CASTELLINO DEL BIFERNO E L’UNITA’ D’ITALIA
La fine del Regno delle Due Sicilie avvenne rapidamente tra il maggio (11 maggio 1860 sbarco dei Mille di Giuseppe Garibaldi a Marsala) e l’ottobre 1860 (1 e 2 ottobre 1860 battaglia del Volturno – 22 ottobre 1860 arrivo di Vittorio Emanuele II ad Isernia). Il 7 settembre Garibaldi entrò a Napoli, l’11 dello stesso mese iniziò l’invasione piemontese di Umbria e Marche, il 20 ottobre le truppe del generale Enrico Cialdini sconfisse i regolari borbonici e bande popolari al passo del Macerone, presso Isernia, il 2 novembre si arrese Capua ed incominciò l’assedio di Gaeta, che si protrasse fino al 13 febbraio 1861.
L’11 luglio 1860 per garantire la pubblica tranquillità, dopo alcuni disordini scoppiati a Frosolone, Vinchiaturo, Mirabello e Castellino, l’Intendente di Molise affida il comando delle Guardie Cittadine a persone influenti e capaci, in attesa della formazione della forza nazionale.
L’Intendente don Domenico Trotta, il 27 luglio 1860, venne chiamato a dirigere l’amministrazione della provincia di Molise. L’8 settembre 1860 Garibaldi nominò Nicola De Luca governatore della provincia di Molise con poteri illimitati. Il 10 settembre 1860 l’Intendente Trotta comunicò a tutti i sindaci e comandanti della Guardia Nazionale del Molise che il Governo dittatoriale intendeva confermare le cariche di tutte le autorità periferiche e le invitava a svolgere le proprie funzioni “con zelo ed alacrità”, senza muoversi dalle rispettive sedi.
Gli atti del 1860 dei notai dei comuni limitrofi a Castellino, conservati presso l’Archivio di Stato di Campobasso, riportano i seguenti cambiamenti d’intestazione: quelli di Abramo Ricciuti di Lupara iniziano con “Francesco II” fino al 6 settembre e con “Vittorio Emanuele II” dal 22 ottobre, quelli di Pasquale Cinelli di Morrone riportano la dicitura Regno delle 2 Sicilie fino al 4 settembre e Regno d’Italia dal 20 settembre, quelli di Raffaele Palmera di Petrella riportano impresso il timbro “Palmera – Francesco 2°” e la dicitura “regnando Francesco 2°” fino al 7 settembre, un atto del 23 settembre (attinente Giuseppe Lombardi di Castellino) porta impresso il precedente timbro, ma è impossibile leggerne la dicitura, perché è stato strisciato sul documento, quasi certamente con l’intenzione di non rendere leggibile la scritta “Francesco 2°”, mente quelli dal 24 settembre sono senza timbro.
Il 14 settembre 1860 il decurionato di Petrella deliberò di prelevare dalla cassa comunale la somma di 36 ducati per solennizzare la cerimonia della benedizione della bandiera tricolore con lo stemma sabaudo. Il 2 ottobre 1860 il sindaco di Montagano, Domenico Ianigro, informò quello di Petrella e forse gli altri del mandamento, tra cui Castellino, dell’ingresso di Vittorio Emanuele II ad Ancona e della vittoria di Garibaldi al Volturno.
Il 2 ottobre 1860 il Governatore di Campobasso telegrafò a Garibaldi informandolo che nella notte dei reazionari borbonici, chiamati dal vescovo, avevano occupato Isernia commettendovi crudeltà..
Quando nel 1860 i soldati di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II passarono per il Molise, attuando quella che fu chiamata Unità d’Italia, trovarono nella popolazione locale una certa resistenza.
Il “liberatore dal giogo borbonico” era da taluni considerato come un invasore barbaro, scomunicato dal papa. I Garibaldini non trovarono quella festosa accoglienza che fu loro tributata in Sicilia, parte della popolazione li accolse con le ronche alzate. Ad Isernia ed in altri luoghi del Molise i Garibaldini ed i soldati di Vittorio Emanuele II furono ripetutamente attaccati da soldati borbonici e dalla popolazione.
Per parte della popolazione Garibaldi era venuto nel meridione d’Italia non per migliorare lo stato in cui versava, ma per seminare discordia e miseria. Come poteva tirare avanti una famiglia se veniva privata del figlio ventenne che lavorava dalla mattina alla sera i campi ?
Non pochi furono quelli che vennero arruolati nelle file dei Garibaldini e volenti o nolenti seguirono queste truppe nelle vicende che portarono all’Unità d’Italia.
I Castellinesi che, in quella occasione, furono chiamati nelle file delle camice rosse reputiamo che non fossero più di una quindicina. Quelli che poterono vivere a lungo ottennero, dopo anni, che non furono davvero pochi, un sussidio con il quale tirarono avanti la vecchiaia. Tra questi a Castellino vi furono: Giovanni Di Leo, Cirriaco Di Leo, Giuseppe Fratangelo (Ze Freudenzio) e Giuseppe De Lisio (Mastrillo).
Quando i soldati garibaldini passarono per Castellino la popolazione locale portò in corteo (processione) per tutto il paese il ritratto di Vittorio Emanuele II e la bandiera tricolore con lo stemma sabaudo. Non tutta la popolazione la pensava, però, allo stesso modo. V’era anche chi, leale ai Borboni, non intendeva piegarsi al conquistatore sabaudo, e questi non erano pochi.
Da ciò che i vecchi castellinesi sentirono narrare dai loro nonni, quelli che a Castellino, più di tutti, portavano in alto la causa borbonica erano Pietrangelo Fratangelo e Giovanni Totaro.
Pietrangelo Fratangelo non ne voleva sapere di unirsi agli altri cittadini per festeggiare l’avvenimento. Continuava a lavorare nella sua bottega di calzolaio alla sommità di via Torrione, dove c’è un piccolo pianoro, fedele in tutto alle vecchie istituzioni borboniche. Vari amici lo avevano invitato a scendere nel Piano detta Terra ed unirsi alla folla nel grido di “Viva Vittorio”, ma a costoro rispondeva “Viva il Borbone”. I familiari di Pietrangelo, ed in particolare la nuora Saveria, erano spaventati per le conseguenze alle quali pensavano Pietrangelo stesse andando incontro, ma anche loro non erano riusciti a far recedere il parente dalla manifestazione di attaccamento al vecchio regime. Saveria, temendo il peggio, poiché la folla minacciava i fedeli dello sconfitto re borbonico, di nascosto dal suocero, che sicuramente non l’avrebbe approvata, fatta con tre nastri una coccarda tricolore la mise di soppiatto sull’architrave della bottega da calzolaio di Pietrangelo. La folla, allorquando passò minacciosa davanti al luogo di lavoro di Pietrangelo, con l’intendo forse di bastonarlo a dovere, ben conoscendo le sue idee, notò la coccarda tricolore e credendo in un ripensamento di Pietrangelo, mutò i propositi nei confronti del calzolaio, che, invece di essere bastonato, fu preso e portato quasi in trionfo per il paese. Pietrangelo, ignaro dell’azione della nuora, vistosi così trattato, si decise a gridare “Viva Vittorio”.
Non sappiamo quanto credere a questa versione dei fatti, ma presso l’Archivio di Stato di Campobasso vi sono dei riscontri.
Anche Giovanni Totaro (le cui vicende vennero raccontate dell’ex guardia municipale Pasquale De Lisio) era attaccato al vecchio regime borbonico e fu costretto a passare da un
tetto all’altro delle case del paese per sfuggire all’ira della folla che lo voleva bastonare. Dai tetti passò a nascondersi nel mulino Ferrielli, che si trovava vicino al bosco, dove, oltre a ritenere di essere in un posto più sicuro, era lontano dal paese e da occhi indiscreti, ma a volte proprio i posti che sembrano i più sicuri si trasformano in quelli che lo sono meno. I gendarmi, che avevano saputo del nascondiglio di Totaro, cercavano di sorprenderlo, ma sempre invano. Giovanni scappava e, rifugiandosi nel vicino bosco, gridava alle intimazioni dei gendarmi “Viva il Borbone”. Scappa oggi, scappa domani, venne un giorno in cui i gendarmi si fecero più furbi e prima di recarsi a vedere se Totaro si trovasse nel mulino, bloccarono la strada che conduceva al bosco. Giovanni si vide chiusa la strada della fuga e cercò un nascondiglio all’interno del mulino (ad acqua), tra le pale della ruota. I gendarmi però nel frugare nel mulino lo scovarono e lo invitarono a togliersi da dove si era nascosto ed a gridare “Viva Vittorio”. Al grido di “Viva il Borbone” da parte di Totaro giù botte a non finire sul povero malcapitato, fino a quando questi non ne potette più e, per il troppo dolore, tra le lacrime, si decise a gridare “Viva Vittorio”.
Secondo la testimonianza resa dal proprietario Luigi Silvestri al giudice del Circondario di Montagano il 17 novembre 1860, per istigazione di Francesco Palombo le Guardie Nazionali di Castellino il 1° ottobre non portavano più la coccarda tricolore e nella cancelleria del comune erano stati di nuovo esposti i quadri di Ferdinando II e di Maria Sofia. Don Francesco Palombo, figlio di don Nazario Enrico Palombo e di donna Mariangela Minicucci, nato il 09/01/1808, cancelliere comunale, secondo le accuse mossegli il 5 novembre 1860 era responsabile di “Discorso e fatto pubblico tendente a spargere il malcontento contro il Governo” tenuti nell’agosto del 1860. Era stato arrestato da due Guardie Nazionali e rinchiuso in carcere, “fu messo in libertà dietro deliberazione della Gran Corte Criminale de venti novembre 1860”. Insieme a lui furono accusati Pietrangelo Fratangelo, figlio di mastro Marino ed Angelica Parisi, nato il 25/11/1800, sarto e Filippo Di Fabio, contadino, di anni 60.
Il 5 novembre 1860 il Giudice De Muzio del circondario di Montagano scrisse al sig. Procuratore Generale presso la Gran Corte Criminale di Campobasso rappresentando che “Il comandante della guardia nazionale di Castellino con suo uffizio di diciotto agosto ultimo, rimostrava al Signor Intendente della Provincia, che il servizio della guardia nazionale non era in regola. Parecchi individui se ne sottraevano, perché si sussurrava nel paese, che la costituzione era quasi finita, e quindi ne sarebbe venuto male alle Guardie Nazionali. Dalle indagini di polizia si acclarava, che il cancelliere comunale D. Francesco Palumbo, ex capo urbano, Pietrangelo Fratangelo, ex sotto capo urbano, non che il servente comunale Filippo di Fabio insinuavano alle Guardie nazionali di non prestare servizio, mentre la Costituzione non durava che altri pochi giorni, e la coccarda rossa doveva servire di bel nuovo. E si liquidava pure che il Palumbo soggiungeva, che la Costituzione sarebbe caduta, come quella del 1848, ed egli allora ritornando al potere avrebbe straziato, e minato tutti quelli, che avevano parteggiato pel Regime Costituzionale.
Queste preliminari indagini, raccolte dal Sindaco di Morrone, il Signor Governatore della Provincia le rimetteva all’autorita Sua, che me le faceva tenere per la corrispondente istruzione”.
Don Francesco Palombo fu arrestato e rinchiuso per un certo periodo in carcere “perché gli si imputava che nel mese di agosto 1860, dissuadeva le guardie nazionali del suo paese a non prestare servizio perché la Costituzione emanata col Decreto dè venticinque giugno andava a finire come era finita quella del 1848, e guai a coloro, che avessero parteggiato per Governo Costituzionale. Che insinuava pure le persone a non
fregiarsi della coccarda tricolore, e ritenere invece la coccarda rossa [quella borbonica]. Che tali ed altri discorsi il Palombo li teneva pure all’ex Capo urbano [vice Capo urbano] Pietrangelo Fratangelo, e col servente comunale Filippo di Fabio. Su tali dati il Governatore della Provincia ne faceva formare amaramente un incartamento dal sindaco di Morrone, e quindi lo spediva al Signor Procuratore Generale, e quest’Autorità lo inviava in questo Giudicato per analoga istruzione con uffizio dè tre novembre 1860”.
I testimoni Giuseppe Quaranta, Pietro Fratangelo, Domenicangelo Fratangelo, Matteo Storto, Basilio Storto, Giovanni Storto, Luigi Storto, Giuseppe Vendittelli, Michele Cappuccilli, Luca Petrucci, Anselmo Vendittelli dichiararono che dopo la pubblicazione della Costituzione, nel giugno 1860 “D. Francesco Palombo ex Capo urbano, Pietrangelo Fratangelo, ex sotto capo urbano, e Filippo di Fabio servente comunale, davano a dividere essere dispiaciuti spesso sfuggire loro di bocca, che non avrebbe avuto durata, e che sarebbe finita come finì la costituzione del 1848, e qualcuno degl’imputati diceva pure alla Guardia Nazionale di non fregiarsi del nastro ricolorato perché avrebbe passato guai. …”. Il 15 novembre 1860 “Gaspare di Nunzio, giudice del Circondario di Montagano”, visti gli atti a carico di don Francesco Palombo, arrestato, e di Pietrangelo Fratangelo e Filippo Di Fabio, decide di recarsi il 16 novembre 1860 a Castellino. Il 19 novembre 1860 don Francesco Palombo, nell’interrogatorio da parte di Vincenzo Foconelli, giudice del Circondario di Campobasso, dichiarò di ignorare il motivo dell’arresto. Dichiarò altresì che verso la metà del mese di ottobre chiese al Governatore di Campobasso un congedo di pochi giorni e, non avendo trovato il Governatore, il 16 sera si recò dal Segretario Generale, ma non glielo poté dare quello stesso giorno per mancanza di vettura, che verso le ore 24, recatosi a passeggiare nel largo della Villa, venne arrestato da 2 Guardie Nazionali e condotto dal Governatore, che ordinò di tradurlo al posto di guardia e che il giorno successivo la Guardia Nazionale lo spedì in carcere dove si trovava. Palombo affermò di essere indifferente per qualunque forma di governo, di non aver dissuaso la Guardia Nazionale. Negò le accuse che gli venivano mosse, anzi affermò che quando giunse la bandiera tricolore “come organista si prestò alle funzioni del Te Deum”. Disse di essere invidiato per la carica che ricopriva da parte delle famiglie De Lisio e Silvestri, che detenevano tutte le cariche civili ed amministrative del comune e di non essere mai stato in carcere in precedenza. “Con Uffizio del Sig. Procuratore Generale dè 23 novembre 1860, n. 2375 nel comunicare a questo Giudicato la deliberazione della Gran Corte Criminale che a venti detto mese di novembre dichiarava compreso il reato addebitato a Palombo nell’indulto Dittatoriale degli undici settembre 1860, ordinava che ogni ulteriore istruzione rimanesse annullata”. Finalmente il 23 gennaio 1861 il giudice, “Visti gli atti a carico di D. Francesco Palombo, Pietrangelo Fratangelo, Filippo di Fabio imputati di disenso tendeva a spargere il malcontento. – Vista la delucidazione di 20 nov.e ult.o la quale pel Decreto Dittatoriale degli 11 settembue ult.o dichiarasi abolita l’azione penale, ed ordina escarcerarsi il Palumbo – E chiude – Anche gli atti med.i si comunicano in Archivio anche nell’interesse degli assenti”.
Per la bibliografia dell’opuscoletto si rimanda a quanto riportato nel libro “Castellino del Biferno tra storia e cronaca, dal 1700 al 1860” di Pietro Fratangelo, anno 2005, dal quale questo scritto è tratto.
per gentile concessione di Enrico Fratangelo
Che tristezza leggere come e’stata ingannata la gente… penso che anche a distanza di tempo non possa perdonare chi l’ha manipolata per propri interessi prendendosi gioco di chi viveva nella buona fede e nella fiducia di chi seppure a distanza era l’autorita’di riferimento!…. Essere stati ingannati, complici chi localmente aveva potere, non e’ ferita che si rimargini… piu’ o meno verrebbe da dire: poveri “Italiani”!!!…turlupinati dai piu’ furbi ed egoisti senza Patria e senza onore… caterina ossi