CINQUE LETTERE DEL CONTE DI CAVOUR AL CONTE DI PERSANO E DICHIARAZIONI DEL PADRE GIACOMO A ROMA
I giornali pubblicano nuovi documenti del conte di Cavour messi in luce dal signor Nicomede Bianchi. Ne leviamo queste cinque lettere, che meritano, di venir conservate per la storia. Esse sono dirette al Conte di Persano.
Signor Ammiraglio,
Torino, 11 luglio 1860.
Approvo senza riserva il suo contegno con il governo siciliano. Ella seppe dimostrarsi col generale Garibaldi ad un tempo fermo e conciliante., ed ha quindi acquistato sol medesimo una salutare influenza. Continui ad adoperarla per impedire che il generale non si lasci traviare dai pochi disonesti che lo circondano, è cammini per la via che deve condurre la nave d’Italia a salvamento. Può assicurare il generale Garibaldi che non meno di lui sono deciso a compiere la grande impresa; ma che per riuscire è indispensabile l’operare di concerto, adoperando tuttavia metodi diversi.
CAVOUR
Allo stesso.
Signor Ammiraglio,
Torino, 15 luglio.
Ricevo in questo momento le sue lettere, di cui la ringrazio. Dichiari formalmente in nome mio al generale Garibaldi essere una solenne menzogna che esistano altri trattati segreti, e che i rumori di cessione di Genova e della Sardegna sono sparsi ad arte dai nostri comuni nemici.
Le rinvio gli atti della mia distinta considerazione.
CAVOUR
Allo stesso.
Pregiatissimo signor Ammiraglio
Torino, 28 luglio 1860
Ho ricevuto le sue lettere del 23 e del 24 andante. Son lieto della vittoria di Milazzo, che onora le armi italiane e contribuir deve a persuadere all’Europa che gl’Italiani ormai sono decisi a sacrificare la vita per riconquistare patria e libertà, lo la prego dì porgere te mie sincere e calde – congratulazioni al generale Garibaldi.
Dopo sì splendida «vittoria, io non vedo come gli si potrebbe impedire di passare sul continente. Sarebbe stato meglio che i Napoletani compissero od almeno iniziassero l’opera rigeneratrice, ma poiché NON VOGLIONO o non possono muoversi, si LASCI FARE A GARIBALDI. L’impresa non può rimanere a metà.
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La bandiera nazionale inalberata in Sicilia deve risalire il regno, estendersi lungo le coste dell’Adriatico, finché ricopra la regina di quel mare.
Si prepari adunque a piantarla colle proprie mani, caro ammiraglio, bui bastioni di Malamocco e di S. Marco. Faccia pure i miei complimenti a Medici e a Malenchini, che si sono portati egregiamente.
CAVOUR
Allo stesso.
Signor Ammiraglio,
Torino, 7 settembre 1860.
Non ricevendo altri ordini dal telegrafo, ella farà levare l’ancora la sera dell’11 e si recherà per la via diretta ad Ancona. Ivi si porrà in comunicazione col generale Cialdini, mandando imbarcazioni a terra nel sito il più opportuno. Si concerteranno assieme per impadronirsi nel più breve spazio possibile della città e cittadella d’Ancona. Gl’indico io scopo da raggiungere, lasciando a lei la scelta dei mezzi. Sarà raggiunto a Messina dal Dora carico di cannoni d’assedio, ella terrà a disposizione del generale Cialdini.
Se Garibaldi é a Napoli, vada a vederlo, e gli comunichi le istruzioni ch’ella tiene. Gli manifesti da parte mia il sincero desiderio di andare pienamente intesi per ordinare l’Italia prima, e fare poscia l’impresa della Venezia. Lo preghi di non fare parola per pochi giorni della destinazione della flotta.
Addio, ammiraglio, Dio l’assista, e prima che il mese si chiuda, ella avrà associato il suo nome al primo gran fatto glorioso, che segnerà il risorgimento della marina italiana.
CAVOUR
Allo stesso.
Dispaccio telegrafico — 22 ottobre 1860.
II telegrafo annunzi a che l’Imperatore ha fatto larghe concessioni all’Ungheria, ed ha nominato comandante dell’armala d’Italia l’arciduca Alberto, e capo di stato maggiore il generale Benedek. Ciò é molto minacciante. Ella tenga la squadra pronta a partire per l’Adriatico. Faccia una leva forzata di marinai in cotesti porti. Se il Codice napoletano non punisce di morte i disertori in tempo di guerra, pubblichi un decreto a tale effetto, e ove ve ne siano, li faccia fucilare. Il tempo delle grandi misure è arrivato. Dica al generale Garibaldi da mia parte che se noi siamo attaccati, io l’invita in nome d’Italia ad imbarcarsi tosto con due delle Sue divisioni per venire a combattere sul Mincio.
CAVOUR
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La Civiltà Cattolica nel suo quaderno del 1° settembre 1861 reca la genuina esposizione dell’udienza data dal Santo Padre a P. Giacomo:
«Non appena fu giunto in Roma (dice l’ottimo periodico romano), dove era stato chiamato da lettera dei superiori del suo Ordine, il P. Giacomo da Poirino fu ricevuto in udienza dal Santo Padre. Sua Santità gli rivolse subito la parola in questa sentenza: «Sappiamo che a quanti vi domandano informazione sopra l’accadutovi nella morte del conte di Cavour, voi solete rispondere: trattasi di suggello sacramentale di confessione, e però io non posso dir nulla. Per non essere esposti a ricevere da voi una simile risposta, che, fatta a Noi, sarebbe un vero insulto, Noi vi dichiariamo che il suggello di confessione è cosa sì inviolabile, che voi avete il dovere di mantenerlo al cospetto di qualsivoglia autorità, fosse anche la più eccelsa, fosse anche la Nostra. Ma alla morte del Cavour vi furono alti esterni e visibili a tutti: gli fu amministralo il Viatico, e gli fu data l’Estrema Unzione. Quest’alto esterno dell’amministrazione dei Sacramenti richiedeva necessariamente un altro atto esterno, la ritrattazione, senza la quale voi, suo parroco, non potevate consentire ad amministrargli i Sacramenti della Chiesa. Del modo come questi atti esterni seguirono, Noi, custodi della santa disciplina della Chiesa vogliamo udire da voi medesimo la relazione». A queste sì gravi parole il dello Padre rispose, raccontando ciò che era già noto a tutti, che la ritrattazione non vi era stata, perché egli non avea allora creduto di esigerla. La quale relazione confermò poscia per iscritto, esponendo la serie dei falli avvenuti in quella dolorosa circostanza; e senza confessare esplicitamente, conforme al desiderio dell’autorità ecclesiastica, di avere egli mancato al proprio dovere, forse per la confusione di quei momenti sì difficili, dichiarò solo per le generali, che, se avesse in qualche modo mancato, ne dimandava perdono. Ottenutosi così, sebbene non interamente, lo scopo del suo viaggio, fu lasciato partire, inibendogli solamente di più oltre amministrare i Sacramenti, perché chi non seppe o non volle, in quel caso sì evidente, compiere il dovere proprio d’un ministro della Chiesa, non poteva senza danno delle anime esercitare un sì geloso ufficio».