DEL TRASFERIMENTO DELLA CAPITALE LETTERA AI DEPUTATI NAPOLETANI
Onorevolissimi Signori,
Nella grave condizione, in cui volge presentemente il nostro risorgimento, il cui avventuroso procedere impediscono menti e mani straniere, gli animi nostri sono ansiosamente rivolle al prossimo raccogliersi delle S. V., dalle cui prudenti e virili deliberazioni grandemente dipende la fortuna d’Italia. Ognuno si studia d’indagare quali saranno per essere le menti delle S. V., e quali consigli saranno per prendere coloro, ai quali abbiamo confidato in gran parte le sorti della patria nostra.
Anzi parecchi, specialmente fra coloro, i quali si occupano di scrivere diari e gazzette non pure si contentano d’indovinare direi quasi il pensiero delle S. V., ma propongono ancora questo o quel partito, che secondo la loro opinione darebbe il bandolo per sviluppare tutta la matassa delle nostre quistioni politiche e amministrativo. Fra questi partiti ve n’ha uno, il provvisorio trasferimento della nostra Capitale, il quale messo innanzi da alcuna gazzetta di questa o quella provincia d’Italia, ha ancora occupato parecchi diari stranieri, dei quali ciascuno l’ha svolte secondo la sua opinione favorevole o contraria alla nostra nazione. Ed alcuni trattando questo argomento sono giunti tino a determinare la città che dovrebbe essere preferita a Torino, designando Napoli.
A me italiano e napoletano è paruta questa quistione una delle più gravi e pericolose tra le molte sorte in questo nostro politico rivolgimento, e quanto più vi ho pensalo su, e ne ho discusso con mollissimi, tanto maggiormente mi son confermato nella mia opinione. La quale in principio io pensava di non dover esporre in pubblico e principalmente alle S. V., e perché credevo che la quistione fin dal suo primo sorgere fosse stata giudicata dalla opinione nazionale, e perché confidando nel senno delle S. V. mi pareva inutile accrescere le loro molestie con un mio scritto.
Ma con mio dolore ho veduto che l’argomento non era stato dimenticato, e qualcuno aggiunge che abbia occupato anche i discorsi di qualcuna delle S. V.. Però ho mutato partito, ed ho creduto mio debito di esporre francamente alle S. V. la mia opinione. quali che fossero gli argomenti, coi quali potessi appoggiarla, stimando obbligo di ogni cittadino esporre la sua opinione in una quistione che tanto interessa l’avvenire del suo paese.
Io bo rivolto tutte le forze del mio intelletto a considerare se il trasferire provvisoriamente altrove, ed in particolare in Napoli la sede del governo giovi o noccia alla prosperità ed allo avvenire della nazione italiana; e mi son convinto che il provvedimento è irto di urgentissimi pericoli, i quali giova scongiurare.
Non è un mese che non vi sarebbe stato alcuno, il quale avesse osato di proporre una quistione siffatta. E tutti ricordiamo l’impressione che in Italia destarono le parole dell’onorevole Ricciardi, ed uno scritto dell’onorevole M. d’Azeglio ( Quistioni urgenti.), quando ebbero il malaugurato pensiero di proporre il primo di trasferire la Capitale a Napoli, e l’altro a Firenze. Tutti eravamo convinti che il senno e la forte volontà degli Italiani avrebbe risoluto in un più o meno breve tempo la gravissima quistione di insediarci a Roma. E dopo il luttuoso trionfo che la volontà assennata e matura ebbe sull’impaziente e disordinato ardire le nostre speranze parevano prossime a compiersi. Ora non è mestieri sapere come, e fino a quanto queste speranze sieno state deluse, giova notare che tutti siamo persuasi di dover ancora sostare. Tuttavia questa convinzione ha prodotto il pessimo effetto di spingere alcuni spiriti fiacchi, e poco fiduciosi della forza della nazione e del vigore della sua volontà a disperare di risolvere la quistione di Roma e della nostra compiuta unità. Ed han detto, poiché non ci si vuol permettere di andare a Roma, ed in Torino non si può rimanere, senza che alcune province se ne distacchino; andiamo a Napoli. Colà è men forte il sentimento unitario, colà sono maggiori i disordini amministrativi, colà ci si minacciano dei pretendenti, andiamo a porre colà il centro del governo; ove più è inciprignita la piaga, ivi bisogna la maggior forza ed energia del rimedio.
La metafora sarebbe imaginosa; ma manca di verità. Io non ripeterò tutti i fatti, e gli argomenti, i quali pruovano quanto sia saldo e generale in Napoli il sentimento unitario; ci si sono date da due anni infinite occasioni di ripeterli a sazietà. Solamente dirò quest’uno, che nessuna non pure provincia, ma città del napoletano ha dato segni di ribellione contro il governo in due opportunissime occasioni, porte nel 1861 col più sanguinoso infierire del brigantaggio, e nel 1862 con la discesa di Garibaldi io Calabria. Dicano i nemici d’Italia, ed i paurosi, o finti amici se occasione più propizia di quest’ultima noi potevamo avere per liberarci della tirannia Piemontese, come dicono gl inverecondi ( In quegli ultimi giorni la ufficiosa Monarchia Nazionale ha pubblicato una statistica dell’ammontare delle partite di rendite degli antichi Stati non tramutate in rendita italiana. Le province Napoletane ne hanno a tramutare una somma minore di ogni altra provincia d’Italia: Ciò valga per una nuova smentiti ai nostri detrattori forestieri e paesani. ).
Nè l’argomento della cancrena, e della piaga inciprignita mi pare più grave, né più serio, quando anche tosse mosso in buona fede; che di coloro, i quali parlano in mala fede, non mi occupo, non volendo turbare il flebile corrotto politico-religioso dell’Armonia, dell’Osservatore romano, e di qualche maggiordomo o birra in disponibilità.
A quei primi potremmo contentarci di rispondere solamente che essi ignorano non pure la storia ai tre o due secoli, ma quella del secolo corrente; anzi quella dell’ultimo decennio. Che, se così non fosse, ricorderebbero come dal 1856 al 1859 quel ferreo governo dei Borboni ebbe a lottare vanamente col brigantaggio in Calabria, malgrado vi avesse invialo con poteri straordinari il generale Afan de Rivera: né valse a liberare il contado di Foggia, Cerignola, Ascoli e Lucera dalle incursioni di Nicola Morra e Gabriele Buchicchio, dei quali ci spacciammo insieme coi Borboni. Ricorderebbero del pari che Ferdinando II non sopraffece Giosafatte Tallarico, se non venendo a patti con lui seguendo le gloriose tradizioni dei suoi maggiori. I quali, o nominavano i briganti colonnelli e generali, come fecero con Pronio, Rodio e simiglianti, o capitolavano prima con essi e li prendevano ai loro soldi, e poi li facevano proditoriamente moschettare, come avvenne il 1818 coi Vardarelli in Foggia. Ecco il sistema di pubblica sicurezza inaugurato, e costantemente mantenuto dalla espulsa dinastia: far le viste di combattere i malandrini, dopo averli istigati, e poi venire a patti con essi per tradirli avutili in suo potere. Or come volete che un paese così vastamente e lungamente corrono guarisca di una piaga, che i precedenti rettori aveano con tanto studio accarezzato ea estesa? ( Di ciò non è mestieri dar documenti: basta leggere il Colletta. E poi gli ultimi tempi tutti ricordiamo, e le gazette dell’alta Italia se ne occuparono lungamente, i modi usati col prete Bianchi in Calabria nell’epoca suddetta, il quale capobanda si lasciava fare, mentre gli si ammazzavano i subalterni. ) lo avrei volentieri intralasciato questo doloroso argomento per carità di patria, ma coloro, i quali di questa carità vogliono far pompa pei loro segreti intendimenti, mi sforzano ad occuparmene. Essi se ne fanno ora anche un argomento per sostenere quei loro partito del trasferimento della Capitale dicendo che la presenza del governo in queste province le spazzerebbe dal brigantaggio; anzi aggiungono in pruova della bontà delle loro ragioni che, quando nell’ultimo maggio era qui il nostro Re, i malandrini si appiattarono. Ciò è contraddetto dai fatti, perché in quel tempo, per par lare della sola Capitanata, della quale ho più particolari notizie, cinque ferocissime bande scorrazzavano per quelle pianure facendo ancora importantissime requisizioni di cavalli. Ed un componente di quella Deputazione provinciale mi assicura che la Deputazione fu obbligata a congedare gl’ingegneri chiamati pei lavori delle strade rotabili sul Gargano, essendo impossibile lavorare in campagna. Di quelle cinque bande quella di Pagliacciello fu distrutta in maggio, quella del Sambro in giugno, o luglio, e di Crocco non si ode più a parlare. Ora non rimangono, se non le due di Caruso e Schiavone; ed il Gargano è perfettamente libero di briganti.
Se a tutto ciò che innanzi abbiamo detto si aggiungono le cospirazioni, ed i mezzi di ogni natura, i quali manda Roma, si vedrà facilmente che il tempo ed il possesso di Roma estirperanno questa mala pianta, tanto fecondata in passato con ogni arte da quello scellerato governo. Io non dico che l’amministrazione intanto debba starsene con le mani in mano rispetto a questo tristissimo flagello, tanto infesto alle nostre sostanze ed al nostro nome, che anzi vorreisi adoperasse con sovrumana energia per liberarcene: ma tengo per fermo che ciò, che dipende dalla corruzione dei costumi, e dalle istigazioni straniere e paesane. e specialmente da superstizioni religiose ( La plebe, specialmente quella del contado crede, e glielo fanno credere i preti, che il brigante possa andare in Paradiso sol che faccia un digiuno per la Madonna del Carmine il mercoledì, o faceta dir messe stando al prete grasse elemosine. ) nutrite precipuamente nelle plebi rurali, e dallo scrollarsi degli antichi ordini e sostituirsene nuovi mercé una rivoluzione non possa dileguarsi in un giorno facendo venir qui Re, Parlamento e Governo. Anzi questo provvedimento prolungherebbe il male, se pure non lo accrescesse.
Ma esaminiamo più da vicino il maggiore argomento dei nostri avversari, i quali si rivelano politici di una meravigliosa semplicità, quando vorrebbero che una grande rivoluzione non costasse altro che evviva e fiori, ed inni, od al massimo qualche discussioncella di gazette od in caffè. Costoro non hanno ancora capito la gravità, e l’importanza del nostro rivolgimento, né hanno studiato profondamente tutte le quistioni, che il governo del Re d’Italia ha dovuto risolvere specialmente in queste province. Nelle quali al suo primo giungere se gliene oppose una capitalissima, ossia refrenare quella stessa rivoluzione, la quale gliene avea aperto il cammino trionfale, ed avealo invitato a venirvi. Chi consideri quanto sia grave compito il metter freno e senno negli amici, potrà tener ragione degli ostacoli, che il governo italiano ha dovuto superare in Napoli.
Io per me penso che tutto questo gran male, se pur vi sia, non si torrà insediando qui il governo. Imperoché questo male o dipende da noi stessi, omai nostri rettori, ovvero è una conseguenza naturale della condizione stessa delle cose. Nel primo caso il governo certamente peggiorerebbe. Imperocché un governo libero, ed il quale si regge principalmente per la pubblica opinione s’indebolisce, e snerva appunto per quelle ragioni, che valgono a rafforzare i reggimenti assoluti. Un governo libero ha bisogno di vivere in un aere sereno, in campo tranquillo, ove le passioni sieno meno vivaci, le discussioni pacale e gli uomini si facciano governare dallo ragione, più che dalla fantasia e dagli affetti. Ora, secondo l’opinione stessa dei nostri avversari, il governo qui si troverebbe nelle condizioni perfettamente contrarie al suo bisogno, e sarebbe sforzato ad abbandonare la sua necessaria serenità per divenir passionato; dovrebbe o farsi trascinar nella piazza, o puntare i cannoni per le strade, le baionette contro i petti dei cittadini. il che se bene riuscisse a sgroppare il nodo, che trovano gli altri, io lascio ad essi considerare.
Nel secondo caso, che il male dipenda dai rettori, il rimedio sarebbe molto più grave, e peggiore del male, che si vuol curare. Imperocché nei paesi retti a stato libero la più facile cosa del mondo e il mutar rettori: basta un voto della maggioranza. Or non sarebbe opera da malli scombuiare tutto il presente ordinamento per fare ciò, che senza nessun pericolo, e fatica, e spesa, e disordine si può fare in un giorno? Che se poi si crede non doversi mutare i presenti rettori, oh! si viva pur certo che Varia sola non mula gli uomini. E se finalmente il male dipende dalla condizione stessa delle cose, il mutar la sede del governo, non pure non le muterebbe, e sanerebbe il male, ma lo aggraverebbe, come vedremo.
Imperocché in primo luogo sarebbero scosse le nostre non molto floride finanze, dovendosi necessariamente gravare delle enormi spese, che richiederehbonsi per insediar più la Corte, il Parlamento, i Ministeri e tutte le altre amministrazioni centrali. E per sostener queste spese farebbe mestieri levar nuove imposte, e fare nuovi debiti, sospendere lavori pubblici e armamento: il che non gioverebbe affatto a dar sesto all’amministrazione. La quale per contrario sarebbe anche più ravviluppata e confusa dal naturale disordine, ohe porta seco lo sgomberare da un luogo per recarsi in un altro. Per riparare poi a questo necessario disordine, dato pure che bastasse un anno, noi ci troveremmo di aver ritardato per un altro anno l’opera faticosissima e difficile del nostro a organamento. Cosicché il partito, che io combatto, menerebbe proprio all’opposto di ciò, che si vorrebbe con seguire adottandolo.
E si noti che io mi sono occupato solamente dal male nascente dallo spostamento delle cose, senza punto parlare di quello, che produrrebbe lo spostamento di persone. Ma appunto questo, gridano gli avversari, noi chiediamo, lo spostamento delle persone, le quali ricevendo sempre una certa modificazione dall’aria, che respirano, e dal luogo in cui vivono, ed essendo grandemente affezionate ai loro usi, alle loro costumanze, e queste naturalmente preferendo alle altrui ne sorge che ci vogliono per forza imporre tutto ciò che,è della loro provincia,del oro campanile, senza alcun rispetto al mondo a quel tanto di bene, che pur gli altri aveano.
Eppure a me sembra che il rimedio non approderebbe gran fatto. Quelle medesime persone, poiché non si potrebbero rimandare a casa non avendo nessuna colpa, sarebbero qui le medesime che or sono colà. Ma, se anche l’aria le mutasse, non credo che queste aure di quà farebbero maggior bene all’Italia di quelle di là. Nè poi io credo che la cosa sia proprio in realtà, come vanno alcuni strombazzando; anzi dubito non forse visi mischi moltissimo una passione, che a noi fu sempre funestissima. Imperocché noi abbiamo veduto che quando il partito moderato, e poi il governo regolare diretto dal Conte di Cavour cominciavano a voler calmare le passioni infiammate dalla rivoluzione, ed a metter ordine là dove lotto era disordine e rovina necessaria, sorsero la prima volta queste medesime grida. Ed allora i nostri nemici di ogni genere, atterriti che finalmente tutti gli abitanti della penisola si stimassero e dicessero italiani, trovarono una nuova parola, che potesse servire a distinguere italiani da italiani, e fecero risuonare ai nostri orecchi quelle maledette parole di piemontesismo, pìemontizzare e pìemontizzatore
E così i municipali aperti o nascosi sotto diverse maschere chiamarono tutti i loro avversari, tutti coloro che han voluto e vogliono veramente l’unità d’Italia a qualunque provincia appartengano. Difatti han chiamato cosi non solo la amministrazione del Conte di Cavour, e del Farini, ma fin quella del Ricasoli. E parecchi di costoro dopo avere osteggiato quelle amministrazioni si son visti lodare e sostenere quella del Rattazzi, che è l’unica, la quale essendo un poco intinta di municipio, dà loro le maggiori speranze di trionfo. E meglio i loro occulti intendimenti si sono appalesati, quando han detto pìemontizzare la sostituzione della legge sull’amministrazione civile del 1859 alla francoborbonica del 1816, e l’abolizione delle Luogotenenze, e fino l’unificazione del debito pubblico. Sono giunti fino a lodare a cielo quei miseri ufficiali pubblici dell’antico reggime, i quali aveano avuto il raro ingegno di far camminare l’amministrazione borbonica, sorretta da 100 m. soldati, da 12 m. gendarmi, ed un esercito innumerevole di birri e spie, e la quale di altro non si occupava, se non d’incarcerare, processare ed in ogni maniera perseguitare i liberali. Cotesti son tutti cime d’uomini per loro, ed un pochino più che rapa, o zucca chi ha saputo crear l’Italia. A sentirli parlare la terra loro è un Olimpo popolato di eroi e sapienti, e semenzajo di cretini quella di Alfieri, di Lagrangia, di Botta, di Gioberti, di Balbo, di Peyron, di Cavour e di Garibaldi.
lo vorrei per Dio che gl’italiani non ritornassero a quel loro antico e maledetto vezzo di voler preferire la casa mia alla tua, perché mia, e parlare dei loro compaesani che peggio non si potrebbe di croati o panduri. Ricordiamoci sempre del gran bene che essi ci hanno fatto: perdoniamo il pò di danno, se pure ve ne sia, per i grandi benefici ricevuti. Essi son quei medesimi, dai quali furono per 12 anni fraternamente ospitali tutti i nostri migliori, sbandeggiati dalla più feroce tirannia; di migliaia di loro sono sparse le ossa pei campi di Lombardia, di Crimea, e sulle rive del Volturno e del Garigliano; essi in gran parte rialzarono la gloria del nome italiano; profusero sangue e denaro per tener alta la bandiera della libertà ed indipendenza d’Italia; ci diedero Vittorio Emmanuele, Cavour, Garibaldi ed uno dei più valorosi eserciti d’Europa. E se pur toccasse ora a noi di fare qualche piccolo sacrifizio per loro, siamo per Dio generosi alla nostra volta coi fratelli, e facciamolo volentieri. Non diminuiamo la gloria dei nostri conterranei, che è pur la nostra, e sforziamoci solamente di superarli in una nobile gara di abnegazione, di sacrifizi e d’ogni maniera generosità.
Ma io so che mi diranno, le masse non si governano col sentimento, è uopo del tornaconto. Ebbene ritorniamo alla utilità; e proseguiamo a vedere se ve ne sia nel partito proposto. E per verità noi dovremmo fare una nuova rivoluzione amministrativa senza necessità né urgente, né grave per contentare alcune fantasie esaltate ed alcuni interessi sconosciuti i quali si riparano agevolmente col tempo, e col modo naturalissimo ai governi retti a stato libero, come il nostro, cambiando i rettori, quando seguissero una fai sa via. Dippiù tutti questi mali prodotti del disordine amministrativo, il quale a parere dei nostri avversari si trova ora ristretto alle sole provincie meridionali, si allargherebbe ed estenderebbe allora anche a tutte le altre, le quali per giunta sarebbero anche travagliate dallo scontento, che naturalmente si produce in gente la quale si veda abbandonala, e posposta ad altra. Notate ancora che l’opinione contraria non tien conto, e quasi dimentica il pericolo più grave, ed il male più stringente dell’Italia; l’occupazione austriaca nel Veneto.
L’Italia non solo deve prepararsi alla guerra per integrarsi, ma per vivere ha bisogno di star sempre sulle vedette, e coll’arme al braccio, pronta alla battaglia, per contenere in rispetto quell’implacabile nemico, che ha io casa sua. Or bene la nostra situazione militare rimpello all’Austria sarebbe grandemente indebolita dallo scontento delle provincie settentrionali, e dall’allontanarsi del centro, e del nerbo del governo da’ confini austriaci. Sotto questo rapporto mi par dello con molta verità che il governo sia a Torino, come in una tenda di campo; poiché colà anche militarmente la situazione del governo mi pare più forte. Ma abbandono volentieri ad altri questo argomento della condizione militare, perchè, essendomi ignote le discipline strategiche e guerresche quanto il sanscrito ed il chinese, mi spiacerebbe dire delle bestemmie senza volerlo.
Or bene io crederei che ci dovessimo rassegnare, se questi soli fossero i mali, che produrrebbe il provvedimento suggerito dai miei avversari. Ma io ne scorgo molli altri, i quali sebbene fossero a quello estrinseci, pure ne dipenderebbero necessariamente, e sarebbero anche gravissimi: ed il primo le maledette gare municipali. Imperocché io non so persuadermi come, né perché Piemontesi, Lombardi e Toscani dovrebbero tollerare in pace di essere posposti ai Napoletani, ed esclusi da un beneficio che si vorrebbe compartire a Napoli non nell’interesse generale d’Italia, ma quasi principalmente in quello particolare dei Napoletani; laddove che l’importanza politica, storica ed economica di quelle nobilissime contrade non è punto inferiore alla nostra, né i sacrifizi falli da loro all’unità ed indipendenza nazionale ( Un valoroso nostro concittadino in un suo recente scritto trovò una ragione di preferir Napoli come sede del governo, ad ogni altra città, appunto perché avendo essa subito più lunghe e svariate invasioni straniere, avea perduto qual sentimento angusto, e ristretto dell’italianità, e ne avea acquistato un altro universale e cosmopolitico. Insomma pel mio egregio compatriota Napoli avea acquistato il singolare pregio di perdere la coscienza della italianità e però della sua individualità, per acquistar quello della impersonalità.
Ma io a nome, e per onore del mio paese ripudio questo strano pregio, e protesto contro le allucinazioni del mio amico, il cui nobile intelletto fu in quel momento dolorosamente sviato dallo spirito di parte. Imperocché io, come tutti, credo che non si possa fare ad un uomo e ad un popolo ingiuria maggiore, che dirgli di aver perduto la coscienza della propria personalità; e per giunta aver l’aria di fare un complimento. ) furono minori dei nostri. Ma tralascerò volentieri questo funesto argomento delle gare e passioni municipali, il quale fa sanguinare il cuore di ogni onestuomo, stimando io inutile cd indecoroso ricordare ai rappresentanti della nazione italiana la storia d’Italia, i quali in gran parte per quelle gare di campanile, e per le terribili loro conseguenze hanno sopportato prigioni ed esili; e spesero la loro nobile vita a meditare sulle sventure della patria, per trovarvi rimedio.
Un’altra cosa io credo che sia notevole in questo famoso trasferimento della capitale, il tempo e le persone che lo proposero e raccomandarono. Quando alcun migliajo di giovani ardimentosi, l’impaziente ardire ed il focoso patriottismo di un Eroe furon vinti ad Aspromonte dal senno e dalle armi ordinate della nazione, tutti gl’italiani credettero giunto il momento d’intronizzare il governo nazionale in Campidoglio. Anzi parecchi giunsero fino a determinarne l’epoca: ed ufficiali documenti dello straniero, che occupata nostra capitale e protegge i nostri più feroci nemici, confermavano quella opinione nel paese. Ma ad un tratto, ed inaspettatamente l’Imperatore Napoleone si pente di aver promesso troppo ai nostri giusti reclami, mostra di mutar indirizzo, e di volere ancor molto indugiare prima di soddisfare i nostri desideri e le sue promesse. Fu quello un momento, in cui le deluse speranze, il malaugurato trionfo in una lotta fraterna e la conseguente discordia nostra ci vinse, e gittò nell’animo degl’Italiani la sfiducia di poter compiere la grande opera iniziata con tanto valore, e condotta innanzi con senno e prudenza ammirabili. Allora alcuni di noi, non so se più fiacchi, o più malvagi di animo, disperando della virtù dei loro connazionali, o facendone le viste, dissero: poiché non possiamo aver Roma, contentiamoci provvisoriamente di Napoli. Questo pensiero fu accolto con giubilo dai nostri nemici, e leggemmo nei diari scritti dal famoso Visconte e consorti i comenti, le chiose, ed i panegirici, coi quali ci esortavano ad attuarlo. Or se noi cederemo ad un momento di fiacchezza, se seguiremo i consigli dei nostri nemici, noi troncheremo i nervi alla nazione; noi le diremo che ella è impotente a continuare il suo cammino, e confesseremo agli stranieri che non possiamo fare, né faremo nulla senza il loro aiuto e beneplacito. Ma per Dio quando acquisterà l’Italia la coscienza di sé stessa? Quando ci persuaderemo che possiamo vivere, ed esistere senza che alcuno ci dia la mano e ci sorregga? Se mai lasceremo Torino per andare altrove che a Roma, noi diremo agli stranieri, voi ci vietate l’ingresso nella nostra capitale, e noi c’inchiniamo al vostro volere; voi calpestale il dritto dei Romani, e noi ci rassegniamo a tollerarvi. Ma con tanta fiacchezza non si creano le nazioni, né si rendono rispettate e gloriose.
Se per contrario con la deliberala volontà di colpire ogni buona occasione per giungere alla nostra mela, e con la calma e forte coscienza dei nostri dritti cercheremo di usare il tempo a fortificarci di armi, di buoni ordini civili, e di nuove alleanze verrà presto il ino; mento che agli amici ed ai nemici passerà la voglia di opporsi ai nostri desideri, contrastarci i nostri dritti, deludere le nostre speranze e minacciare la nostra esistenza. Solamente i buoni ordini interni ed il forte esercito, non il sorriso augusto d un Imperatore compiranno l’Italia. Io non intendo calunniare Napoleone terzo, e molto meno oserei schernirne il carattere o spregiarne l’amicizia, ma penso che una nazione pregiando pure l’amicizia altrui, debba aver la coscienza ed il potere di farne anche senza.
Alcuni parteggiatori della opinione del trasferimento van dicendo ancora che essendo Napoli la parte, ove gli stranieri più minacciano l’unità politica d’Italia, insediandosi qui il governo del Re, sarebbe come una mentita ed una sfida lanciata ai nostri nemici palesi ed occulti. Così quei consiglieri della paura diventano ad un tratto virili ed ardimentosi. Ordinariamente l’ardire dei paurosi è più funesto della loro stessa paura. Ma a dogni modo non sarà più splendida la smentita, e più terribile la sfida, se, rimanendo ove siamo, e come siamo, affermeremo con virile costanza che non andremo, se non a Roma? Continuando ancora Napoli ad esser fedele e tenersi affezionata, com’è, alle altre province italiane senza che sieno accresciute le quistioni, i garbugli e i disordini dell’amministrazione con un immenso dislocamento di uomini e di cose non ne saranno più confusi, e vinti, ed atterrili i nostri nemici? E finalmente quando si ha un esercito, come il nostro, forte di 300 mila uomini, un Re, che si chiama Vittorio Emmanuele, e senno e costanza, quanto n’ebbero gl’Italiani fin ora, non si de; ve temere di nessun nemico, o padrone straniero, né di defezione paesana. E da osservare inoltre che tutta la stampa nazionale, e forestiera amica d’Italia ci dissuade dal prendere questo pericolosissimo partito, il quale, se per verecondia o per malizia si chiama provvisorio, non può essere altrimenti, che diffinitivo. Imperocché, se insediatosi qui il governo si andrà bene, ed allora sarà inutile aver Roma, ed i papaleschi avranno più valide ragioni per negarcela; se poi si andrà male, sarà impossibile a camminare innanzi, quando saremo trascinati indietro. Giù sanno benissimo municipali e clericali, e facendo gli spasimati d’amore per l’unità d Italia, vanno subbiando in tutti ì tuoni e modi quel loro famoso trovalo. Ma anche questa volta il senno degl’italiani trionferà degl’incauti amici, e degli astuti nemici.
Da ultimo l’amore della dignità delle S. V. e del nome Napoletano mi spinge ad esporre un altra considerazione. Pei Napoletani la quistione del trasferimento della capitale è delicatissima, e facilmente può parere mossa da’ particolari interessi. Or io son certo che nessuna delle S. V. vorrà farsi l’iniziatore di una proposta, che potesse dai nostri concittadini farci sospettare di poca generosità, e di smisurate orgoglio. Le S. V. sanno benissimo che, se Napoli ha fatto grandi sacrifizi unendosi alla gran patria Italiana, ha pure guadagnato il francarsi dai Borboni, e l’avviamento ad un prosperissimo avvenire. E poi d’altra parte ha arrecato, fa d’uopo ricordarlo a noi stessi, per la sua condizione politica e pel modo, come compì la sua unificazione, gravi imbarazzi, e danni al giovine Regno d’Italia. Ma io spero che non verrà mai il giorno, in cui si terrà ragione del bene o del male che ciascuna provincia abbia fatto alla nazione.
Che se poi quella proposta venisse messa innanzi dalla presente amministrazione, oh allora tanto più tostamente rigettatela: senza pure discuterla voi potrete giudicarla. Quel pover uomo del Rattazzi ha la strana ventura di riuscir sempre al punto opposto a quello, a cui mira coi suoi espedienti: è questa la sua storia dal 1849 fin oggi. Non l’aiutale a proseguirla: l’ultima pruova potrebbe costarci più cara di ogni altra precedente.
In quanto a me io so di aver trattato un delicatissimo argomento, e che mi procurerà certamente il biasimo di alcuni, i quali crederanno, o mostreranno scorgere in queste mie parole un segno di poco affetto per la mia patria. I meschini di spirito mi daranno del piemontese per la lesta con quello stesso tuono, come si darebbe del clericale e del borbonico. Ma io stimo mia patria l’Italia; e mi ricordo che quando in quel memorando giorno del 21 ottobre 1860 deposi il mio voto nell’urna, e volli l’unità d’Italia, ebbi, come la maggioranza dei miei concittadini, la piena coscienza che per compiere quell’opera grandiosa bisognava anteporre a Napoli l’Italia, e che qualunque più grande sacrifizio sarebbe stato un nonnulla rispetto al grandissimo bene, desiderato vanamente da 15 secoli, e pel quale migliaia di martiri spensero impavidi le loro nobili vite. Credo che questa sia una delle occasioni, nelle quali ci è uopo mostrare come la nostra volontà di allora fu chiaramente e coscienziosamente deliberata, e che presentemente, come allora, l’opinione mia sarà pure conforme a quella della maggioranza. Ed infine la coscienza di aver adempito al mio dovere ed aver detto la verità, benché dura e sgradevole, mi farà sorridere del clamore dei nemici, e mi compenserà abbastanza del biasimo di quei semplici, i quali non vivono nel loro tempo.
Vivano le S. V. felicissime.
Napoli 15 Novembre 1862.
Avv. Cesare de Martinis.
LETTERA
ai deputati napoletani
NAPOLI
TIPOGRAFIA ALL’INSEGNA DEL SALVATOR ROSA
SALITA S. POLITO N. 66
1862
fonte
https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1862-del-trasferimento-della-capitale-lettera-2019.html
Interessante la lettera pubblicata a Napoli, (novembre 1862) e indirizzata ai deputati napolitani nel parlamento a Torino, tendente perciò a fare opinione in luogo che li rafforzasse se avevano qualche dubbio, perché l’interesse dell’autore, forbito e ben mascherato, era sicuramente Roma, dove c’era ancora un Papa re da scalzare, come era il disegno segreto della massoneria, che oggi conosciamo benissimo… Quando si è venduta la propria libertà di pensiero ad altri interessi, ritenuti superiori, non c’è amor patrio che regga…la scala di valori cambia totalmente! Successe allora, e succede anche oggi ai vertici di quella che ci dicono sia la beneamata repubblica italiana… Il concetto di “patria” sembra smarrito totalmente, e dai vertici in primo luogo, ovviamente per interesse! ma il popolo se consapevole delle sue radici non le dimentica…e non si rassegna! E’ caduto nel tranello, ma coltiva il sogno di essere ancora se stesso.