CARLO VII E IL REGNO INSPERATO (seconda parte)
Re di Napoli e Re di Sicilia (poi Re delle Due Sicilie), Re di Gerusalemme, Infante di Spagna, Gran Principe ereditario di Toscana, Duca di Castro, Duca di Parma e di Piacenza, Principe ereditario d’Austria, di Portogallo eccetera eccetera: questi i titoli che avevano Carlo di Borbone e tutti i suoi successori fino a «Franceschiello». Discendenti dalla più antica dinastia vivente di re cristiani, i Capetingi, erano imparentati, in pratica, con tutti i re, i principi e gli imperatori d’Europa ed anche d’America (i Braganza del Brasile, gli Asburgo del Messico). Nella loro albero genealogico c’erano santi, papi, cardinali, arcivescovi e vescovi a profusione.
Ancora oggi, nessuno dei discendenti, benché praticamente ridotti a vita modesta, s’è preso per moglie una ricca borghese né si è fatto sorprendere cuore a cuore in una discoteca con un’attricetta volgare e scollacciata. Ora, ciascuno, sulla nobiltà può avere le idee che vuole ma perbacco! avrà pure un significato «natura plebea»?
La Reggia di Caserta, appunto. Carlo, che aveva commis¬sionato ad un altro famoso architetto pontificio, il Vanvitelli, la reggia che, per esser quella del regno più bello del mondo, nel mondo, per bellezza e maestà, non doveva avere uguali, vi stampò per sempre la sua grandezza.
Anche questa volta (giova ripeterlo) senza spillare un solo quattrino all’erario
V’è qualcosa nell’opera dell’uomo che ne coglie, senza intermediari, la grandezza. Come il Creatore si svela anche al bruto dalla magnificenza del creato ed è scritto che sono inescusabili coloro che, pur vedendo le sue opere non lodano la sua gloria perdendosi in ragionamenti ottusi (come dice San Paolo ai Romani), così, per riflesso e per analogia, la bellezza dell’arte svela a chiunque quanta nobile impronta ci fosse in chi ne rese possibile l’espressione.
Beh, la reggia di Caserta è lì, anche se il nuovo regno la vol¬le sfregiare tagliandogli il prospetto con un bel fascio di binari e tanto di stazione ferroviaria. Chiunque non sia ottuso può vederla e farsi un’idea.
È inutile spendere parole per quella gemma che, come il dono di uno sposo, Carlo di Borbone, depose nel grembo del Sud dell’Italia proclamandola Regina e consacrandola a lui e ai suoi discendenti. Riconfermando il patto concluso sei secoli prima, la notte di Natale, da Re Ruggero del quale, pure, il sangue, per via di tanti principi, re e regine, scorreva ancora nelle vene dei Borbone.
La grandezza di un re si misurava allora (ma si misurerà sempre) dalla fedeltà con cui sapevano mantenere e tramandare quel patto che i loro antenati avevano stipulato con Dio e con il popolo che gli era stato affidato: altro che la «mediocrità» stabilita dagli storici sul metro delle «felici sorti e progressive», che felici non furon mai e il cui progresso si perde in una notte sempre più lunga e tenebrosa.
Carlo fu uno di quei grandi re di quella Cristianità che ormai stava per finire. Napoli e il suo regno generoso parteciparono di quella luce e riuscirono a tenerla accesa, nonostante i venti di bufera, ancora a lungo.
Quando, morto il fratellastro Ferdinando VI senza prole, Carlo, nel 1759, dovette assumere la corona di Spagna, lasciò al terzogenito Ferdinando, che aveva otto anni, l’eredità delle due corone di Napoli e di Sicilia.
La capitale abbellita, arricchita, grande ormai quasi come Parigi e Londra, il regno prospero, le finanze in attivo, uomini geniali e preparati, pronti a continuare ciò che lui non aveva potuto portare a termine, un popolo che, se mai era restato fermo, ora camminava verso il futuro con rinnovata energia.
Dicono i cronisti che salendo sulla nave che l’avrebbe portato in Spagna, mentre salutava per l’ultima volta la sua Napoli, si tolse dal dito un anellino. «Fa parte del Tesoro di Stato» disse dandolo al figlio perché fosse restituito.
Roba che ormai non ci si crede più.
fonte
la storia che non si racconta