Alta Terra di Lavoro

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Battaglie e fatti d’armi ad Itri e a Fondi nel 1346,1534 e 1535 di Alfredo Saccoccio

Posted by on Ago 7, 2023

Battaglie e fatti d’armi ad Itri e a Fondi nel 1346,1534 e 1535 di Alfredo Saccoccio

   Nel 1338 ci fu una controversia tra gli itrani ed i gaetani per un certo tenimento. Ambedue le città rivendicavano il territorio di loro pertinenza, per cui si ricorse alle armi. I gaetani attaccarono per primi e si  misero contro la fortezza di Itri.

Nel fatto guerresco si inserì il conte di Fondi, Nicolò Caetani, che sconfisse i gaetani, dimostrando la sua indole riottosa ed il suo valore. L ’episodio bellico procacciò al Caetani e ad alcuni  uomini del suo seguito il cingolo e l’onore delle armi da parte del re di Napoli Roberto d’Angiò, una figura molto discussa dagli storici e dagli studiosi del regno di Napoli,un personaggio carico di sottintesi e di contraddizioni.

   Due anni dopo, i gaetani, però, non si diedero per vinti e,nel febbraio del 1340, invasero nuovamente  il borgo di Itri. Anche questa volta essi furono duramente sconfitti per l’intervento del sovrano Roberto in favore del conte Nicolò. Nello scontro le truppe  gaetane persero molti uomini  ed il loro comandante, il napoletano Corrado Guindazzo. Inoltre gli sconfitti dovettero sborsare al sovrano  napoletano 200 once come risarcimento dei danni.

   Nel 1346 il  suddetto conte di Fondi, Nicolò Caetani (ancora lui!),fu mpegnato  in una impresa guerresca contro le truppe della regina di Napoli, Giovanna I,che che aveva  inviato un forte esercito, composto di 29 capitani, 600 cavalieri e numerosi fanti. Nicolò Caetani, pur essendo in minoranza numerica, potendo contare solo su 400 cavalieri ed alcuni pèdoni, non si preoccupò ed attese che le truppe della regina entrassero nel suo territorio. Egli, ancora una volta, riuscì ad avere la meglio, grazie ad uno stratagemma: fece murare tutte le porte della cittadella, eccetto quella principale, l’angusta via Mamurra; fece armare gli abitanti ed ordinò loro di nascondersi nelle loro case. Nicolò Caetani intanto, nel pomeriggio del 14 settembre 1346, ingaggiò con le truppe napoletane una battaglia che durò fino a sera, facendo finta  di non riuscire a contenere i nemici, che continuamente conquistavano terreno. Cessato lo scontro per le ombre della della sera, il conte dei Fondi controllò se fossero stati rispettati i suoi ordini e, nel buio della notte, uscì nascostamente con tutta la sua milizia. All’alba del giorno dopo, le truppe della regina, guidate da Filippo de Anatolio, Fusco Guindazzo e Jacopo Faraone, trovano porta Mamurra aperta e notando ch non vi era alcun segno di vita nella cittadella, imprudentemente entrarono per la porta principale. L’esercito napoletano, convinto che tutti gli abitanti fossero fuggiti, penetrò nel sobborgo lasciando i cavalli davanti alla porta e mettendo in disparte le armi più pesanti per essere più liberi nel rovinare le porte e le mura e per saccheggiare meglio le case.. Quando l’esercito nemico, avido di bottino, fece ressa nella cittadella, ad un certn punto, comparvero Nicolò Caetani ed i suoi armigeri, che presero alle spalle i soldati della regina, bene imbottigliati nella stretta via, mentre, ad un segnale di tromba,  dall’alto di ogni abitazione, piovve ogni sorta di oggetti, dalle frecce ai sassi, dalle caldaie di olio bollente alle masse di pece imbrattanti. Le truppe partenopee, esterrefatte ed ammassate, non poterono opporre la benché minima difesa e caddero in gran numero lungo le gradinate della via, mentre, dall’alto, gli abitanti infierivano senza pietà. Fu una carneficina per l’esercito regio; morirono anche i suoi tre capitani. I superstiti furono graziati, ma, denudati,, vennero rimandati a Napoli, con un cartello sulle spalle, su cui era scritto, in segno di scherno, “Ego sum robba, quam comes Fundi fecit de novo”,  cioè che essi erano roba che il conte di Fondi, Nicolò Caetani, aveva rimessa a nuovo

   Per chi volesse approfondire l’argomento, consigliamo “La battaglia di Itri” di Paolo Manzi, per le edizioni “Ali Ribelli, un testo che offre uno spaccato di vita di un’epoca, in cui si celano riferimenti preziosi ed inesplorati delle popolazioni e delle plebi del Sud, di quelle vaste masse che da secoli portano sulle proprie carni “il marchio dei vinti”.

   Porta Mamurra, nonostante il deplorevole abbandono, pur privata di alcune peculiarità, resta ancora suggestiva e pittoresca,nonostante sia scomparso il suo scenografico panorama, con la sua fresca cintura verde, soffocata da edifici moderni, che, con la loro presenza, hanno violentato  bellezza del posto.

   Altro fatto d’armi avvenuto in territorio itrano riguarda Ariadeno Barbarossa, per il mancato ratto della contessa di Fondi Giulia Gonzaga.   

   Specialista dell’Algeria Camus, Aurélie Tidianj, da cui egli stesso è originario, José Lenzini ci dona, questa volta, sul tono piacevole  di un racconto orientale, una narrazione biografica basata su  fonti storiche poco sfruttate  e che permette di scoprire la personalità fuori del comune di quel terribile Barbarossa, di cui la più vecchia prigione di Algeri porta ancora il nome.

   Barbarossa e i suoi tre fratelli, tanto popolari  nell’universo musulmano quanto d’Artagnan e i moschettieri in quello francese, videro la luce verso il 1470 in un modesto focolare turco-greco  dell’isola di Mitilene. Figli del Mediterraneo, essi stavano, sanguinarii pirati agli occhi della cristianità, corsari benedetti da Allah per l’islam, per divenire i re della Corsica prima che uno di essi non si facesse molto semplicemente  re di Algeri, conferendo “ al paese delle isole”, El Djezair, quello che può essere considerato la sua prima macinatura unitaria nei tempi moderni.

   Dall’abbordaggio  audace delle navi pontificie sulle coste dell’Italia centrale all’affronto senza pari  inflitto a Carlo Quinto  dinanzi agli isolotti algerini, si svolge la carriera  stupenda di un marinaio  divenuto arbitro tra potenze mediterranee.  Verso il 1500, gli Arabi scacciati dalla Spagna, francesi di Algeria, trasformarono Algeri in bastione revanscistica. Così gli spagnoli avevano occupato un piccolo arcipelago roccioso al largo della città. E’ per togliere “questa spina posta nel loro cuore” che gli algerini, nel 1514, chiamarono Barbarossa, allora installato a Djidjelli, nella Piccola Cabilia. Occorsero tre lustri al re-corsaro e ai suoi per cacciare gli spagnoli dalla baia di Algeri. Gli algerini furono soccorsi, ma nello stesso tempo avevano, senza saperlo, posto il loro Paese, fino alla conquista francese del 1830, sotto la ferula ottomana.

   Occorreva attendere l’emiro Abdelkader perché spunti in Algeria un altro personaggio di grande apertura come l’uomo di Stato Barbarossa, capo rosso dalla tenpra d’oro e d’acciaio, di cui José Lenzini in “Chemin de proies en Méditerranée”, Actes Sud, 270 pagine, ha saputo con spirito far rivivere, sullo sfondo politico-guerriero, il “cursus” più che romanzesco.

   Il cardinale Ippolito de’ Medici, il bastardo di Giuliano, idolo dei Romani, orgoglio del pontefice, Leone X, suo zio, vicecancelliere della Chiesa ed ambasciatore della stessa, che amava le partite di caccia, i giochi d’armi, le feste teatrali e musicali, i piaceri della vita, mantenendo  uno stuolo di letterati, di artisti, di musici, di ufficiali, di scudieri. Egli frequentava, a Fondi, la corte della contessa Giulia Gonzaga, vedova del gran capitano Vespasiano Colonna, ritenuta la più bella dama  del mondo, di cui era il più servizievole   dei suoi amici, decantata da Luoivico Ariosto  nel canto 46 dell’”)rlando  Furioso”, da Bernardo  Tasso  e da tanti altri verseggiatori, uno dei quali, Gandolfo Porrino, definì Fondi, in cui si trovavano i più bei nomi del Parnaso italiano, “la vera età dell’oro”. Di lei conosciamo l’episodio del mancato ratto di Giulia Gonzaga , ad opera di Ariaadeno Barbarossa, che, forte di ottanta gale e di seimila barbareschi, armati fino ai denti, ridusse Fondi un mucchio di pietre fumanti, dopo averlo fatto nella limitrofa Sperlonga, dove  catturò più di mille persone.

  Era l’agosto del 1534. Le chiese, le ville e le fattorie furono devastate. Poi le soldatesche turchesche si diressero verso Itri, ma i difensori del unitissimo castello   medioevale respinsero gli assedianti, costretti alla ritirata. Allora Ariadeno e i suoi si diressero verso il monastero benedettino di S. Martino, a circa 3 km. dal paese, posto in cima ad una collinetta , sulla via Appia. Khair-ed – Din, cioè “il bravo”, era convinto di trovarvi la contessa, fuggente scalza, scarmigliata, in camicia, su un cavallo, come Angelica, inseguita da Rinaldo, tra selve oscure, nutrendosi  di frutti selvatici. Il Barbarossa si rivolse  alla badessa chiedendole di Giulia. L’anziana madre superiora giurò sul crocifisso  che la contessa di Fondi non era lì. Al che il corsaro, scansando la badessa, penetrò nel monastero  abbattendo tutte le porte. Non trovando la fuggiasca nel pio luogo, egli fece saccheggiare ed incendiare il monastero. Le giovani monache furono trascinate in catene e la madre superiora fu pugnalata a morte. Il corsaro, però, non era riuscito ad arricchire il serraglio di Solimano II, detto “il Magnifico”, della splendida  fanciulla, dal biondo crine, che seppe vivere una vita esemplare e casta, anche se lo scrittore napoletano Filonico Alicarnasseo, al secolo Costantino Castriota, tenta di insozzare ,  in questi tempi tristi e di costumi facili, con volgare calunnia, il nome di Giulia mettendo in dubbio la sua purezza di vita e la sua illibatezza. il 10 agosto del 1535 Ippolito de’ Medici morì nel convento francescano di Itri. Con il cardinale, persero  la vita Berlinghiero Berlinghieri e Dante da Castiglione.. Il giovane porporato, amatore delle lettere, mecenate  di letterati, di poeti e di dotti, di cui si circondava, il 2 agosto fu colpito da lieve indisposizione, duvuta agli strapazzi che gli recavano le cacce, i tornei e le frequenti visite  a Fondi,  da Roma, presso Giulia Gonzaga. Quattro giorni dopo, costretto il cardinale ancora a letto da un  malore, il servo Giovanni Andrea  da Borgo San Sepolcro, corrotto dal duca di Firenze Alessandro de’ Medici,  bastardo di Giulio de’ Medici,cugino di Ippolito, di costumi ignobili, approfittò della circostanza per atture il suo criminoso piano.  Egli portò, per il pranzo del cardinale, una minestra  in brodo di carne di pollo, condita con pepe, nella quale, però, aveva propinato del veleno, portatogli da Firenze dal capitano Pignatta.  L’autorevole prelato, che morì tra il dolore degli amici, accusò dell’avvelenamento lo scalco.

   Con Giovanni Andrea De Francisci, toscano di Borgo San Sepolceo, arrestato e rinchiuso  nel castello medioevale di Itri, dove  fu sottoposto dal castellano, da Piero Strozzi e da Bernardo Salviati a strazi e a tormenti inauditi. Presso  di lui, era Giulia Gonzaga,che alleviò  dolcemente la sua sofferenza assistendolo ed usandogli squisite cortesie. Però non tutti gli storici del tempo ritennero che Ippolito fosse stato vittima di un efferato delitto. Infatti alcuni sostennero che il cardinale, il quale aveva fatto del trecentesco convento francescano un centro di intrighi per  la conquista del ducato di Firenze accogliendo numerosi fuoriusciti (Niccolò Machiavelli, detto il Chiurli, Francesco  Corsini, il già citato Dante da Castiglione, Antonio  Berardi, Bartilommeo Nasi, i capitani Gioacchino Guasconi e Baccio Popoleschi), provenienti dalla città sulle rive dell’Arno, morì per febbri malariche, dovute a terreno malsano, altri per intossicazione da cibi avariati, avendo mangiato una zuppa di pollo pepata. Non appena Ippolito l’ebbe  inghiottita, si sentì male. Ippolito sospettò subito :”Io sono stato avvelenato ed assimi avvelenato Giovan Andrea”.

   Il Cardinale muore cinque giorni dopo, il 10 agosto, a mezzogiorno, all’età di soli ventiquattro anni : Il servo, interrogato, risponde semplicemente: “Egli è fatto”.  Egli ha pestato ill veleno tra due pietre, ma non si sa da chi l’abbia avuto. La maggioranza pensa che glielo abbia procurato il duca Alessandro, il quale odiava il cardinale e diceva di lui : “Noi ci sappiamo levare le mosche dintorno  al naso”

    Da principio imprigionato a Roma, a Castel Sant’Angelo,il siniscalco parte poi per Firenze, dove è ricevuto alla corte di Alessandro , ma in seguito i suoi concittadini lo massacrano. Secondo un cronista tiburtino, Ippolito de’ Medici ebbe un’indisposizione mangiando una panatella, che causò la sua morte precoce. Veleno o febbri palustri o ancora qualche intossicazione da cibi avariati? Una morte che suscitò  larghi compianti, a cominciare dagli artisti che manteneva, i quali, il 13 agosto  ne portarono, a spalla, la salma, da Itri a  Roma. Anche per la Gonzaga fu una grave perdita. Il lutto fu generale per questo signore così liberale. Le nenie  funebri furono espresse in tante lingue, accompagnate da urla raccapriccianti, che gelavano il sangue ai presenti. Alcuni servi di colore, africani e mori, si graffiavano il viso per il dolore.

   Sul far della notte, il corteo mosse da Itri verso Roma, con le fiaccole ardenti e le bandiere a mezz’. Il clero era in pompa magna, con crocifissi e stendardi, come si conveniva ad un vicecancelliere della Chiesa. La bara era adagiata sulle spalle  degli uomini delle ventidue tribù che formavano  la corte esotica dell’alto rappresentante della cristianità. Sopra  il feretro, che veniva condiviso a turno, il cappello cardinalizio, la corazza e le armi del defunto. Dietro la bara, una lunghissima fila di cavalieri, di paggi, din amici, di vassalli, oltre a tanti popolani e contadini.

   La salma di Ippolito de’ Medici, che fu seppellita nella chiesa di San Lorenzo in Damaso, a Roma, fu pianta da tutta la cittadinanza.

   Un altro fatto d’armi accaduto in territorio itrano fu nel dicembre del 1798, in località Sant’Andrea. Giunta a Fondi, 1i 18 dicembre 1798 , con i generali francesi Rey e Forerst, la prima legione polacca, oltrepassata la fertile pianura fondana, continuuò la marcia sull’antica via Appia, “regina viarum”,  che sale fortemente formando un lungo e tortuoso budello, che si insinua in una stretta gola fra i monti e che lo porta, dopo una breve  discesa, fino ad Itri. Qui la marcia trovò un’accanita, vigorosa resistenza da parte di grandi moltitudini armate, costituite da “paesani”, che si erano riumiti, dal giorno prima, alla difesa del fortino di Sant’Andrea, disposto all’imboccatura della valle che conduce al centro aurunco, un punto elevato, strategicamente molto importante, poiché domina il valico itrano. Esso, costruito dai soldati del corpo di Lucania, disponeva di 8 pezzi da 12 e costituiva, per la sua posizione, un terribile ostacolo.

   La gola di Sant’Andrea era affiancato da due pareti rocciose: a sinistra, di 200 metri di altezza; a destra, di 300-400 metri. Per impedirvi l’accesso, era stato costruito il ponticello di S. Angelo su un torrente vernotico. “Era quindi – come scrive lo storico polacco Jan Pachonski – una posizione difficile da superare”.

   Il fortino era all’inizio della salita, a destra, e poggiava su una vasta villa, di epoca romana, proprio al margine dell’Appia Antica. Passaggio obbligato delle truppe francesi che marciavano alla  volta di Napoli, esso accolse “Fra’ Diavolo” e circa 800 uomini, che si opposero all’avanzata su Itri di diecimila francesi, al comando del generale Championnet. Qui persero uomini e tempo nell’aggirare la posizione attraverso l’impervia gola, le Termopili di quella guerra..

   La difesa del passo di Sant’Andrea, a quanto risulta, fu organizzata a dovere. Con “Fra’ Diavolo” erano, tra gli altri, D. Giuseppe D’Elia, di Mola di Gaeta, l’odierna Formia, con una settantina di armati “disciplinati e valorosi”, D.Tommaso de Spagnolis, che si era recato a Roccaguglierlma, l’attuale Esperia, “ad armar gente”,

   La rapida organizzazione, diretta alla difesa dei passi montuosi, riuscì. In molti attacchi le truppe polacche furono respinte e poste in una situazione imbarazzante. Per vari giorni, il nemico fu tenuto in scacco  e in grave siuazione di disagio dagli insorti di Itri. Comandava quelle moltitudini Michele Pezza, che, con i fratelli ed altri coraggiosi insorti, era accorso a Sant’Andrea. Il comandante del forte, il capitano Sicardi, non ritenne ivi necessario il suo aiuto, avendo sufficienti truppe di difesa, appartenenti  ai due battaglioni “Lucania” e “Calabria”, più 40 soldati a cavallo, sistemati nel tratto compreso  tra la “Batteria di  Sant’Andrea” ed Itri, una compagnia con dieci cavalleggeri nella batteria, una seconda compagnia sostenuta dai fucilieri di guardie co9nfinarie e da uomini reclutati sul posto, che doveva difendere i fianchi delle alture, una terza compagnia, con 10 soldati, a cavallo, che costituiva la riserva, disposta a nezza strada, dietro la batteria.

   L’ufficiale borbonico suggerì al Pezza  di occupare e di sorvegliare, invece, le alture delle colline adiacenti per impedire un eventuale accesso ai nemici, il che fu prontamente eseguito.

  Gli intrepidi, prodi terrazzani, mossi dall’attaccamento all’avita religione e al re  legittimo, dai cigli e dai precipizi sovrastanti, vedevano i franco-polacchi sopraggiungenti    e li attendevano ai varchi solitari e difficili della lunga e tortuosa strada, lungo i fianchi di Monte Grande.

 Intanto, con lettere circolari, il capomassa chiese ai paesi limitrofi di mandare uomini armati e di unirsi alla sua massa. In tre giorni, poté averne, al suo comando, circa tremila, mantenuti a spese delle rispettive “Università”, ovvero dei “Municipii”.

   Nonostante la precipitosa rotta di Roma, dovuta ad ufficiali inetti ed infidi, lo seguivano in quasi tremila. Questo dimostra l’ascendente, il carisma di questo giovane, che riesce a trascinare dietro di sè molti combattenti, armati di corte spingarde, di antichi tromboni, di pugnali infilati nella cintura.

   I francesi si incunearono nella gola tra Monte Marano e Monte Grande e attaccarono proprio nei pressi del tempio di Mercurio (Hermes ptopylaios?), dove, fino a pochi decenni fa, c’era un’erma marmorea di Ermete, il barbuto custode delle  strade. Essi furono accolti da una scaricai di fucili, caricati a pallettoni, lasciando sul terreno 22 morti. I “paesani” fecero 15 prigionieri, fra cui un ufficiale. Essi si impadronirono anche di 35 fucili e di 10 sciabole.

   Michele, che con la sua voce tonante riusciva a galvanizzare i suoi, era segurito con entusiasmo crescente.

   Era sempre in prima linea, quasi a sostenere la sua vantata invulnerabilità, ma nulla potettero lui e i suoi proseliti contro quelle truppe agguerrite, munite di artiglieria, reduci dalle vittotire di Val Padana.

   Michele  Pezza combattté, né le sorti non felici della battaglia rallentarono l’impeto, il valore, la fede del guerriero. Ritto su una scabra roccia, tra profumi aspri e silvani, l’intrepido  ed ardente duce continuò instancabilmente a pugnare. I suoi seguaci facevano quadrato, disposti a sacrificarsi e a morire, spinti da principii intangibili.

   I  francesi sparavano con una cadenza impressionante contro i regnicoli, annidati dietro le rocce. “Fra’ Diavolo” sembrava, nella sua strategia militare, di aver letto il maggiore prussiano Karl von Clausewitz.

   I transalpini incontrarono enormi difficoltà. Le loro forti colonne  erano molestate da un drappello di uomini, che riceveva una forza eccezionale dalla zona montagnosa, che proteggeva la sua fronte, e da burroni laterali, ai quali esso si appoggiava: : due condizioni favorevoli che permettevano la difesa del posto. Difesa efficace e forte, con cui i “paesani” tennero inj scacco, per tre giorni, le soverchianti truppe francesi.

   Le colonne napoleoniche, in linea serpentuna,, si inerpicarono penosamente lungo la gola, svolgendo un movimento ascendente, a spirale. La piccola pattuglia di “Fra’ Diavolo”, pratica dei luoghi, scelse una buona posizione in montagna, assunta in base a caratteristiche rispondenti  ad esigenze oggettive e a propensioni difensive, utilizzando un trinceramento più su  di Monte Costa Forte, per cui si acquistò un’elevata capacità di resisenza.

   Michele Pezza aveva posto diversi gruppi affiancati convenientemente  su determinato fronte per renderlo molto forte, quasi inattaccabile. Si trattava, per loro, di proteggersi contro aggiramenti, estendendosi su ambedue i fianchi, dietro ad ostacoli naturali commisurati all’entità del complesso delle forze. Era una difesa passiva, che possedeva un elevato grado di forza intrinseca, anche se si perdeva un po’ di libertà di movimento,.  

Un giorno, retrocedendo esse verso Fondi, in attesa di rinforzi, l’audace capomassa poté, in una rapida e poderosa  scorreria, prendere loro 1400 pecore tenute nell’accampamento della sussistenza francese per provvisione. La posizione dell’esercito  invasore presentava disagi non comuni. Gli insorti, mavnovrati  e coordinati dal Pezza, scendendo, all’improvviso, dalle pendici dei monti, colpivano, uccidevano, ferivano, catturavano i francesi, fuggendo dove non era facile inseguirli e facendo anche crollare il ponte della regia strada. La nuova tattica delle truppe improvvisate, che, giovandosi del punto elevato, resistevano tenacemente ai provetti militari venuti dai grandi campi di battaglia, è ricordata con ammirazione dagli storici e  dai diaristi del tempo.

   I francesi, forniti di cannoni, che grandinarono di palle  i difensori del forte, e di armi nuovissime di zecca, oltre all’artiglieria e alla mitraglia, abituati com’erano a sopraffare ogni esercito in Europa, in breve tempo, rimasero stupiti nel vedersi respinti, per tre volte, pagando un duro scotto, Michele Pezza aveva disposto i suoi uomini, non addestrati, numericamente inferiori, di fronte ai soldati migliori del suo tempo, armati di arrugginiti tromboni, dei fucili a stoppaccio, che pesavano il doppio dei fucili moderni dei francesi, di ricurvi pugnali, di falci, di forcon, in una forte posizione, così ripida e spezzettata da oliveti e  da terrazze, che i “paesani” avrebbero corso poco pericolo, se avessero mantenuto la loro ordinata disposizione strategica.

   In  quel limpido mattino di dicembre, l’aria era fredda e pungente. Era accanto a Michele Pezza, Alesssandro Abruzzese, con il  cappotto marrone, il suo cappello a pan di zucchero, alto, morbido, dal quale usciva un ciuffo di capelli neri, inclinato sulla destra.

   Michele decise, a causa della sua indole fiera, che avrebbe combattuto i francesi “unguibus et rostris”,difendendosi con ogni mezzo.

   Inforcò il suo purosangue “Bucefalo”, le spalle erette e immobili, le ginocchia strette, i pugni chiusi sulle redini,  fra il pomo della sella e l’inguine, il viso alzato, gli occhi fissi: tutt’uno con il suo destriero, ma nel contempo indipendente dal cavallo.

   Il giovane, dal bel volto proteso, incorniciato da un’ispida barbaccia, dallo sguardo intento, dalle labbra serrate, è intrepido, fiero,  riottoso, noncurante della morte, per una profonda coscienza nazionale e di classe.

   “Fedeltà, coraggio e gente sufficiente forniva – come scrive il Cayro – il fortino di Itri”. Qui Michele Pezza provò  che era un soldato nato, dallo spiccato intuito militare, e che non aveva sprecato il suo tempo come ufficiale subalterno nel reggimento Messapia.

   Intanto il pavido monarca, il 23 dicembre, si era imbarcato, con la famiglia e il tesoro, alla volta di Palermo. A contrastare il nemico, sorgevano i “paesani” e i montanari, non fattisi abbagliare dalle speranze e dalle illusioni. La patria non veniva difesa dai generali e dai ministri, ma dalle plebi rurali, al grido di “Viva Dio! Viva il Re!”, che combattevano “pro aris et focis”.

   Alla base di questo vivissimo attaccamento della popolazione rurale alla fede e alla chiesa tradizionale, che si manifestò, alla fine de Settecento,ad Itri e in Terra di Lavoro, c’era un oscuro sentimento di indipendenza, c’era energia, coraggio, in mezzo al “pecorile invilimento”, a “quell’ universale contagio di pusillanimità degli italiani. Le masse popolari non sono strumento passivo, senza obiettivi propri, per nulla manovrate da “élites” aristocratiche e censitarie.

   Il loro è un movimento spontaneo, autoctono, nobile, nazionale, patriottico., I promotori di questa rivolta possono essere ascritti alla grande insorgenza napolitana e italiana, eredi dello spirito guerriero degli antichi popoli italici, che, per la difesa della propria libertà, affrontavano arditamente l’ira degli eserciti oppressori opponendosi ai conquistatori con la forza delle armi.

   Bisognerebbe scomodare l’ombra di Masaniello rievocando le antiche “Jacqueries” e sventolando le virtù della stirpe italica, non asservita allo straniero.

   La dignità, il patriottismo, era patrimonio comune del popolo, geloso della propria libertà, delle prfoprie forme di vita, delle proprie tradizioni, delle proprie costumanze, per le quali è pronto a lottare, con selvaggia energia, essendo in esso acuto il senso dell’indipendenza, senza compromessi, senza adattamento alle forme straniere.

   Mentre le palle piovevano  da ogni parte, fitte come la grandine, massi ponderosi, divelti dalle rocce, rotolavano, franando dai ciglioni, sulla linea di movimento del nemico, stritolando i francesi  a decine. Molti perirono in questa gola, sparsa delle loro ossa biancheggianti fra le lunghe erbe, dopo essere state spogliate dai lupi e dagli avvoltoi.

  Ogni albero, ogni roccia, ogni arbusto occultava un vecchio  fucile a scaglia, a polvere, uno schioppo ed un occhio esperto, la cui mira era sicura e mortale. Nei luoghi più riposti, dove tutto pareva tranquillo e dove l’agreste solitudine e il dolce silenzio della natura non era rotto che da qualche mormorante ruscelletto o dal rombo di un’ala o dalle gaie canzoni francesi, una grandine improvvisa di palle  veniva giù, fitta tra i rami, seminando la morte tra gli inconsapevoli soldati. Le rocce all’intorno rintronavano, al fuoco vivissimo di moschetteria contro i tiratori francesi, i quali, nascosti dietro rialti, formanti delle irregolarità del territorio, rispondevano con non minore energia.

 Da una collnetta Michele osservava, con il suo sguardo analizzatore, il nemico, manovrando e coordinando abili imboscate.

   Dombrowski, dopo alcuni giorni di inutili tentativi, che gli costarono la perdita di molti uomini, caduti in piccoli scontri, in ripetute imboscate e in fulminei assalti, stabilì, il 29 dicembre, un piano decisivo: attaccare  e cingere il posto, di concerto, per sopraffare gli indomiti difensori. Il generale polacco ingiunse al capitano Sznayder di occupare, con quattro compagnie del 3°battaglione, il posto di Sperlonga, a destra, marciando sul crinale di Monte Marano, per accorrere, all’occorrenza, dietro le batterie; al capitano Ilinski di penetrare, con due compagnie del 1° battaglione, a sinistra, marciando sui crinali di Monte Ruazzo e Mont’Orso, per piombare sul fianco sinistro, dietro al nemico, ed al capitano Laskowski di spingersi innanzi, tra Itri e Sperlonga, per caricare frontalmente gli oppositori.

   La Legione Corsa, la Legione Polacca e i dragoni di Francia avrebbero dovuto trovarsi contemporaneamente sul luogo stabilito e, da tre punti diversi, precipitarsi sui difensori del fortino. Il piano di accerchiamento predisposto riuscì. Dopo un”gran fuoco fatto”, il 29 dicembre esso restò nelle mani dei nemici con tutta la batteria ed anche il vicino posto di Itri, difeso da quattro battaglioni e da sei pezzi di artiglieria, fu abbandonato.

   Il Sicardi si a rrese senza combattere e per il Pezza  si trattò di  tradimento, cosa credibile, perché il capitano borbonico  passò successivamente al servizio della Repubblica Partenopea.

   “Sabato 29 dicembre, di notte, iniziò – come scrive il Pachonski – un grande movimento a Fondi. Alle ore 3 si mosse la colonna principale, guidata da un montanaro locale. La colonna era composta fa quindici compagnie polacche e da 50 fucilieri a cavallo. A capo vi era Rey in persona. Si doveva aggirare  il “fortino di Sant’Andrea”, attraverso una strada di montagna e sorprendere Itri che non si sarebbe mai aspettata una tale sorpresa.

   Dopo aver scacciato il nemico dal paese, dovevano lì restare due compagnie mentre altre otto dovevano occupare il fortino, liberando la strada principale per Itri. Con le restanti cinque compagnie, una doveva sorvegliare i sentieri di montagna e le altre quattro dovevano arrivare a Gaeta e bloccare la fortezza dalla terraferma, collaborando con le quattro compagnie del capitano Sznayder, il quale doveva occupare Sperlonga.

   Due ore più tardi, alle 5, si mossero le altre quattro compagnie. Due di queste, sotto il comando del cap, Laskowski, ebbero l’ordine  di portarsi sulla destra della Via Appia e di “ripulire” la zona dei fucilieri napoletani e di occupare le alture che dominavano il fortino.  

Le rimanenti  due compagnie del primo battaglione, al comando del cap. Ilinski, con due cannoni, un mortaio e 50 fucilieri a cavallo, dovevano prendere posizione sulla  strada principale, dalla parte di Fondi. Subito dopo il cap. Ilinski ordinò al ten. Linkiewicz di portarsi con metà compagnia sulla sinistra della strada e di occupare le alture a sinistra del fortino, poiché ci si aspettava un nutrito fuoco  dell’artiglieria napoletana.

   I generaleDombrowski e Kniaziewicz osservavano l’andamento delle operazioni nelle vicinanze del reparto di Ilinski. A Fondi restarono l’intera cavalleria leggera ed alcune compagnie polacche .

   L’attacco generale  al fortino doveva essere veloce, come rapida doveva essere la colonna principale a prendere Itri, in modo da prendere alle spalle i napoletani. Tutto doveva iniziare alle prime ombre della sera. Infatti alle ore 17 i reparti di Laskowski, di Ilinki e di Linkiewicz avevano già occupato importanti posizioni ed aspettavano il segnale dell’attacco.

   Dombrowski e Kniaziewicz, con l’aiuto di canocchiali, osservarono un gran movimento nel fortino. Sembrava che i Napoletani avessero intuito  le intenzioni dei  Polacchi e preparassero un contrattacco.  Per meglio chiarire la situazione, lo stesso cap. Ilinski si mosse con una pattuglia di quaranta soldati, verso un fianco del fortino. Dietro di lui andarono Laskowski e Linkiewicz.

   Ma i Napoletani non avevano molto spirito combattivo, anche perché essi consideravano già persa la battaglia. Comunque si sentivano al sicuro nel fortino ed opponevano ai repubblicani una buona resistenza.

   Sorpresi di vedere i Polacchi sulle alture, i Napoletani si convinsero che le pattuglie nemiche avvicinatesi fossero il preludio di un attacco generale e non avevano nessun desiderio di vedere le baionette polacche. I Napoletani cominciarono ad aver paura, sebbene nessuna pattuglia polacca fosse ancora in grado di avvicinarsi molto e tanto  meno di minacciare il fortino. Ma i Polacchi lo presero con un attacco frontale, senza sparare un colpo.

   E così il tortino, che sembrava imprendibile, cadde senza battaglia per la paura degli occupanti, che fuggirono verso Itri. I legionari si impossessarono di cinque cannoni calibro 36, con le munizioni, e di altrettanti, sistemati dietro una curva della strada (un attendamento era nei pressi di Campodentro). Immediatamente il generale Dombrowski inviò il suo aiutante Tremo a rapporto del gen. Rey.

   Dobbiamo far notare che le truppe francesi ebbero come guida, mercé la somma di 5 marenghi, ovvero 100 franchi, un contadino che abitava nella  Piana di Fondi, il quale indicò ad un ufficiale francese, che parlava bene l’italiano, un’altra strada per la quale parte dell’esercito giunse ad Itri, passando per S, Raffaele, Scerpena, Porcignano, S, Marco, per poi prendere alle spalle i difensori del fortino.

   “Fra’ Diavolo”, vrdendo, da una collina adiacente, che, sotto di lui, la gola era coperta da un nemico preponderante (3.000 uomini ben armati), capì che ormai era finita, nonostante i prodigi di eroismo e di sagacia  dei “paesani”.

   Al cadere della notte, il Pezza dovette ordinare l’abbandono delle sue posizioni, a prima vista inespugnabili, facendo esplodere i suoi cannoni e fuggendo proprio a tempo per evitare il completo accerchiamento degli insorti, presi tra quattro fuochi.

  I seguaci del capomassa, dopo aver fatto vivissimo fuoco, per molto tempo, si dispersero, per difendersi, ognuno dalle proprie contrade.

   Il bilancio complessivo dei morti francesi fu, però, pesante. Secondo Francesco De Angelis, “Storia del Regno di Napoli sotto la dinastia borbonica”, Napoli, De Simone, 1817, vol. III, l’esercito franco- polacco  perse alcune centinaia di uomini e soprattutto il generale Grigny, che marciava alla testa del suo battaglione. Fu ucciso dallo stesso “Fra’Diavolo”? Altri lo danno morto all’assedio di Gaeta, nel febbraio del 1806.

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   Foto 1- Luigi Rossini,acquaforte tratta dal volume “Viaggio pittoresco da Roma a Napoli”, edito nel 1839.

   Foto 2- Ritratto di Giulia Gonzaga, attribuito al Parmigianino, conservato a Francoforte sul Meno, presso la Galleria d’Arte Stadel.

   Foto 3 –Jacopo da Pontormo: Ippolito de’ Medici. Il ritratto, raffigurante il vicecancelliere della Chiesa,è conservato nella Galleria Pitti di Firenze.

   Foto 4 e 5 – Il fortino di Sant’Andrea, in territorio itrano.

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