Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

C’ERA UNA VOLTA…A BAIA, Lucio Annèo Seneca…

Posted by on Mar 7, 2019

C’ERA UNA VOLTA…A BAIA, Lucio Annèo Seneca…

Di tanto in tanto veniva a Baia, ma ci restava poco. Alla stregua di Marco Tullio Cicerone, la considerava una località da non frequentare, poiché abbandonata al lusso e alla lascivia. Baia per lui rappresentava “l’albergo di tutti i vizi”.
Mal sopportava i portamenti di vanagloriosi patrizi e, peggio ancora, dei nuovi ricchi. Questi ultimi, oltre ad ostentare un’immorale condotta di vita, si aspergevano il corpo di profumi, a volte anche scadenti, e Seneca, che detestava le essenze, diceva: “Il miglior profumo è non averne alcuno”.
I tanti vizi e le poche virtù dei nobili frequentatori di Baia, a lui proprio non andavano giù. Biasimava chi perdeva intere giornate alle terme, asserendo che era: “Cosa inutile e segno di ricercatezza cuocere il corpo e stancarlo col sudore”. Li mostrava a dito e, con toni sdegnosi, diceva: “Il sudore esca solo con la fatica, cioè in modo naturale”. Si teneva lontano dal vino e da pietanze come i funghi e le ostriche del Lucrino, che considerava un incentivo alla dissolutezza, un “invito a mangiare ancora quando si è già sazi” diceva. Rimproverava il lusso e aveva possedimenti e ville con oltre cinquecento schiavi al suo servizio, criticava gli adulatori e di Nerone affermava che “poteva vantare una virtù che non aveva avuto alcun altro Imperatore”, cioè “l’innocenza”, e che “oscurava perfino i tempi di Augusto”.
Da precettore prima e da consigliere e ministro poi, non abbandonò mai Nerone né quando commise stragi né dopo il matricidio. Passivamente accettò i laidi giochi di potere di Agrippina, condividendone l’uccisione di Claudio per avvelenamento. D’identico peccato si macchiò l’anima con la morte di Britannico e di Ottavia Claudia, accettando e giustificando ogni sorta d’infamia di Nerone, per evitare, dichiarava, “mali peggiori”.
Al giovane Britannico, Nerone diede in sorte la stessa morte del padre adottivo. Ma se per il fratellastro riservò una morte rapida, riutilizzando l’infallibile veleno di Locusta, alla moglie Ottavia destinò una sorte ancora più crudele. Il matrimonio, che era stato combinato da Agrippina, non ebbe vita felice. Nerone s’innamorò prima Claudia Atte, la giovane e bella liberta di origini orientali con cui continuò ad avere un lungo rapporto affettivo, e poi di Poppea Sabina, che diventò sua seconda moglie. Per la figlia di Claudio, sorellastra e prima moglie di Nerone, non c’era più spazio a Corte. Rimasta sola e abbandonata, Ottavia sopportò anche l’oltraggio di essere accusata di aver perpetrato l’adulterio con un certo Eucero, un suonatore di flauto. In seguito, a causa delle false ammissioni estorte da Ofonio Tigellino, il potente liberto nominato prefetto del pretorio al posto del suicida Afranio Burro, la sua posizione si aggravò ancor più. Tigellino era un uomo spregevole e disponibile ad ogni sorta di atrocità pur di conservare il potere. E Nerone, proprio a Tigellino, a quella figura d’infame, affidò le indagini. L’infame utilizzò ogni sorta di strumento in suo possesso pur di strappare false denunce. Alle menzogne estorte con la forza, si aggiunsero quelle premeditate del Prefectus Classis Aniceto. L’ammiraglio della flotta di Miseno, in cambio di sicure prebende, sostenne di essere l’amante di Ottavia e l’accusò di procurato aborto. Di fronte a quelle gravi, ma artefatte accuse, Nerone poté muoversi a suo piacimento, senza temere, com’era già accaduto, una rivolta popolare. Ottavia fu, così, relegata sullo scoglio arido e battuto dal vento di Pandataria (Ventotene), dove finanche i gabbiani declinavano l’invito naturale a costruirsi un nido, e costretta a svenarsi. Al cospetto di tante empietà e di accuse di servilismo, peraltro neanche tanto velate, e per aver accondisceso su ogni crimine perpetrato da Nerone, Seneca rispondeva: “Conosco il meglio ed al peggior m’appiglio”. Ma erano proprio le antinomie fra l’apparire, mediante la riflessione filosofica, e l’essere, tramite la pregiudiziale incapacità di applicare quella illuminata dottrina, che facevano sorgere i maggiori sospetti sulla sua integrità morale. Le sue straordinarie e innate doti oratorie erano invise ai senatori e già detestate dal folle Caligola il quale, dopo aver ascoltato una sua orazione, decise prima di dargli la morte e poi lo risparmiò, poiché convinto che sarebbe morto per consunzione. Morto Caligola, con Claudio le cose non andarono meglio: accusato di aver perpetrato l’adulterio con Giulia Livilla, sorella di Caligola e di Agrippina, rimediò la condanna all’esilio. In Corsica vi rimase otto lunghissimi anni, durante i quali scrisse molti libri. In uno di questi, nel Consolatio ad Polibyum, redatto negli anni di permanenza coatta in Corsica, magnificò Claudio, quasi certamente per cattivarsene la benevolenza, definendolo “forza e consolazione” e “splendido come un dio”. Lo stesso incoerente atteggiamento assumerà con Nerone. Difatti, morto Claudio, per ingraziarsi le simpatie del nuovo Imperatore compose l’Apokolokinthosis, nel quale sarcasticamente glorificava la “zucchificazione”, ovvero “trasformazione in dio in forma di zucca”, dell’Imperatore che l’aveva condannato all’esilio. In nome della ragion di Stato appoggiò l’uccisione di Agrippina, sostenendo che si era data la morte a seguito del fallimento di una sua congiura contro il figlio, delitto che proprio a Baia ebbe modo di attuarsi durante il terzo giorno dei Quinquatria, il 21 marzo del 59 d. C. Nella lunga storia dell’uomo non è mai stato tutto bianco o nero: il bene e il male sovente si confondono. Seneca era un uomo, un saggio, che analizzava l’uomo. Un artista della parola che definiva, tramite l’attività spirituale autonoma e la ricerca introspettiva, i modi del pensare, del conoscere e dell’agire umano. In altre parole era un filosofo che spesso sovrapponeva le infime disgrazie quotidiane dell’apparire, alle nobili finalità dell’essere: il valore vero della vita, l’elemento fondante dell’esistenza umana. Da quelle infamie, da cui mai seppe rifuggire, si purificò, riscattandosi, col suicidio. In seguito al discorso ai discepoli, Seneca assunse una bevanda a base di cicuta e compì l’atto estremo; annota Tacito: “Dopo queste parole, tagliano le vene del braccio in un sol colpo. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e indebolito dal vitto frugale procurava una lenta fuoriuscita al sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia”. (Tac. Annales, XV, 63)
Era il 65 d.C.
Ph. 1) Luca Giordano: La morte di Seneca, 1684, olio su tela 155×188, Museo del Louvre, Parigi;
Ph. 2) Manuel Dominguez Sànchez: Il suicidio di Seneca, 1871, Museo del Prado, Madrid

Ciro Amoroso

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