Così la RAI ha tradito i briganti
Ibriganti son tornati. Dopo anni di silenzio sembra godere di maggiore interesse un capitolo della nostra storia a lungo ignorato: il brigantaggio. Un fenomeno spesso falsato o minimizzato dai libri scolastici, finito ai margini della recente sbornia celebrativa dell’Unità d’Italia, eppure un nodo della storia nazionale imprescindibile per capire gli attuali problemi del Mezzogiorno.
Nuovi studi e iniziative di rievocazione storica (come quella imponente che si svolge ogni anno in Basilicata «La storia bandita»), fino alla fiction andata in onda sulla Rai, «Il generale dei briganti», dedicata al leggendario capopopolo lucano Carmine Crocco (1830-1905). «Ma è stata un’occasione perduta – tuona lo storico Francesco Pappalardo, autore di diversi studi sul brigantaggio, confluiti anche nell’ultimo L’unità d’Italia e il Risorgimento (D’Ettoris 2010), e risorgimentali, come Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia (Sugarco 2010). Troppe le falsità storiche. È inaccettabile che la Rai, servizio pubblico, mandi in onda simili falsificazioni».
Al di là di quell’improponibile accento napoletano messo in bocca ai briganti lucani quali altre grossolanità ha presentato la fiction?
È vero che nei titoli di coda era specificato che la storia raccontata fosse frutto di fantasia. Ma si è andati oltre, perdendo un’occasione per far luce sul brigantaggio e sui problemi post-unitari. Non c’è quasi niente di realmente accaduto in questa fiction, che assomiglia più a un fogliettone infarcito di intrighi sentimentali e di personaggi inventati. Senza dubbio Crocco non parlava napoletano. Ma gli stessi episodi della sua vita sono stati falsati: quel don Ferdinando che lui uccide per aver importunato la sorella in realtà era suo benefattore. Ma soprattutto si passa direttamente dal 1860 al 1864: mancano gli anni cruciali del brigantaggio, quelli combattuti per ripristinare la dinastia borbonica. Grave infatti è l’assenza nel film del generale José Borges, inviato dal re Borbone per coordinare l’insurrezione, il principale collaboratore di Crocco. Fu l’anima politica della rivolta, anche se poi Crocco l’abbandonò per proseguire la sua battaglia personale.
Su Crocco è uscito di recente anche un libro Il brigante che si fece generale (pubblicato dall’editore Capone da tempo attento al fenomeno del brigantaggio). Un volume che raccoglie i memoriali attribuiti al brigante lucano e una contro-biografia critica su questo personaggio. Ma chi era davvero Crocco?
Non è un personaggio nobilissimo che va esaltato troppo. È stato un assassino, ha ucciso un commilitone, ha cambiato bandiera. È stato garibaldino per convenienza a un certo punto. Ma quando gli è stata negata l’amnistia promessa è ritornato filo-Borbone. La fiction fa vedere solo la parte iniziale in cui per salvarsi si schiera con Garibaldi. Quindi lo spettatore sprovveduto può pensare che sia stato garibaldino, quando invece ha combattuto per quattro lunghi anni, dal 1860 al 1864, contro la rivoluzione sabauda beccandosi la condanna a morte e poi l’ergastolo. Per anni incarnò le aspirazioni della povera gente e divenne famoso grazie alle sue esaltanti vittorie contro i reparti sabaudi. Allo studio univa delle doti eccezionali di condottiero, guidò anche un esercito di 2-3 mila uomini. E divenne il più noto dei briganti anche perché fino alla fine non fu ucciso.
Dalla fiction sembra ci sia stata una lotta di classe tra Crocco e i cosidetti galantuomini.
Sì, ma non è andata così. Le aspirazioni della popolazione non erano soltanto sociali, come hanno scritto gli storici di sinistra. Ma c’era un progetto politico di restaurazione dei Borboni. Il primo a parlare di lotta di classe è stato lo storico Franco Molfese, autore di Storia del brigantaggio dopo l’Unità (Nuovo Meridiano), il volume più documentato sul tema, sebbene di impostazione marxista. Poi però Molfese si è pentito, ammettendo che i contadini non sapevano neppure che cosa significasse lotta di classe. In realtà le giuste rivendicazioni della povera gente erano contro quei cosiddetti galantuomini che dopo la rivoluzione francese si erano impadroniti con metodi spesso illeciti delle terre e delle proprietà ecclesiastiche espropriate. I Borboni invece avevano cercato di restituire i terreni ai contadini e per questo si erano inimicati i galantuomini, la nuova borghesia, che difatti aiutarono Garibaldi e beneficiarono del nuovo contesto unitario. Per la gente invece era l’ennesima sconfitta, per questo invoca il ritorno della dinastia borbonica come garante dei suoi diritti.
Però nella vulgata i briganti son passati solo come un gruppo di criminali o cafoni.
Bisogna ritornare alle origini del fenomeno. Quando nel 1860 Francesco II di Borbone abbandona Napoli tutte le popolazioni di Campania e Abruzzo reagiscono contro i Savoia e i garibaldini. È una vera guerra civile. Nel 1861 trenta comuni campani inalberano la bandiera borbonica: sono intere municipalità. L’esercito sabaudo diventato italiano risponde con la distruzione di interi paesi e il massacro delle popolazioni come a Pontelandolfo e a Casalduni (Benevento). A questo punto i rivoltosi si danno alla macchia e salgono in montagna: è l’inizio del brigantaggio «classico». Tra questi ci sono contadini e comandanti politici, una parte amplissima della popolazione. La legge Pica del 1863 proclama lo stato d’assedio in tutte le province del Regno delle Due Sicilie, eccetto Napoli e Reggio Calabria. L’epicentro della protesta fu in Basilicata perché i luoghi si prestavano ai nascondigli, ma anche perché erano lucani i capi più autorevoli come Crocco e Ninco Nanco. La resistenza armata fu l’aspetto più evidente, ma la popolazione respingeva il nuovo ordine, unitario rifiutando di andare a votare o di prestare servizio militare.
Quando terminò il brigantaggio?
Di fatto nel 1866. Dopo la terza guerra d’indipendenza contro l’Impero d’Austria, vengono meno le condizioni per una restaurazione: Francesco II scioglie il governo borbonico in esilio e rinuncia a tornare. Poi la macchina repressiva aveva esaurito il suo compito: i grandi capi erano stati eliminate e le bande disperse. Quando cade l’obiettivo politico, tra i briganti prevalgono gli aspetti delinquenziali e sociali. Ma le popolazioni avevano resistito in nome dell’attaccamento a a un regno, quello di Napoli, che durava da oltre 700 anni: difesero con fierezza una patria che sentivano calpestata dalla Rivoluzione.
Quali furono gli errori commessi dal nuovo stato unitario?
Oltre alla sottovalutazione dell’attaccamento del Meridione al regno borbonico, anche l’incomprensione totale di un mondo diverso. Quando i rappresentanti dei Savoia arrivarono in Molise, commentarono: «Questa è Africa, questi son beduini». Poi l’imposizione di uno Stato al Sud sconosciuto: centralista e burocratico. Le nuove tasse erano molto più alte e l’obbligo del servizio militare sottraeva braccia all’agricoltura. Ecco perché anche nella fiction si dice: “O briganti o migranti”. Quelli che non volevano prendere le armi erano costretti a fuggire e ci fu un’emigrazione spaventosa, mai vista prima. Nacque lì la questione meridionale. E si spiega anche la nascita delle organizzazioni criminali (mafia, camorra, ecc). Lo Stato veniva visto soltanto come il carabiniere, l’esattore delle tasse, quello che ti faceva partire il figlio. Poi non dimentichiamo che lo Stato unitario fu immediatamente repressivo nei confronti della Chiesa: oltre 100 vescovi cacciati, proprietà ecclesiastiche requisite e vendute ai soliti notabili, aggravando le condizioni dei contadini. Se non altro, i Borboni avevano capito la matrice anti-cattolica sia della rivoluzione napoleonica che del Risorgimento. Anche nella fiction si mostra Francesco II insidiato, perché cattolico, dalla Gran Bretagna che stravedeva invece per Garibaldi, l’eroe in grado di cacciare il Papa.
Per unificare l’Italia c’era un’alternativa alla conquista militare e alla soppressione del Regno delle Due Sicilie?
Prendiamo la Germania. Si è unificata federalmente. Fino alla prima guerra mondiale il re di Baviera era ancora sul suo trono. Tutti i principi tedeschi dipendevano dall’imperatore (Guglielmo II). Non vedo perché Vittorio Emanuele II non potesse diventare imperatore d’Italia lasciando sul trono altri sovrani. E invece si è puntato su un modello di stato che non ha tenuto conto delle specificità locali. Non si tratta di essere filo-borbonici, ma di considerare un regno quello meridionale, diverso per cultura e costumi. E che in 700 anni aveva dato un’identità alla popolazione.
I briganti erano davvero devoti come appare nella fiction?
È un discorso pericoloso perché anche i mafiosi sono spesso «devoti». Certo il brigante medio aveva una forte connotazione religiosa e nutriva una forte devozione per i santi e per la Madonna, tipica del Sud. E anche se la componente politica era prevalente nella loro lotta, non era estranea la difesa dell’identità religiosa. Frati e sacerdoti furono fucilati perché aiutarono i briganti. Anche perché il clero veniva perseguitato brutalmente dallo Stato unitario.
C’è una nuova consapevolezza sul fenomeno del brigantaggio?
Permane tra gli storici un filone «unitario» che considera ancora i briganti alla stregua di delinquenti. E un filone marxista duro a morire che ripresenta il brigante come il cafone che prende le armi perché oppresso socialmente. Eppure anche uno storico come Giuseppe Galasso, che non è certamente filo-borbonico, insiste molto sulla componente dinastica: se nel 1799 ci fu una controrivoluzione per difendere la religione, dal 1860 ce ne fu una per difendere il regno. Certo libri come Terroni di Pino Aprile non aiutano svolgere a un ragionamento articolato: si semplifica e si banalizza troppo etichettando il Nord come predone del Sud. Non è che i piemontesi fossero cattivi. C’è stato un ceto dirigente che ha imposto uno Stato unitario anti-cattolico, non rispettoso delle altre entità statali della penisola, diverse per storia, costumi e cultura. La questione meridionale nacque allora, così pure quella cattolica e quella federale. È un processo storico che merita di essere riconsiderato. Ci sono anche lodevoli iniziative culturali, per esempio a Gaeta e in Basilicata. Ma attenzione a fare del folklore. Altrimenti si finisce come con lo sceneggiato.
Intervista a Francesco Pappalardoù
Antonio Giuliano