Crisi economico-sociale postunitaria e l’emigrazione nell’Italia meridionale
quando Federico II fondò a Napoli la prima Università pubblica al mondo sapeva cosa faceva e quando trasformò il territorio che dal Liri andava fino alle porte di Napoli da Liburia in Terra Laboris, non in ciociaria, lo ha fatto, credo sotto il consiglio di Taddeo da Sessa, perché sapeva che questo territorio aveva dato e continuava a dare i natali ai migliori contadini e artigiani, a grandi santi e navigatori, teologi, filosofi, musicisti, attori, e grandi pensatori. Nell’era contemporanea oltre al più volte citato FERNANDO RICCARDI oggi ospitiamo un altra eccellenza che da tempo da lustro a L’ALTA TERRA di LAVORO, sto parlando dell’avv. Laborino Ferdinando Corradini che ci regala uno studio sulle macerie che ci furono subito dopo l’arrivo dei savoiardi di seguito riportato………………………………….
Crisi economico-sociale postunitaria e l’emigrazione nell’Italia meridionale
Probabilmente sono in pochi a sapere che, fino all’unità d’Italia, la regione con il più alto tasso di emigrazione era il Piemonte, mentre nell’Italia meridionale tale fenomeno era pressoché inesistente.
I dati del censimento del 1861, il primo dell’Italia unita, ci forniscono la situazione riportata nella tabella n. 1. Dagli stessi si rileva come, nella Penisola tutta, l’Agricoltura costituiva la principale fonte di occupazione. Apprendiamo, inoltre, che dei 3.130.796 addetti all’Industria, 1.595.359, pari al 50,96%, si trovavano nell’ex Regno delle Due Sicilie e 810.566, pari al 25,89%, in quello che noi oggi definiamo il “triangolo industriale”. Rilevante la situazione della Sicilia, dove il numero degli addetti all’Industria, 405.777, era di poco inferiore a quello degli addetti all’Agricoltura, che erano 564.149. In Lombardia, invece, i 465.003 addetti al settore secondario erano meno della metà di coloro che trovavano lavoro nel primario (1.086.028). Tralasciamo di descrivere quelle che erano le condizioni dei lavoratori, le quali inizieranno a migliorare soltanto a partire dalla fine dell’Ottocento.
Vi è da dire che la maggior parte delle industrie del Regno delle Due Sicilie potevano reggere il mercato grazie alla protezione doganale loro accordata dalla dinastia borbonica. Esemplare il caso della vicina Arpino, dove si producevano i 2/3 dei panni di lana utilizzati nell’intero Regno e dove tale industria, come risultò da un monitoraggio eseguito nel 1850, dava lavoro a settemila operai.
Com’è noto, nel 1860 il Regno delle Due Sicilie fu conquistato da quello di Sardegna, e il 30 ottobre di quello stesso anno, ad appena quattro giorni dal fatidico incontro detto di Teano e prima che fosse proclamato, il 17 marzo 1861, il Regno d’Italia, la tariffa doganale piemontese fu estesa all’ex Regno delle Due Sicilie. Conseguentemente i dazi protettivi furono abbassati, nel complesso, di circa l’ottanta per cento “senza un lavoro di preparazione per il passaggio dall’uno all’altro sistema e senza tener conto delle differenze fra Nord e Sud”. Alle elezioni del gennaio 1861, il collegio di Sora inviò al Parlamento di Torino Giuseppe Polsinelli di Arpino, che aveva partecipato ai moti del 1821 a quelli del 1848 e a quelli del 1860, e che, insieme con il fratello Angelo, era uno dei principali produttori di panni di lana della valle del Liri (altri centri di produzione di tali panni in questa valle erano Isola del Liri e S. Elia Fiume Rapido). Contro la riduzione improvvisa dei dazi doganali protestò vibratamente il Polsinelli in occasione di un memorabile discorso tenuto alla Camera il 25 maggio 1861, con il quale, “fra la generale incomprensione e ostilità”, espose la situazione in cui erano venute a trovarsi le industrie tessili del Sud Italia: “Sa il signor Presidente del Consiglio – urlò in faccia al Cavour – i dolori e le perdite che hanno subite gl’industriali della province meridionali? Sa il signor Presidente del Consiglio quante centinaia di migliaia di persone sono a languire dalla fame per quelle modificazioni?” Il Cavour, senza scomporsi, gli rispose che, a quel che lui sapeva, da quando era stata introdotta la nuova tariffa doganale i traffici del porto di Genova erano aumentati.
Una dopo l’altra chiusero tutte le fabbriche che producevano panni di lana nella valle del Liri. L’ultima, che dava lavoro a 190 operai, nel 1882. Finì così una tradizione industriale che affondava le sue radici ai tempi della Repubblica romana: sappiamo, infatti, che anche il padre di Marco Tullio Cicerone produceva tali manufatti.
Appena cinque anni dopo, nel 1887, per proteggere le industrie, che, nel frattempo, si erano concentrate al Nord, quella della produzione dei panni di lana, in primo luogo, nella piemontese Biella, furono reintrodotti i dazi. Il nostro principale partner commerciale, la Francia, per ritorsione, prese a non acquistare il nostro vino e il nostro olio, che venivano prodotti soprattutto nell’Italia meridionale, in particolare in Sicilia e in Puglia, e non certo nella Padania. Come ha evidenziato Denis Mack Smith, cominciò allora la corrente migratoria dal sud Italia verso l’America, “che divenne ben presto una vera e propria inondazione”.
Lo studioso che ha dedicato gran parte delle sue speculazioni alla situazione economico-finanziaria dell’Italia meridionale è Francesco Saverio Nitti (1868-1953, Primo Ministro nel 1919/20). Nella sua Scienza delle Finanze edita nel 1903 evidenziò come, al momento dell’unificazione, i 2/3 del denaro circolante in Italia si trovava nel Regno delle Due Sicilie (v. tabella n. 2). Il Nitti ha dimostrato con dati, fatti e cifre che, con l’annessione al Regno d’Italia, il Meridione non solo non risolse i suoi problemi, ma peggiorò la sua situazione:
A causa dell’estensione del sistema fiscale piemontese avvenne che il Regno delle Due Sicilie si trovò ad un tratto […] a passare dalla categoria dei paesi a imposte lievi nella categoria dei paesi a imposte gravissime. […] Mentre altre regioni si alleggerivano o rinnovavano con i vecchi ordini, o avevano riduzioni, nel Regno delle Due Sicilie a pochi anni di distanza si succedevano imposte che non si conoscevano affatto prima, o imposte che erano conosciute in forma lievissima. […] Leggendo le collezioni dei giornali napoletani di quel tempo si vede lo spavento che suscitavano i nuovi ordinamenti fiscali, mentre nel Piemonte, Liguria, Lombardia il carico tributario veniva alleggerito.
A questo proposito, rileviamo che, nella sua Questione Meridionale in Terra di Lavoro, Aldo Di Biasio evidenzia come nel 1867 ciascun cittadino meridionale pagava in media Lire 35,99 di tasse, mentre, nel Regno delle Due Sicilie, il fisco gravava in media su ciascun abitante con la somma annua di Lire 16,06 nel 1857 e Lire 16,11 nel 1859.
Il Nitti, che prima che un uomo politico era un economista, esaminò analiticamente I bilanci dello Stato italiano dal 1862 al 1897 (è questo il titolo di un suo scritto). Con cifre ufficiali alla mano poté, quindi, provare che il Meridione, rispetto alle sue capacità, diede allo Stato un contributo di imposte e di tasse nettamente superiore a quello del Nord:
In quarant’anni il Sud ha dato ciò che poteva e ciò che non poteva: ha ricevuto assai poco, soprattutto ha ricevuto assai male. Si può calcolare che, per effetto della politica dello Stato, della differenza fra la contribuzione dei cittadini e le spese pubbliche, per effetto della rendita pubblica, dei beni demaniali ed ecclesiastici, della forma che l’annessione del Mezzogiorno ebbe, parecchi miliardi […] si siano trasferiti dal Sud al Nord. L’esame dei bilanci e le cifre ufficiali dell’Ufficio di Statistica provano ancora che il Mezzogiorno contribuiva assai più del Settentrione alle entrate dello Stato, poiché possedendo il 27% della ricchezza pagava il 32% delle imposte. Con poco più di un quarto del reddito nazionale (due miliardi e mezzo su otto e mezzo), il Mezzogiorno e le isole pagavano circa il terzo dei tributi (settecento milioni su circa due miliardi).
E’ vero che il nuovo Stato si assunse i debiti degli Stati pre-unitari, ma sottolinea il Nitti, mentre il Regno delle Due Sicilie ne presentò circa trentacinque milioni, il Piemonte, molto più piccolo per superficie e per popolazione, ne aveva circa sessantuno milioni. In conclusione, il Sud, entrato nel nuovo Stato, fu privato dei suoi capitali ad esclusivo vantaggio del Nord e fu esautorato delle sue risorse finanziarie.
Il Nitti evidenzia anche il diverso peso politico avuto dalle diverse parti d’Italia e, analizzando la composizione dei ministeri dal 1861 al 1900, scrive:
Fra i 174 individui che sono stati una o più volte ministri […] 47 ne ha dati il Piemonte, 14 la piccola Liguria, 19 la Lombardia, 41 tutta l’Italia meridionale, 14 la Sicilia. L’Italia meridionale avrebbe avuto 119 ministri se ne avesse avuti in proporzione quanti la Liguria.
Nel suo Nord e Sud, edito nel 1900, aggiunge, quasi profeticamente:
Quando i capitali si sono raggruppati al Nord, è stato possibile tentare la trasformazione industriale. Il movimento protezionista ha fatto il resto, e due terzi d’Italia hanno per dieci anni almeno funzionato come mercato di consumo. Ora l’industria si è formata, e la Lombardia, la Liguria, il Piemonte potranno anche, fra breve, non ricordare le ragioni prime della loro presente prosperità. […] Ma il Nord d’Italia ha già dimenticato: ha peccato anche di orgoglio. I miliardi che il Sud ha dato non ricorda più: i sacrifizi compiuti non vede. Qualche autore ha detto perfino che in Italia vi sono razze superiori e razze inferiori: i meridionali appartengono piuttosto a quest’ultima categoria. Esiste una scienza, anzi una mezza scienza, che prevede senza difficoltà l’avvenire dei popoli e che sa dire chi sia capace di progredire e chi non. Questa mezza scienza si diletta a dire che i meridionali sono un ostacolo a ogni progresso. […] Ora è bene che la verità sia detta: essa renderà l’Italia settentrionale meno orgogliosa e l’Italia meridionale più fidente. Quando si saprà ciò che quest’ultima ha dato e quanto ha sacrificato, sia pure senza volere e senza sapere, la causa dell’unità avrà molto guadagnato.
Della vicenda si sono naturalmente interessati anche altri illustri studiosi, fra i quali segnalo l’economista e uomo politico Antonio De Viti De Marco (Lecce 1858 – Roma 1943), il quale nel suo La Questione Meridionale edito nel 1903 scrisse:
Noi abbiamo rinunziato volontariamente al nostro diritto, dando il nostro voto alla tariffa dell’87. Ma allora si diceva che la rinunzia sarebbe stata temporanea: appena il tempo necessario perché le industrie bambine fossero diventate grandi e vigorose.
Sono trascorsi quindici anni, durante i quali noi abbiamo vendute a vil prezzo le nostre derrate, concorrendo al buon mercato della vita del Nord, ed abbiamo comperato ad alto prezzo i manufatti protetti, concorrendo a rincarare la vita nel mezzogiorno.
Poi conclude con un affondo:
Fino a quando noi faremo durare le sperequazioni tributarie di cui ho parlato, e quelle ancor più gravi della legislazione doganale e della politica commerciale, noi non saremo un grande paese di trenta o trentatré milioni di abitanti, ma un piccolo Stato, grande quanto il Belgio o l’Olanda, che sta ai piedi delle Alpi, e una popolosa colonia di sfruttamento, che si stende lungo l’Appennino al mare.
Non sarà fuor di luogo ricordare come in quegli anni, per la precisione nel 1899, a Torino, nacque la Fiat.
E che la situazione fosse realmente quella descritta dal Nitti e dal De Viti De Marco, viene riconosciuto anche dall’uomo politico ed economista piemontese Luigi Einaudi, il quale, com’è noto, è stato anche Presidente della Repubblica:
Sì, è vero, noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato di più delle spese fatte dallo Stato italiano; è vero, peccammo di egoismo quando il Settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio (si riferisce alla tariffa doganale del 1887, n.d.r.) e ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale, con la conseguenza d’impoverire l’agricoltura, unica industria del Sud; è vero che abbiamo spostata molta ricchezza dal Sud al Nord con la vendita dell’asse ecclesiastico e del demanio e coi prestiti pubblici; […] è vero che abbiamo ottenuto più costruzioni di ferrovie, di porti, di scuole e di altri lavori pubblici …
In conclusione, la politica liberista del periodo immediatamente successivo all’unificazione mise in difficoltà e fece chiudere le industrie del Sud, al quale rimase, come pressoché unica fonte di ricchezza, l’agricoltura. La politica fiscale post-unitaria spostò ingenti capitali dal Sud al Nord. Con gli stessi fu dato inizio alla industrializzazione del Nord-Ovest. Per favorire la crescita di tali industrie, nel 1887, fu adottata una politica protezionista con l’introduzione di pesanti dazi doganali, gli stessi dazi con cui la dinastia borbonica aveva protetto le industrie del Sud. Questi dazi del 1887 determinarono il tracollo dell’agricoltura dell’Italia meridionale.
Per quel che riguarda la provincia di Caserta, la situazione viene mirabilmente compendiata dal prof. Carlo Zaghi nella sua Prefazione a La Questione Meridionale in Terra di Lavoro di Aldo Di Biasio. Non sarà fuor di luogo ricordare come la parte meridionale della odierna provincia di Frosinone, quella connotata dal prefisso teleselettivo 0776, fino al 31 dicembre 1926, ha fatto parte di tale provincia:
Terra di Lavoro! Una delle province più vaste, più popolate, più sviluppate e ricche di infrastrutture dell’intero Meridione sotto il dominio borbonico; una delle più diseredate, delle più sfruttate e abbandonate del nuovo Regno d’Italia: popolazione in continuo aumento, pressione fiscale intollerabile, brigantaggio a sfondo sociale con punte drammatiche di rara e cruenta efferatezza, servitù militari insostenibili, ristagno degli investimenti pubblici e cessazione automatica dei molteplici privilegi dei quali la provincia aveva fruito negli anni precedenti, recessione manifatturiera, crollo massiccio dell’occupazione operaia e contadina, pauperismo, emigrazione, ecco solo alcuni dei problemi che la provincia presenta dopo l’Unità. […]
Gli investimenti pubblici da circa un terzo degli investimenti di tutto il Regno borbonico […] sono diventati assai meno della decima parte dopo l’Unità […]
Al minore investimento di capitali pubblici risponde un maggior carico fiscale, basato essenzialmente sul barbaro sistema della tassazione indiretta. Pressoché inesistente nel Regno borbonico, la pressione fiscale diventa insostenibile nello Stato sabaudo, fino a raggiungere vette davvero vertiginose. […]
Nel 1876 gli operai impiegati nei dieci maggiori tipi di opifici della provincia sono 8.360, nel 1877-88, 4.716; nel solo circondario di Arpino nel 1845 erano dodicimila. […]
La produzione agricola è caratterizzata da un costante aumento negli anni sessanta, diminuisce gradualmente negli anni settanta e crolla in quelli seguenti. […]
Ecco allora spiegato l’aumento dei crimini che da cinquecento del 1845 passano a cinquemila nel 1870, quello dei mendicanti […] e quello dei reclusi, che da meno di un migliaio nel 1855 raggiungono le diecimila unità nel 1870. […] Una prima reazione a tale stato di cose fu il brigantaggio. […] La fine del brigantaggio è intimamente legata all’inizio dell’emigrazione, due aspetti di un unico problema: la diseredazione economica. Dal 1876 al 1887 emigrano 17.270 abitanti; poi il loro numero aumenta in un crescendo sbalorditivo: 3.000 nel 1890; 4.000 nel 1891; 7.641 nel 1893; 9.122 nel 1896; 14.065 nel 1900; 23.901 nel 1901; 28.210 nel 1913.