Da “guallera” a “tamarro”: la lingua araba nel napoletano
Da “guallera” a “tamarro”: la lingua araba nel napoletano.
Il napoletano è certamente il più colorito, il più immediato e il più influenzato dalle culture che sono state ospiti nella nostra città, rispetto a qualsiasi altra lingua in Italia. A Napoli ci si esprime attraverso parole che derivano dai grandi imperi del passato: esistono termini derivanti dal francese, dall’olandese, dallo spagnolo e (per quel che ci interessa in questo articolo) dall’Impero Saraceno. Della presenza dei Saraceni a Napoli si hanno diverse testimonianze, in particolare c’era un proverbio che testimoniava il loro insediamento nell’ hinterland napoletano: “Quatto, li luoche de la Sarracina: Puortece, Crumano (San Giorgio a Cremano), la Torre (del Greco) e Resina”.
Al tempo del Regno di Napoli, periodo enormemente florido dal punto di vista economico, avvenivano numerosissimi scambi commerciali con i paesi del Nord Africa e questi rapporti si evincono anche dall’etimologia e dal significato di molte parole. In realtà, proprio queste parole che provengono dalla cultura araba, sono probabilmente quelle più utilizzate inconsciamente dai cittadini napoletani. Ecco qui alcuni esempi:
Carcioffola: letteralmente significa “il carciofo”. Addirittura Salvatore Di Giacomo ed Eduardo Di Capua gli dedicarono una famosissima canzone. Ma in pochi sanno che questo vocabolo trae ispirazione da “harsuf“, il carciofo arabo.
Guallera: derivante dalla terminologia araba “wadara“, anticamente questa parola veniva utilizzata per indicare l’ernia scrotale, un rigonfiamento della sacca che contiene i testicoli. Chiaramente tutto ciò comportava un gran fastidio poiché rallentava l’andamento della camminata.
Mesale: in molti dibattono sull’origine di questa parola. C’è chi dice che venga dal latino “mensa” che significava tavolo da pranzo. Ma c’è chi trova la traduzione di mesale nella parola araba “misar“, ovvero la tipica tovaglia che viene utilizzata dagli arabi.
Paposcia: il termine “paposcia” nel dialetto napoletano sta ad indicare una tipologia di appesantimento del morale di una persona a causa dell’ernia scrotale oppure la pantofola. Come mai? Semplice, questa parola trae origine dalla “bābūğ” araba, ovvero una tipologia di calzatura con la punta in su che si indossava senza lacci, proprio come le pantofole.
Tamarro: questa parola deriva dalla lingua araba “al-tammār” che letteralmente significa “mercante di datteri”. Chi svolgeva questa professione, in passato, veniva additato come una persona che non si curava del proprio aspetto e che, pur non essendolo per davvero, dava l’impressione di essere uno zotico.
Tauto: questa antichissima parola significa letteralmente bara e deriva dal termine arabo “Tabu’t“, che ha la stessa corrispondenza partenopea.
Vaiassa: il vocabolo venne utilizzato addirittura ai primi del XVII secolo da Giulio Cesare Cortese, autore di un poema eroicomico dialettale “sulle serve” intitolato Vaiasseide, pubblicato nel 1604. Più recentemente il termine “vaiassa” è stato utilizzato per descrivere la donna che abita nella tipica abitazione napoletana chiamata “basso”, quindi di basso ceto sociale e di umili origini. Infatti “vaiassa” deriva dalla lingua araba”bargash” che tradotto in italiano sta a significare “la serva”.