Dal Boss al Castello delle Cerimonie: l’evoluzione di “nu matrimonio napulitano” sottoposto ad interpretazioni sbagliate
L’antefatto mira a ricostruire in brevi tappe l’imbarazzante successo di una trasmissione che definiamo, quantomeno, “controversa”.
Nel 2014 parte in sordina per arrivare all’esplosione e consolidamento del successo delle edizioni successive, mantenuto inaspettatamente anche dalla nuova castellana, la signora Imma Polese figlia del celeberrimo e compianto don Antonio, patron della Sonrisa a Sant’Antonio Abate, hotel conosciuto anche come “il Castello” per l’imponenza, lo sfarzo, gli addobbi barocchi presenti nella struttura oggetto anche di abusi edilizi perseguiti e condannati ma che non hanno ridimensionato l’enorme fortuna della famiglia che, da iniziale fornitrice di carni per macelleria, ha creato un vero e proprio impero finanziario e mediatico passando pressoché indenne da forti tempeste.
Episodi giudiziari che videro il “boss” Antonio Polese, difendersi da gravi accuse mosse da Procure che diedero credito alle intercettazioni di Raffaele Cutulo inerenti finanziamenti della NCO ad una imprecisata struttura che si pregiava ospitare il Festival della Canzone Napoletana. Queste ed altre vicende equivoche non hanno comunque scalfito la considerazione degli estimatori verso il “Boss delle Cerimonie”, amore manifestatogli in 10mila persone accorse al suo funerale, un corteo funebre lungo tre chilometri.
Il regista della trasmissione, caprese, con casa di produzione romana confeziona questo ed altri programmi per Real-time Discovery con sede a Milano. Programma che, aggravante, viene venduto in molti Paesi, contribuendo a distorcere, anche all’estero, l’immagine di Napoli e del Sud, soprattutto quando chi guarda le trasmissioni televisive non è dotato degli giusti strumenti critici adatti a fare una analisi desueta e destrutturata da preconcetti e pregiudizi in grado di restituire, anche in questo frangente, la dignità che merita Napoli e il nostro Sud.
Conclusa la doverosa premessa bisogna chiedersi perché la pagina meridionalista di questo quotidiano abbia un atteggiamento, con qualche forzatura, volutamente benevolo nei confronti di una trasmissione che tenta di spacciare per unica realtà una delle tante sfaccettature della nostra amata Terra, che annovera sicuramente anche matrimoni kitsch e folkloristici ma di sicuro non con la consuetudine che una lettura approssimativa potrebbe far immaginare, Non si riesce a comprendere poi perché gli sposi e gli ospiti, protagonisti di questo programma e che involontariamente prestano il fianco, debbano essere considerate figure macchiettistiche visto che la televisione a respiro nazionale con relative icone ed influencer, sforna a getto continuo figure e figuranti imbarazzanti , ben oltre l’immaginabile in quanto a volgarità di costumi, costume e scene grottesche e, assoluta aggravante, sprovvisti di tenerezza e ingenuità ( talvolta anche stupida spavalderia) che invece abbonda nei protagonisti di “nu matrimonio napulitano” incapaci di comprendere di fungere da macchiette strumentalizzate atte a far sentire falsamente superiori gli italiani che ridono delle loro gesta. Sposi napoletani e della provincia che spesso sono umili e semplici persone che si indebitano ancestralmente per il matrimonio qui vengono derise anche per la dialettica e per gli strafalcioni che accompagnano sovente la cerimonia. E questo non è corretto, considerato che se facessimo noi un’operazione analoga troveremmo in giro per l’Italia e soprattutto nel famoso triangolo industriale perle da “Milanese imbruttito”. Vorrei chiedere perché poi scelgano sempre soggetti napoletani per i reality di questo sottogenere che non accenna a diminuire visto che a breve apparirà anche quello dedicato alle casalinghe napoletane tra le quali spicca il nome della “papi” Noemi Letizia, pupilla di Berlusconi. Garanzia di un successo assicurato contando sempre sulla nostra simpatia e mimica teatrale se la guardiamo dal lato giusto. Ma non credo che sia quello il lato giusto.
E allora cerchiamo di cogliere la positività di un’operazione subdola anche perché di inadeguato e sopra le righe c’è solo il tentativo di demonizzare continuamente Napoli cercando di colpire ed infierire e consideriamola invece come una sorta di resistenza alla colonizzazione così come suggerisce tra le righe il critico televisivo Aldo Grasso:
“Ogni puntata de «Il castello delle cerimonie» conserva il potere ipnotico tipico delle fiabe, con una spruzzata di realismo verace. Come solo le grandi saghe narrative sanno fare, resiste immune al passare degli anni, ai cambi di generazione (dal boss Antonio alla figlia Imma), al dipanarsi degli eventi, contando sull’immutabilità dei suoi rituali, simili a formule. Meglio di un trattato di sociologia o antropologia per capire un certo tessuto ambientale e umano, senza dover passare per le asperità accademiche. Sotto una lieve patina di modernità, con i neomelodici vestiti da rapper americani, si leggono in controluce tradizioni arcaiche legate allo sposalizio. Qui è inteso come rito di passaggio che deve ambire alla grandezza per sancire la rispettabilità sociale della famiglia”
E così come la canzone napoletana , da quella classica e folk a quella colta, dalla dub al rap ( da una parte) a quella dei neomelodici (dall’altra) ha da sempre rappresentato la poliedricità del nostro popolo , ringraziamo la gente dei quartieri, dei rioni, dell’hinterland, quella che non si arrende, quella che non si globalizza che continua a mantenere, a modo loro, intatte le tradizioni, il suo slang, i proverbi, la nostra lingua, l’arte di arrangiarsi quando lo Stato latita , quando i mass media enfatizzano ripetutamente il male come se esistesse solo Napoli ed il Sud nella loro agenda e non scrivono della felicità di vivere in questa città . Ed è allora anche per loro, per questo spaccato della nostra Terra che Pier Paolo Pasolini conversando con un suo conterraneo, durante le riprese a Napoli del suo Decamerone, fece questa sublime dichiarazione d’amore:
“Napoli è stata una grande capitale, centro di una particolare civiltà ecc. ecc.; ma strano, ciò che conta non è questo.
Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare.
Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Beja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto.
La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il quartiere Traiano) e per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati).
I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili.
di Patrizia Stabile per il Roma del 9 gennaio 2020
fonte nazione napolitana indipendente