Bilancio dei moti del 1820-1821 a Napoli e Torino
Lo storico Luigi Salvatorelli (Marsciano 1886 – Roma 1974) presenta riflessioni e bilanci dei moti del 1820-1821 nella penisola italiana costruendo un parallelo tra i fatti di Napoli e quelli di Torino. I passi sono estrapolati da “Pensiero e azione del Risorgimento”, Torino 1962. Le riflessioni di Salvatorelli seguono quelle già pubblicate di Walter Maturi.
[…] i moti del 1820-21 ebbero un certo carattere di casta, non senza infiltrazione di interessi particolaristici, e una base sociale ristretta: non solo il popolo non prese vera parte al movimento, ma neanche le classi medie; furono in sostanza ufficiali e nobili a insorgere. La carboneria era penetrata nell’esercito, ma non aveva rinnovato la coscienza del paese: la setta entrò in azione, il popolo rimase in disparte; e i pronunciamenti ebbero un certo carattere di imposizione al paese. Anche entro quella ristretta zona si notano incertezze, contrasti, incompiutezza di idee.
A Napoli la dinastia accettò la rivoluzione e poi tradì, iniziando la politica dello spergiuro. A Torino la dinastia non accettò l’innalzamento offertole, prima ancora che per la considerazione del rischio, perché legata alle concezioni dell’ “ancien régime”: essa attendeva l’ingrandimento da conquiste, da trattati, dal diritto tradizionale, non da una volontà nazionale-rivoluzionaria. Coloro che avevano chiesto la Lombardia allo zar Alessandro non intendevano riceverla da Santarosa e Confalonieri; per conservare l’assolutismo del diritto divino preferivano lo statu quo territoriale con la rinuncia all’ingrandimento, e fecero appello alle armi austriache contro i loro devoti, desiderosi della loro grandezza. La monarchia sabauda era ancora, non solo estranea, ma ostile al Risorgimento. Vittorio Emanuele I e Carlo Felice furono logici e onesti ambedue, pur con tono di umanità assai diverso, e procedettero senza esitazioni; non così il giovanissimo Carlo Alberto, pencolante fra il diritto vecchio e il nuovo.
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