Cattolicesimo, liberalismo, tolleranza (III parte)
Quanto siamo andati fin qui dicendo ci permette di aprire, per quanto possibile alle nostre deboli e limitate prospettive umane, sovente troppo chiuse in una lettura soltanto immanente, uno scorcio sulla prospettiva trascendente della storia.
Una prospettiva, questa trascendente, che sembra farci intendere che intorno ai Luoghi Santi, alle tre fedi abramitiche, si stia svolgendo un qualche, ancora imperscrutabile, disegno della Provvidenza, se è vero, come
è vero, che tuttora al centro delle contese religiose, tra i «figli, spirituali e carnali, di Abramo», vi è la Città Santa. In particolare, ciò che resta della Spianata del Tempio. Quello che gli ultraortodossi ebrei vorrebbero ricostruire e che sorgeva sulla Pietra del sacrificio di Abramo. Luogo ora invece protetto dalla Cupola della Roccia, la Moschea di Omar, e dalla Moschea di al-Aqsa. Quelle nelle quali, trasformate in chiese, i Templari, forse antichi custodi della Sindone, ossia dell’immagine miracolosa, a noi cristiani lasciata in pegno, da Colui che si è proclamato l’Unico Vero Tempio (Giovanni 2, 18-22) e che ha fondato la Sua Chiesa Universale sulla Roccia di Simon Pietro, accoglievano, in spirito di tolleranza, l’emiro Usama.
Tolleranza o libertà religiosa? Un problema «di» o «della» coscienza
L’excursus storico sopra effettuato dimostra che anche prima di Locke esisteva una forma di tolleranza religiosa, la quale, però, non necessitava né presumeva, come quella liberale, il soggettivismo teologico ma che, perlomeno tra fedeli del ceppo abramitico, consentiva il reciproco riconoscimento di fatto. Un riconoscimento di fatto che, tuttavia, finiva per tradursi anche in un riconoscimento giuridico benché non egualitario, ossia non al modo contrattualista noto alla modernità sia liberale che giacobina.
Quella tolleranza premoderna non impediva affatto che gli uni, a seconda delle circostanze, fossero egemoni politicamente sugli altri ma assicurava comunque, tra alti e bassi, la convivenza tra ebrei, cristiani e mussulmani.
I cristiani e gli ebrei, in terra islamica, erano sottoposti alla legge del dhimmi, ossia assoggettati a pesanti tributi, ed i mussulmani, in terra cristiana, erano discriminati dalle cariche pubbliche e circoscritti nelle loro comunità come gli ebrei nei ghetti. Tuttavia nessuno si arrogava il diritto di negare l’esistenza dell’altro: semmai il problema si poneva nei termini di come convertirlo alla vera fede. Talvolta la risposta a tale problema fu lasciata all’imposizione o alla pressione sociale, ma altre volte, invece, fu praticata la tolleranza, che certo, però, non assumeva affatto, da un punto di vista teologico, il significato di relativismo confessionale.
Qui incontriamo la grande questione di quel che oggi si chiama, in connessione al mito della libertà di coscienza, la libertà religiosa.
Il concetto di libertà di coscienza nasce in un alveo protestante. Esso è connesso direttamente con l’individualismo esegetico introdotto da Lutero e fu ripreso, per ovvie affinità culturali, dalla massoneria, prima, e dal liberalismo, poi. Su tale modo di intendere la libertà di coscienza si fonda il relativismo ossia l’idea per la quale tutte le confessioni sono eguali, raggi di una stessa ruota che convergono verso il centro ossia verso una fantomatica Tradizione Primordiale che attraverserebbe, in quanto retroterra esoterico, tutte le tradizioni essoteriche ossia tutte le confessioni.
Locke, quando parla di tolleranza religiosa, dalla quale non a caso esclude proprio i cattolici per definizione, secondo lui, intolleranti e dogmatici, intende perorare proprio questo relativismo religioso. Infatti, Locke, che era deista, afferma il primato di una presunta religione naturale o
razionale, composta di pochi concetti fondamentali e comuni a tutti i cristiani (Dio, Cristo figlio di Dio, immortalità dell’anima), e considera le differenti confessioni cristiane soltanto accidenti storico-culturali che non possono pretendere di ergersi a detentori della Verità assoluta. Le diverse confessioni, pertanto, devono essere tutte ammesse nello Stato e lasciate libere di esprimersi, anche pubblicamente, ma non possono pretendere alcun primato sulle altre.
Questo, essenzialmente relativistico, è esattamente l’attuale panorama religioso degli Stati Uniti d’America, che affascina oggi molti cattolici in quanto, a differenza del giurisdizionalismo di Stato conosciuto in Europa negli ultimi due secoli, lascia libertà, anche pubblica e sociale, alle fedi, tutte ammettendole perché le considera tutte eguali, non afferma giudizi di valore sull’una o sull’altra e considera una questione individualistica, ossia della libera coscienza soggettiva, la scelta di questa o quella fede. Come -a dimostrazione dell’inferenza delle concezioni teologico-filosofiche su quelle politiche ed economiche -sesi trattasse di scegliere questo o quel prodotto in un supermarket.
In realtà, questo tipo di libertà religiosa presuppone, inevitabilmente, il soggettivismo che conduce dritto al relativismo.
Non è un caso se una favola medioevale come quella delle Tre Anella, che intendeva esprimere l’idea tradizionale di tolleranza religiosa, quella sopra esaminata a proposito della crociata e della missione, è stata ripresa e stravolta, nel suo significato profondo, dal Lessing, noto massone, che l’ha trasformata in una perorazione del relativismo confessionale massonico-deista.
Certamente, il concetto di tolleranza religiosa, in senso relativista, introdotto da Locke ha contribuito, in un modo diverso dal cuius regio eius religio di Westfalia, al superamento delle cruente guerre di religione innescate in Europa da Lutero. Tuttavia non se ne può affatto sottacere il carattere deista e massonico che mira alla neutralizzazione della diversità delle fedi ed al loro superamento in nome di una pretesa Tradizione Primordiale o Religione Naturale, che si ritiene superiore alle fedi storiche ed adatta ai veri filosofi.
Ora, invece, contrariamente a tale relativismo, il Magistero cattolico, almeno fino al Vaticano II, ponendosi in linea con la tolleranza religiosa come concepita nel medioevo ed elaborata nel lungo confronto tra le tre fedi abramitiche, ha sempre insegnato non la libertà di coscienza ma la libertà della coscienza.
Non è, qui, questione di semplice distinzione lessicale.
Infatti, cattolicamente, la coscienza, in quanto ferita dal peccato originale, non è affatto ritenuta, da sola, elemento di certo e sicuro approccio alla Verità. Sicuramente è mediante la coscienza che l’uomo giunge alla Fede ma la coscienza individuale può anche essere sviata verso l’errore. Sicché la coscienza abbisogna sempre dell’aiuto della Grazia che è veicolata unicamente dalla Chiesa per mezzo della preghiera e dei sacramenti.
Quando, un tempo, la Chiesa invocava il rispetto della liberta della coscienza non prefigurava affatto uno scenario relativista, come quello inteso da Locke, ma, di fronte alla sfida portata dallo Stato giurisdizionalista fuoriuscito dalla Rivoluzione Francese e dalle rivoluzioni liberali ottocentesche ispirate dal liberalismo di tipo idealistico-
tedesco, Essa rivendicava, per il fedele cattolico, la libertà della coscienza ossia la libertà di non essere coartato, nella fede, dallo Stato moderno.
In tal senso, la Chiesa si poneva in linea con la Rivelazione per la quale la fede non può mai essere imposta con la forza né con la forza essere negata.
Tuttavia, la Chiesa non difendeva affatto la libertà di coscienza, proprio perché la coscienza non è mai elemento sicuro, certo e fermo di conoscenza della Verità, né, di conseguenza, la libertà religiosa.
Essa ammetteva certamente la tolleranza, nel senso tradizionale che abbiamo visto, come provvisorio riconoscimento statutario delle altre fedi in attesa che la grazia e l’opera degli evangelizzatori portino i non cristiani a Cristo, ma non ammetteva la libertà di religione e insegnava che lo Stato, laddove metteva sullo stesso piano la fede cattolica e le altre, veniva meno ai suoi doveri.
L’idea relativista di libertà di coscienza, e quella connessa di libertà religiosa, sono penetrate in ambito cattolico un po’ alla volta anche mediante lo scivolamento semantico che, sostituendo il della con il di, ha in realtà indotto un, inavvertito, cambiamento di significato.
In conclusione
Il problema, letto nella sua effettiva luce storica, è oggi, per noi cattolici, quello di come trovare un modus vivendi con lo Stato liberale, tenendo però conto che tale Stato è in realtà, a modo suo, uno Stato confessionale nel senso che, mentre relativizza la fedi ponendole tutte sullo stesso piano, porta avanti, anche quando si presenta come del
tutto secolarizzato, una sua teologia politica che è quella della religione umanitaria.
L’affermazione cattolica dell’unicità della Verità, razionalmente attingibile dalla coscienza con l’aiuto della Grazia, infatti non può, alla lunga, che cozzare con il relativismo dello Stato liberale. I nodi, prima o poi, vengono sempre al pettine.
Certo, è impensabile, e forse neanche auspicabile, la restaurazione di uno Stato confessionale. Almeno non oggi, non cioè in queste circostanze storiche.
Trovare un modus vivendi con il relativismo liberale che, però, salvaguardi, perlomeno a livello di dottrina teologica e teologico-politica, l’unicità della Verità è, tuttavia, purtroppo inevitabile, nelle date circostanze dei nostri tempi.
Si illudono, però, quei cattolici che credono di poter sposare in linea di principio il relativismo liberale. Lo Stato liberale è, infatti, un potere che quando viene messo in aperta discussione si trasforma nel più intollerante esercizio della forza che possa immaginarsi: fino alla pretesa di esportare se stesso a suon di bombe, non escluse quelle atomiche come insegnano i casi di Hiroshima e Nagasaki.
Se non viene messo in aperta discussione, tuttavia, lo Stato liberale sparge, nelle coscienze, il suo veleno relativistico anche se formalmente si pone in atteggiamento di rispetto verso la fede e la Chiesa.
Qui, forse, la strada da seguire è quella tradizionale a suo tempo indicata da Agostino. L’attuale Pontefice cerca,
infatti, di perseguire proprio tale strada. Che, del resto, è anche una strada squisitamente cattolica.
Agostino, infatti, non sacralizzava lo Stato, anzi relativizzava il Politico, non certamente per negargli il suo giusto valore naturale e di ordinatore della convivenza, che invece riconosceva ampiamente.
Agostino, tuttavia, affermava recisamente che la Verità è solo Cristo e che Essa è annunciata esclusivamente dalla Chiesa che, ai suoi tempi, professava il credo niceno, ossia – oggi diremmo – dalla Chiesa cattolica e, comunque, dalle Chiese di radici apostoliche.
Se questo approccio portava Agostino, per l’appunto, a non sacralizzare lo Stato né a statualizzare la Chiesa, la chiara conseguenza che egli ne faceva derivare era quella di non identificare la realtà trascendente, universale, della fede e della Chiesa con nessuna civiltà particolare, neanche con l’impero romano, ai suoi tempi morente.
Certo Agostino, come già Paolo, apprezzava esplicitamente – basta leggere la Città di Dio – i grandi valori naturali che la romanità aveva saputo esprimere, e tuttavia, a differenza di Eusebio di Cesarea, sapeva che la Chiesa, per il suo fondamento divino, non può farsi catturare nel ristretto alveo di questa o quella civiltà, di questa o quella cultura, pur interagendo con tutte.
Applicando questo approccio alle attuali circostanze storiche, ne consegue che la Chiesa non può legarsi o farsi identificare, a titolo di sua presunta matrice, neanche con l’odierna civiltà liberale ed occidentale, oggi egemone, nonostante le pretese universalistiche di questa medesima
civiltà. Pretese universalistiche però, e qui sta il problema, di tipo umanitario, avulse cioè dalla fede in Cristo.
La via per risolvere il problema della tolleranza religiosa non passa, oggi, ad Occidente.
Luigi Copertino
1) Confronta C. Baldasseroni – F. Cardini, «I colori dell’avventura Le crociate e il regno ‘franco’ di Gerusalemme», Itaca, Edit Faenza, 1994, pagine 3-4.
2) Confronta Baldasseroni – Cardini, opera citata, pagine 6-7.
3) L’Ordine Templare fu soppresso a causa delle mire sui beni dell’ordine nutrite da Filippo il Bello. Il sovrano di ferro, primo esempio di sovrano di una monarchia già in qualche modo nazionale, deteneva il Papa, favorevole all’innocenza dei Templari, prigioniero in Francia e lo costrinse a sciogliere l’ordine, aprendo così la strada al processo inquisitoriale condotto dai legisti e dai magistrati regali. Il processo si concluse con il rogo di Jacques de Molay, ultimo gran maestro, e dei suoi più stretti collaboratori. Episodio, questo, che poi ha fatto nascere una lunga tradizione, del tutto leggendaria, sui presunti segreti esoterici custoditi dai Templari. Leggende alle quali si è rifatta, per spirito anticattolico, anche la massoneria moderna, dichiarandosi l’erede del segreto iniziatico custodito dai cavalieri del Tempio.
4) Confronta Baldasseroni – Cardini, opera citata, pagine 15-19.
5) Confronta Baldasseroni – Cardini, opera citata, pagina 30. Nel corso dei secoli delle crociate, molti si interrogarono sulla effettiva legittimità morale delle spedizioni armate contro gli infedeli. Soprattutto quando, per opera dei canonisti di curia, si iniziò a teorizzare la crociata contro i nemici politici del Papato, come i vari signori ghibellini, più o meno coinvolti in pratiche religiose ereticali. Il cardinal Ostiense, Enrico da Susa, fornì una giustificazione alla cosiddetta crux cismarina, quella rivolta contro i nemici interni alla Cristianità, sostenendo che mentre la crux trasmarina, rivolta contro gli infedeli, si limitava a difendere la Cristianità dalle minacce esterne, la crociata contro gli eretici era ancor più meritoria perché mirava a eliminare il pericolo interno. Si trattò di una degenerazione dell’iniziale spirito penitenziale del pellegrinaggio armato in Terra Santa che destò quasi immediatamente molte contestazioni: «La voce di Dante, che si scaglia violentemente contro la pratica della crociata bandita contro i cristiani, dà solo una lontana idea dell’orrore che essa dovette sollevare (…). Contro una tanto profonda degenerazione dello spirito crociato, è comprensibile che si levassero ben presto voci di protesta. Già i rovesci di tutte le crociate successive alla prima avevano provocato – in un mondo tutto sommato convinto della giustizia immanente di Dio – dubbi, perplessità, dissensi. ‘Deus vult’ (‘Dio lo vuole’) era stato il grido di guerra dei vincitori del 1009: ma ora che le armi della croce venivano sistematicamente sconfitte dagli infedeli c’era da chiedersi che cosa Iddio volesse veramente. Lo stesso Bernardo di Clairvaux, nel trattato ‘De considerazione’, si era interrogato sui peccati dei cristiani che avevano potuto indurre il Signore a provarli così duramente (…). Perfino molti mistici levarono la loro voce contro la crociata, sia ontro quella rivolta a battere gli infedeli, che Iddio sembrava non favorire più, sia quella contro i cristiani, che pareva ben più scandalosa (opera citata, pagine 28-29)». Lo stile tipico di Nostro Signore si può cogliere anche in questo contesto storico. Nostro Signore sostiene la Chiesa soltanto in ciò che è per Essa essenziale ossia soltanto in ciò che concerne la fede e la salvezza degli uomini. Quanto è storicamente intrecciato con questo essenziale è sostenuto dalla Provvidenza – ad esempio, la sovranità del Papa su un territorio, sia pur minimo, necessaria alla Libertas Ecclesiae – ma non ciò che storicamente non lo è, perché frutto di umane elaborazioni culturali o politiche – ad esempio, la ubris teocratica di certi Papi medioevali che proclamavano se stessi Signori del mondo anche, perlomeno indirettamente, nel temporale – e non ciò che storicamente, cambiate le circostanze epocali, non lo è più. A Nostro Signore non interessano affatto le nostre, sempre transeunte, beghe politico-teologiche, quanto piuttosto la Carità, la Misericordia e la Giustizia che Egli vuole siano i segni di riconoscimento dei cristiani e della Sua Chiesa.
fonte
http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&task=view&id=25348&Itemid=100021