la portinaia raccontò che in un anno non aveva mai visto entrare in quella casa né carne né pane; si compravano solo croste di pane.
Le storie di Paolo e Felice Fraioli, deceduti nelle mani del loro avido padrone, sono certamente le più tragiche e toccanti del processo Vozza ed offrono a Cafiero l’occasione per prendere in mano una serie di lettere che i giovani, spesso analfabeti, erano costretti a scrivere, sotto dettatura dei padroni, per rassicurare i propri cari. Alle famiglie, che attesero invano il ritorno dei propri figli, vennero rivolte menzogne ed umiliazioni allo scopo di occultare l’operato atroce degli incettatori.
Io ho letto molte di queste lettere, si somigliano quasi tutte: «Caro padre o cara madre, io questa lettera ve la scrivo (o me la fo scrivere) di nascosto dal padrone! Io sto bene assai in salute, meglio di voi! Il padrone non ci fa mancare niente e se lo leva di bocca lui e la moglie per noi! Qui non c’è lavoro ora e stiamo a carico suo! Perciò pazientate per il denaro e non dubitate!» Se il padre minaccia di andare in Francia, allora il figlio scrive: «non venite perché io non me ne voglio tornare al paese a soffrire! Se venite, io me ne scappo e non mi fo trovare! Il padrone mi vuole più bene di voi!» Et similia!
Tanti gli incettatori, tanti i nomi dei giovani e dei loro avidi “padroni”, come molti furono anche gli uomini e le donne italiane e francesi che si prodigarono per mettere fine ad un tale orrore… Piccoli vetrai, schiavi bianchi, vittime inconsapevoli di un sistema capitalistico emergente che non ebbe scrupoli nel sacrificare le loro vite in nome della ricchezza e del profitto. Storie d’emigrazioni per lo più involontarie ed inconsapevoli, di bambini e di vite ai margini, di povertà e d’incessante sfruttamento, che adesso, purtroppo, non fanno più notizia.
Mirco Di Sandro
fonte https://altritaliani.net/bambini-vetrai-una-drammatica-pagina-dellimmigrazione-italiana-in-francia/