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CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (VIII)

Posted by on Feb 14, 2023

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (VIII)

Sveglio e assemblea[1] 

Il sole non si è ancora levato che squilla lo sveglio suonato dai trombetti delle compagnie. Francesco si è appena addormentato, dopo una notte d’insonnia, così, per svegliarsi, dev’essere strattonato dal caporale. Soffre di mal di testa ed è confuso il giovane casalese ed esce per andare a lavarsi la faccia nell’abbeveratoio lì fuori. L’acqua è limpida e fresca e lo scuote dal sonno.

Si asciuga e, lentamente, inizia ad indossare i capi dell’uniforme, guardando Rucchitto già vestito che si sta pettinando. Prima i pantaloni bianchi, poi la camicia, la giacca di tela bigia, le uose e gli stivaletti. Allaccia le bandoliere di cuoio che reggono la giberna e il fodero della baionetta. Poi mette a tracolla il tascapane e il fiasco in vetro ricoperto da cuoio. Infine, pettinatosi, poggia sul capo il bonnetto. Ora deve fare la cosa più importante: appendere lo scartellato rosso alla camicia e infilare nel taschino, vicino al cuore, le immaginette sacre che lo salveranno dalle pallottole.

Il generale Landi, pensieroso, guarda fuori attraverso i vetri del balcone del palazzo Zuaro in cui è alloggiato. Le linee di comunicazione per Palermo sono interrotte dagli insorti, il telegrafo è spezzato e non giungono più ordini dal comando. Cosa fare? Le forze degli insorti crescono sia a Salemi sia sulle montagne circostanti e la sua colonna rischia di rimanere intrappolata a Calatafimi, dove i viveri sono insufficienti per tremila uomini. Attaccare verso Salemi o attendere il nemico nell’ottima posizione di Calatafimi? Landi ha deciso. Ha ricevuto notizie da un carrettiere proveniente da Salemi, il quale ha confessato che stanotte i piemontesi e le squadre sono usciti in colonna verso Calatafimi, schierandosi sulle colline circostanti. Landi, dunque, ha preso la decisione di mantenere la posizione e di eseguire una perlustrazione per scoprire il nemico.

Il sergente trombetta suona l’assemblea per l’8° cacciatori. Gli uomini si adunano nella Piazza Maggiore, dove si affaccia il palazzo Zuaro. Essi sono armati ed equipaggiati di tutto punto, pronti ad entrare in azione. Oggi si combatte e forse si muore, questo è il pensiero della maggior parte di quegli uomini in uniforme. Il maggiore Sforza ordina l’attenti, poi, autorizzato dal generale, il riposo. Landi spiega ai suoi uomini che da Salemi stanno arrivando dei briganti e dei galeotti guidati da un tristo di nome Garibaldi, che sfrutta l’omonimia col condottiero piemontese per razziare la popolazione.  Tocca a loro, ai soldati del Re, distruggere quella banda. Il rancio sarà alle 9, poi si uscirà in formazione di battaglia.[2]

Figura 51 – Banderuola del 10° reggimento di linea borbonico (tratto dal saggio L’Esercito Borbonico dal 1830 al 1861 di Boeri G. – Crociani P. – Fiorentino M., aut. prot. n.5894 del 23-12-2011, SME Ufficio Storico).

Landi ha riunito i suoi ufficiali, spiegando che sarà effettuata una perlustrazione con tre colonne: una verso est, una verso sud e una verso ovest. La più forte sarà quella diretta a ovest, verso Vita, dove è probabile che sia riunito il grosso del nemico. Sarà formata da sei compagnie dell’8° cacciatori, una squadra di cacciatori a cavallo, una sezione d’artiglieria con due cannoni e i compagni d’armi di Alcamo. La comanderà il maggiore Sforza. Una compagnia di carabinieri e una del 10° di linea al comando del capitano Gaetano De Blasi perlustreranno le campagne a sud. Due compagnie di carabinieri e una squadra di cacciatori a cavallo al comando del capitano Luigi Marciano andranno verso est, per verificare le linee con Alcamo. Lo scopo non è solo quello di scoprire le forze nemiche, ma anche di imporsi moralmente sulle masse, mostrando la truppa in armi. Gli ordini sono di non impegnarsi in scontri, ma di verificare la consistenza del nemico e di rientrare.

Landi, comunque, capisce che oggi ci potrebbero essere scontri e ha incaricato ‘u vanniaturi[3] di annunciare il divieto di circolazione per le pubbliche vie e l’uscita dal paese. ‘U zi Nanni ‘u sciancatu percorre le vie bagnate e sdrucciolose, trascinando il piede sinistro, e si ferma ad ogni cantunera[4], percuote il tamburo, prende fiato, prova la voce, mette una mano sulla mascidda[5] con la testa rivolta al cielo,poi urla:

«Sintiti, sintiti! Urdini di lu generali Landi: non si po…».

Le sue parole urlate sembrano perdersi nelle vie deserte, ma dietro le imposte ci sono orecchie impaurite che ascoltano.

La ricognizione 

Garibaldi manda avanti Francesco Nullo[6] e tre siciliani a cavallo, per esplorare il villaggio, seguiti da metà dell’8a compagnia. Nel frattempo, Sant’Anna porta dal generale alcuni contadini della zona, dai quali si viene a sapere che ier sera sono giunti a Calatafimi rinforzi borbonici da Castellammare. Ma quanti sono? Nullo è rientrato, comunicando che Vita è sgombra dal nemico. Tutta la colonna vi penetra, percorrendo la via centrale, con case rustiche e menze case[7]a destra e a sinistra. Nella chiesa di San Francesco, da utilizzare come ospedale, si sistema il servizio sanitario. La popolazione, sentendo puzza di guerra, va via verso i monti, portando seco le masserizie e altre povere cose. Si sentono i loro lamenti che si affievoliscono man mano che si allontanano. Alla colonna garibaldina si unisce una ventina di giovani ardimentosi vitesi, che sono aggregati alla squadra di Calatafimi comandata da Pietro Adamo.

Figura 52 – Calatafimi: i colli Pietralunga e Pianto Romano.

La colonna esce dal villaggio e fa sosta per sfamarsi, sgranocchiando pane e fave crude. Il generale va avanti a esplorare il terreno, insieme ai pochi ufficiali a cavallo e a una decina di siciliani. Seguono a piedi le guide e i carabinieri genovesi. Giò, con la carabina in spalla e mordendo la sua pagnotta, marcia osservando quel territorio verde di vigne e di frutteti, illuminato da un sole che si è fatto caldo, quasi come quello estivo della Lombardia. La strada, incassata tra i poggi, si allarga sopra un’altura che domina la valle sotto Calatafimi. La truppa resta lì in attesa, mentre il generale, insieme agli altri cavalieri, guidato dal calatafimese Pietro Adamo, gira a destra e sale su un monte pietroso, ricoperto di fichi d’India e olivi. Il segretario Basso passa un lunghissimo cannocchiale al generale, il quale osserva interessato l’angusta valle, circondata da poggi, oltre i quali si nota il monte sul quale si erge la rocca di Calatafimi. Del nemico non v’è traccia, quindi Garibaldi incarica la sua ordinanza Bandi di perlustrare la via consolare verso Calatafimi per cercare di scoprire il nemico, evitando di impegnarsi in uno scontro. Bandi porta con sé dodici bergamaschi a cavallo, mentre il generale interroga i siciliani per farsi un’idea del territorio, delle strade e dei luoghi dove schierare la truppa. Riflette pensoso guardando l’impervio poggio di fronte che costituisce una fortissima posizione militare. Poi estrae dal taschino la cipolla: sono quasi le dieci.

Due compagnie dell’8° cacciatori sono rimaste a guardia della Casa Santa dei Gesuiti e del Colle Tre Croci. Le altre sei compagnie sono schierate in Piazza Maggiore, in attesa dell’ordine di marcia. Francesco scruta i suoi camerati, cercando di scoprire nei loro occhi quella paura che stamane gli fa battere forte il cuore e gli fa sudare le mani. Guarda il suo amico Rucchitto, dal volto sereno come se stesse pensando alla sua mozzarella. Guarda il caporale Curcio, sempre sorridente, che ha detto di voler uscire da quella campagna militare col grado di uffiziale. Guarda il sergente Certosini che pare non veda l’ora di gettarsi dentro la battaglia. Guarda il camorrista Gennaro Tagliafierro, più volte punito con pene corporali, che sembra impaziente di ficcar la baionetta dentro la pancia di qualcuno. Guarda i feroci calabresi Francesco Serratore, Saverio Caruso e Vincenzo Convinto, che formano una pericolosa cerchia. Guarda Cap’e Vacca, cioè il becchino Carmine Fusco, ma la sua espressione non rivela nulla e pare averci preso gusto nell’uso della carabina. Egli ha chiesto più volte al sergente «quando si comincia?».  Guarda il tenente Di Napoli, sereno veterano, dietro i suoi lunghi baffi e gli occhiali a molletta. Che fosse il solo Francesco ad aver paura? Francesco ripete nella sua mente cosa impone ai soldati l’Ordinanza di Sua Maestà pel Governo, il Servizio e la Disciplina delle Reali Truppe nelle Piazze:

Amore a Dio ed a Noi, ubbidienza inalterabile alle Nostre leggi, condotta morale e dignitosa, subordinazione cieca e rispetto sommo a’ superiori; vigilanza, sveltezza e fermezza nell’adempimento de’ doveri; bravura ed intrepidezza a fronte dell’inimico costituiscono le virtù del soldato.

E così sia.

Il maggiore Sforza urla gli ordini, ripetuti dai comandanti di compagnia, da quelli di plotone e dai sottouffiziali. La colonna di fanteria si muove quando già sono usciti in avanscoperta un drappello di cavalleggeri e i compagni d’armi. Il tamburo è davanti al battaglione e il suo rullare sostiene la marcia. Quel fragore di tamburi, di scarponi e zoccoli ferrati sul selciato fa paura, dà un brivido alla gente nascosta dietro le finestre che guarda dalle fessure quei giovani che vanno alla battaglia. Qualche mamma sussurra:

«Poveri figli!».

La colonna attraversa rumorosa il quartiere del Borgo e fiancheggia le mura saracene, uscendo dal paese verso ponente per poi volgere a sud. Nell’aria c’è profumo di erba bagnata, di zagara e di finocchietto selvatico. Francesco entra nel suo mondo di sogni, guardando la valle del mitico fiume Crimiso[8] che si stende ai piedi del colle, florida e verde di prati e di colture, gli agrumeti intorno al sentiero e i vigneti giù a valle, vicino al maestoso tempio dorico di Segesta, quasi integro con il suo colonnato. Egli vola col pensiero al suo borgo e ai vigneti di contrada Vignai, dove si produce l’uva aglianica, da cui esce il prelibato Falerno. Mentre pensa e quasi assapora quel succo d’uva, fa un passo più lungo del previsto, inciampando sul tallone del camerata innanzi e facendolo cadere. Il plotone si blocca e il sergente Certosini, tra un’imprecazione e una parolaccia, gli dice che se sul campo di battaglia avrà la testa tra le nuvole non mangerà più di quella frutta … ché gli andrà di traverso il piombo. Francesco, rosso in volto per la vergogna, accarezza ‘o scartellato, cercando di cacciar via la malasorte predetta dal rosso sottouffiziale.

Il maggiore ha chiamato il capitano Palumbo, comunicandogli che la sua compagnia, essendo in testa, deve spiccare una vanguardia formata da un plotone. Palumbo sceglie il 2° plotone del tenente Di Napoli che avanza di cento passi e spinge a sua volta innanzi a sé una punta di sei uomini: il caporale Curcio, i cacciatori Del Pizzo, Masaracchia, Serratore, Ferri e Fiorillo. Essi caricano le carabine, così com’è previsto dall’Ordinanza per le vanguardie e avanzano in mezzo ai campi fioriti di mille colori.

Si passa accanto al mulino, poi si svolta a sinistra, sul colle chiamato Pianto Romano, dove anticamente la famiglia Romano-Colonna aveva dei vigneti, ma dove ora ci sono solo filari di fichi d’India, erbacce e muretti a secco che delimitano le sette terrazze.

Il caporale Curcio mette l’occhio nel cannocchiale, dirigendolo verso Vita e sui monti che coronano la valle, notando una massa di gente in borghese. Chi sono? Insorti? Immigrati? Galeotti? Fuggitivi? Manda indietro una pattuglia per avvisare il tenente di ciò che ha visto. L’8a compagnia di Palumbo avanza, per schierarsi sulla cima del monte.

Il tenente Bandi, inviato da Garibaldi in perlustrazione con dodici uomini, ha percorso la via consolare verso Calatafimi e, fermatosi, osserva col binocolo per scorgere il nemico. Su un’altura davanti alla città vede avanzare un gruppo di uomini vestiti in borghese, ma armati. Chi sono? Insorti che vogliono unirsi a Garibaldi o nemici?  È un carrettiere che trasporta grano a chiarire la faccenda: quegli uomini sono i compagni d’armi[9], birri di campagna, malagente serva del Borbone. Sono venuti a scoprire il terreno per poi lasciare il campo alla fanteria. Subito il carrettiere, frustando il suo cavallo e incitandolo con un urlo, corre via. Sta arrivando al trotto dalla via consolare un drappello di cavalleggeri: indossano la giubba bigia, i pantaloni bianchi, un berretto scuro a tubo, tipo fez, con un fiocco di lana gialla cadente. Al fianco hanno una sciabla semicurva e sulle spalle un fucile a percussione da 38 pollici. Sono i cacciatori a cavallo, un corpo di cavalleria leggera costituita da Ferdinando II nel 1848.[10]

Bandi decide che è l’ora di rientrare e avvisare il generale sulle nuove.


[1] L’Ordinanza Reale dell’Esercito Borbonico usava “Sveglio” per sveglia e “Assemblea” per adunata.

[2] Questo particolare fu narrato da Giuseppe Bandi nel suo romanzo I Mille: da Genova a Capua, Garzanti, Milano 1977.

[3] Il banditore, era un incaricato dell’autorità che annunciava un bando, un ordine o un avviso per le vie del paese.

[4] Cantonata, cioè angolo formato dai muri di una casa fra una strada e un’altra.

[5] Mascella.

[6] Francesco Nullo nacque a Bergamo nel 1826. Partecipò alle guerre del ’48 e del ’59. Durante la spedizione dei Mille era inizialmente sergente delle guide, poi fu promosso capitano e terminò la campagna col grado di tenente colonnello. Partecipò alla spedizione su Roma fermata in Aspromonte nel 1862. Morì nel 1863 in Polonia, combattendo per la libertà di quel Paese contro la Russia.

[7] Catapecchie di pochi metri quadri, privi di pavimenti, abitate dai braccianti.

[8] Secondo la leggenda, quando il re troiano Laomedonte si rifiutò di pagare Apollo e Poseidone, poiché avevano costruito le mura di Troia, gli dei scagliarono sciagure contro il suo paese: Poseidone lo devastò con un mostro marino e Apollo con un’epidemia; quest’ultimo, interrogato, rivelò il rimedio contro il mostro di Poseidone. Egli disse che occorreva dare in pasto all’animale giovani nobili del paese. Così numerosi Troiani mandarono i loro figli all’estero, e come tanti, Egesta venne affidata dal padre Ippote ad alcuni mercanti che la portarono in Sicilia. Qui Crimiso, un dio-fiume, la sposò e generò con lei Egeste, il fondatore della città di Segesta.

[9] In Sicilia esisteva un corpo di polizia specifico, le Compagnie d’Armi, residuo delle guardie feudali agli ordini dei baroni. Erano 24 compagnie, una ogni distretto, e operavano a cavallo nelle campagne (per cui erano detti dal popolo birri di campagna) per la prevenzione e la repressione degli abigeati e nel servizio di vigilanza nelle strade rurali.

[10] I cacciatori a cavallo avevano il compito di agire su tutti i tipi di terreno ed erano armati con fucili a lunga gittata in modo da potersi opporre alla fanteria.

Domenico Anfora

tratto da

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