DELLA MEMORIA
Forse è la mia capacità sempre più fievole di ricordare che mi ha fatto occupare in modo sempre più intenso della Memoria, della sua natura e significato, della sua struttura interna, che mi fa usare i ricordi in modo sempre più frequente. L’invecchiare lo comporta: tendono ad emergere ricordi lontani e a scomparire i recenti, la “memoria corta”. Ci vedo un mio vantaggio nel perdere la corta e guadagnare la lunga, dal momento che la mia storia passata è molto più vasta della recente (e il futuro temo non l’aumenterà di molto) e che imparo più dalla lezione del passato che dal quotidiano.
Forse non s’impara niente da nessuna delle due, ma il passato, pieno com’è di dignità e autorevolezza (così lo rende la memoria appunto), mi sembra più “eroico” per quel manto di fascino che gli deriva dal tempo che depura, assolutizza le vicende passandoci sopra una invisibile “vernice a finire ”che gli conferisce quell’aura che io, pur sapendo deformante, accetto e amo.
Del resto, se è questo ciò che si è depositato su noi, per selezione naturale della nostra indole, del nostro carattere, del nostro meccanismo di rimozioni e difese, questa è anche la realtà così come vogliamo ricordare che sia stata, la nostra realtà, la realtà tout court.
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Asor Rosa nel suo “La luce del crepuscolo” parla di ricordare come attendere, cioè stare fermi, come se ci dovessimo ormai aspettare dal resto del mondo gli eventi a cui noi non vogliamo, non possiamo dare più nessun contributo, in un crepuscolo in cui “le ombre si allungano”, come lui dice, sulla vita. Il suo crepuscolare e molto poetico quadro non è però quello che mi ha spinto a scrivere questi racconti. Non credo neppure che l’uso del ricordo, certo più frequente nei vecchi, sia una loro esclusiva. Tutti, ad ogni passaggio epocale, ad ogni stadio di crescita, hanno l’esigenza di fissare per evocare: il passaggio dalle scuole elementari alle medie, il primo innamoramento e la prima delusione d’amore, la prima volta della chiave di casa in tasca, la nascita del primo figlio, sono alcune delle comuni occasioni di grandi ricordi, la cui evocazione serve a misurare la propria crescita, a fortificare la formazione, la conoscenza di sè, a darsi forza: e identità. E in questo senso la memoria paradossalmente è più organica ai giovani che ai vecchi, ma certo –specie per loro– non è un attendere seduti.
Il ricordo non ha necessariamente in sé neanche la connotazione della tristezza: credo che riguardi piuttosto la ricchezza interiore, l’affinamento dei sensi (che i superficiali scambiano per “malinconia”), interviene quando non ci bastano più le sensazioni derivate dalla realtà effettuale e scaviamo in noi stessi per procurarcene altre “di origine controllata” come per una difesa immunitaria; lo stimolo che ci viene dall’interno, dal nostro patrimonio di memoria, è appunto controllato, già digerito ed elaborato, omogeneo a noi e ci preserva da dolori e delusioni. Gesualdo Bufalino, nel suo “Argo in cielo” ne parla addirittura in termini “immunitari”:
«Forse coi minuti la memoria procede come corpo alle invasioni dei microbi. Appena l’infezione avvenga, saltano subito al contrattacco milioni, miliardi di globuli amici e vanno attorno al punto cruciale, lo isolano, lo sommergono, ispessiscono i tessuti fino a fargli attorno una crosta di calcare invincibile. Devo aver letto di polmoni dove, incapsulato, un focolaio resiste, muore, rinasce, praticamente eterno e praticamente impotente, dentro la muraglia cinese che lo costringe. Così per i ricordi, dico. Una forza di difesa isola i più micidiali e li lascia disarmati a dormire dentro di noi. Inattivi ma vivi. Immortali ma inerti.»
Inoltre l’alta concentrazione di materiale sensazionale contenuta nel ricordo lo rende quanto mai energetico, ne bastano piccole dosi: l’incipit o il ritornello di una canzone possono far accapponare la pelle, rimettendoci nella situazione di un ballo, un incontro, un volto, sono le prove che siamo vivi, che abbiamo sentimenti, che non abbiamo smesso di guardare il mondo con i nostri occhi profondi.
Realtà e memoria differiscono, inoltre, per l’operazione di sintesi operata da quest’ultima: sarebbe impossibile una registrazione mnemonica obiettiva e fedele del nostro passato, un filmato costante continuo e regolare di tutto da tutti i punti di vista; l’eccesso di razionale precisione renderebbe, al contrario, i per-realisticamente allucinante una simile riproduzione, occuperebbe lo stesso spazio della vita reale e la distruggerebbe. È per questo che mi preoccupa l’odierno assillo della ripresa a videocamera o fotocamera di ogni minuto di ogni evento: ci vedo il folle tentativo dell’esatto e completo possesso dell’accaduto oltre il tempo del suo farsi, senza affidare nulla al proprio vedere, toccare, vivere “qui ed ora” che sono i materiali su cui si costruirà poi il ricordo. Infatti non la reale ma la vicenda ricordata è quella che veramente ci contiene, quella che contiene il noi dentro quell’evento, l’evento vissuto da noi e da nessun altro, il nostro mondo reattivo e critico non video-registrabile. E se siamo stati dietro l’obiettivo non possiamo esservi stati davanti e quindi aver registrato un evento in cui ci siamo stati. Parimenti, se sono altri a “registrarci”, trattandosi di una scena di noi vista da altri, neanch’essa è il nostro evento.
Noi non ricordiamo fatti ma quadri emozionali di essi; per questo il ricordo non è la riproduzione della realtà: da essa, nell’attimo che trascorre, stiamo già estraendo il noi di quel momento, e nel tempo successivo continuiamo inconsciamente ad elaborare, sistemare, selezionare, spesso fondere fatti consimili per costruire un catalogo di “vicende esemplificative”, “ricordi-modello”, fino a formare complessi affreschi mnemonici in cui tempi e luoghi originariamente diversi sono sinteticamente congiunti in tempi e luoghi ideali. Questa magica operazione ha un’importanza enorme: rafforza i ricordi, ne definisce i contorni, li tipicizza e ne fa strumenti di riferimento del nostro pensiero critico, dà continuità e coerenza, talora significato al nostro vissuto e, ciò che è più bello, diventa la sintassi del nostro sentimento attivo. Allo stesso modo che locuzioni gergali e modi di dire pre-confezionati ci aiutano ad esprimere altro dal loro significato letterale originario, così noi interpretiamo emotivamente con questi modelli anche i nostri accadimenti successivi, prova ulteriore che la memoria non è copia del vissuto tal quale. In questa operazione la macchina del tempo passa e sfarina il passato ricomponendolo in nuovi straordinari impasti, in cui la realtà appare manipolata in ragione direttamente proporzionale alla distanza dagli eventi reali, alla massa di ingredienti consimili immagazzinati, al grado e tipo di sensibilità del soggetto.
Sono convinto essere la memoria la parte non transitoria del nostro corpo; durante la vita che scorre, non facciamo che depositare e rilasciare: mentre accresciamo il patrimonio mnemonico, perdiamo continuamente scorie materiali di noi stessi; molecole si sostituiscono a molecole in un processo di varie ricostruzioni organiche del nostro corpo durante la nostra esistenza. Se non siamo più il risultato del parto di nostra madre già un attimo dopo, cosa ci fa riconoscere come individui, cosa ci fa dire: «io sono io», in quale recesso di questa mutevole scatola risiede la continuità della nostra identità? Se non siamo dunque il nostro corpo, l’unica certezza d’essere noi stessi è il percorso stesso della nostra vita, irripetibile e non uguale o analogo ad un altro: è ciò che di essa ricordiamo, il deposito che siamo riusciti ad accumulare nel labirinto di Mnème costruitoci intorno come il ragno la tela; ciò che delimita la nostra identità sono i miliardi di operazioni sinaptiche che dinamicamente compongono l’archivio della nostra storia.
Paradossalmente le uniche invarianti del nostro corpo – il DNA e le impronte digitali, rispettivamente certezza per la Scienza e per la Polizia – non costituiscono nessuna delle due l’identità dell’individuo, ciò in cui egli esistenzialmente si riconosce; per trovarla egli scava continuamente silenziosamente, inconsapevolmente nei meandri della sua memoria i reperti dei codici di riconoscimento di se stesso,le mappe delle proprie scelte, il diagramma di flusso del proprio destino compiuto.
Noi siamo il passato che ricordiamo. E continuamente auto-costruiamo il nostro individuo-fabbricato coi mattoni dei nostri ricordi, talché il passato, quanto più lontano è, tanto più ci sembra perfetto poiché la più lunga elaborazione comporta un’assimilazione al noi di ciò che depositiamo, diventa nostro e lo accettiamo perché è noi.
Sarebbe affascinante – ad averne l’abilità – seguire le fasi evolutive della formazione della memoria a partire dall’accidente reale: le trasformazioni, i collegamenti con il resto del deposito, le riclassificazioni del tutto. Ogni elemento nuovo per integrarsi provoca infatti una mutazione della struttura precedente, come se ogni nuovo mattone per potersi collocare al suo posto, obblighi ogni volta il fabbricato a scomporsi e ricomporsi, includendolo in una nuova coerente unità. Questo mi ricorda tanto il «metodo di Kross» usato prima dell’informatica nel calcolo dei telai degli edifici in cemento armato; esso era basato essenzialmente su una ciclica redistribuzione delle tensioni ai nodi: ad ogni passaggio di approssimazione la struttura subiva le mutazioni corrispondenti alla temporanea assegnazione, fino all’equilibrata distribuzione finale.
Non solo gli accadimenti reali comportano variazioni nella struttura del patrimonio mnemonico, ma anche la loro stessa successiva evocazione: tirar fuori dei volumi da una biblioteca, leggerli e poi rimetterli a posto non lascia indifferente i libri, la biblioteca e noi stessi; le parole lette non sono più le stesse, perché contengono, come in una sovra-registrazione, anche il percorso degli occhi che le hanno scanzionate, le labbra che le hanno compitate, i polpastrelli che le hanno scorse, l’averne capito o meno il significato, l’averle godute o sofferte. Sfido chiunque, scorrendo i dorsi dei libri allineati nella propria libreria, a non concedere soste diversificate a seconda di ciò che nei rispettivi libri ha lasciato nel tempo, del rapporto che ha instaurato con alcuni più che con altri. Allo stesso modo i ricordi non diventano tutti uguali per sempre, ma si diversificano, grazie anche all’opera delle successive evocazioni, integrazioni, usi.
Forse ciò che mi ha spinto a scrivere questo libro è l’evocazione attiva, attivante; credo che, man mano che passa il tempo, la nostra “biblioteca”, a parità di numero di libri, diventa sempre più potente incapacità evocativa. Quando vi avremo trasfuso tutto il nostro vissuto, essa diventerà noi stessi, ciò che di noi rimane alla fine. Stadio affascinante ma, mi auguro, per me prematuro.
Provo adesso a fare impietosa pulizia di abusati termini: memoria comune e memoria collettiva: nego che esista la prima e che la seconda sia propriamente ‘memoria’. La circostanza secondo la quale masse anche cospicue di ricordi siano comuni a più individui non significa che si formino memorie individuali identiche o anche simili tra loro e tanto meno che si formi una “memoria comune”. Che gli eventi costitutivi di quei depositi siano gli stessi non è sufficiente a fare il miracolo di più memorie identiche, di una memoria comune; la diversità sta nelle persone che sono diverse e nel modus con cui il materiale di base viene diversamente trattato.
C’è da sorprendersi di quante siano le strade che gli accadimenti prendono nel ricordo di ciascuno: io e mio fratello Michele abbiamo vissuto nella stessa famiglia per oltre trent’anni, differiamo di soli tre anni e, dunque, attingiamo alle stesse vicende-base, abbiamo avuto le stesse abitudini, amato gli stessi genitori, ecc., ma le costruzioni dei rispettivi depositi mnemonici non sono uguali; se dovesse egli scrivere il suo “Interno studio” a commento di quella stessa fotografia mi svelerebbe meravigliosi ricordi e sensazioni a me sconosciute. La storia di un’altra foto me ne dà conferma, quella del padre di Francesco Barra(siamo negli anni ‘50, Consiglio Provinciale di Avellino, suo padre Enzo: presidente, il mio: capo dell’opposizione); non ero presente né io né mio padre, ma quell’istantanea ugualmente mi riporta alle persone, ai quadri, agli arredi, agli oggetti delle stanze del potere che tante volte avevo… Quella foto la consegnai poi a Francesco Barra per scoprire che condividevamo i medesimi ricordi, ognuno dal punto di vista del proprio padre: due verità opposte e vere entrambe. Questo è il fascino della memoria: mai uguale, mai registrazione supina di eventi: l’elemento-base dell’accadimento reagendo con mondi interiori diversi produce ricordi diversi. Francesco Barra avrà percorso da ragazzo le stesse vicende, gli stessi ambienti, sentite le stesse storie dal padre ma ne ha ricavato un altro film… È addirittura affascinante questa diversità, il verificare come la stessa vicenda sia diversamente registrata e diversamente confezionata; raccontate a un estraneo non rivelerebbero ormai neppure gli elementi comuni di partenza.
Così il chiedere ad altri:– Raccontami la mia storia! – ci svelerebbe il noi visto da altri, le cose che ci sono passate sopra senza lasciare quella traccia che hanno lasciato in altri.
Neppure si può parlare di memoria collettiva, quella che enfatica-mente si attribuisce a un popolo, quella che più tecnicamente si chiama ‘Storia’: essa non è la memoria individuale gonfiata come un palloncino. Ogni individuo ha due modi di ricordare: quello personale e quello collettivo o culturale. Il primo è ciò di cui stiamo qui discorrendo. Il secondo è quello da cui ricaviamo il senso di appartenenza alla comunità in vari gradi (famiglia, gruppo, paese, Paese, ecc.); esso ci viene da un complesso mnemonico che solo in piccola parte è diretto, ma è prevalentemente mediato, nel senso che il materiale-base ci viene da fonti a vario grado di elaborazione cosciente e razionale: si può trattare di testimoni oculari (i partigiani o i fascisti per le vicende del secolo scorso), di storia orale (resoconti di testimoni oculari tramandati di bocca in bocca, da generazioni a generazioni), di documenti originali(il bollettino della Vittoria di Diaz, il Concordato Stato-Chiesa); puòtrattarsi, ancora, di cronache, di storie, o della Storia degli storici, cioè della versione o versioni ufficiali che interpretano le fonti, le cronache, le storie e le compendiano trafilandole talora attraverso lo schiacciapatate della cultura dominante o peggio del vincitore.
Questo deposito culturale rimane fuori dalla complessa elaborazione che presiede alla memoria individuale, poiché si sostanzia di materia memorizzata con la ragione, la quale viene collocata in altriscomparti della nostra mente. Ciò non significa che la memoria collettiva non si modifichi, ma ciò dipende dall’evoluzione della nostra educazione, dal nostro bagaglio culturale e dalle nostre convinzioni ideologiche, tutti fattori strutturalmente evolutivi, ma non organici ed esistenziali. Tra l’altro, il modus evolutivo va, a differenza di ciò che abbiamo visto per la memoria personale, per aggiunzioni ed integrazioni temporali semplici: ogni implementazione si incastra al posto giusto dell’”archivio” e non mette in discussione l’intera struttura. Le revisioni, se ci sono, vengono indotte dall’esterno (da noi o da altri)con una decisione consapevole e ragionata.
Chi crede che nella memoria collettiva ci siano valori della stessa substantia di quella personale confonde uno stimolo emozionale con un processo storico: Sandro Pertini, Che Guevara, Papa Giovanni, John Kennedy, quando entrano nella nostra memoria emotiva non lo fanno in quanto elementi di memoria collettiva, cioè quali personaggi storici – e dunque patrimonio disponibile per tutti – ma in quanto idealizzazioni spontaneamente acquisite al nostro “archivio personale”, innesco esterno dei sogni che dormono dentro di noi; entrando per questa porta essi vengono assimilati ai nostri modelli morali: il padre o quello che avremmo voluto avere o essere, il fratello maggiore, il capo che avremmo voluto avere o essere: idola interni formatisi in precedenza, in anni di sedimentazioni che trovano spesso un volto, una figura reale di cui sostanziarsi. Il fatto che questi personaggi siano spesso idoli per masse enormi di persone non autorizza a parlare, ancora una volta, di memoria collettiva; ciò che unisce queste masse non è la memoria ma il modello derivato dalla condivisione di una ideologia o indotto dal sistema mediatico. Quei personaggi storici fanno un’altra strada dentro di noi che non quella della memoria, talora nessuna se è vero che molti giovani con le magliette o addirittura tatuaggi raffiguranti il “Che” ignorano chi egli sia storicamente stato.
Esiste dunque un qualcosa in cui risiede l’identità collettiva? Esiste sì un deposito culturale attivo e razionale, storico non mnemonico: l’antropologia culturale può spiegare, a questo proposito, la funzione dei rituali al fine di conservare l’identità culturale. Rituali, cioè mediatori esterni, mentre nei processi mnemonici individuali le ritualizzazioni sono operazioni spontanee tutte interne a ciascuno di noi,sono la memorizzazione stessa.
Nel fallace sforzo di comparare la memoria collettiva e quella personale, qualcuno ancora ha cercato altre analogie tra l’uomo e la comunità. Da una parte si afferma: “Più un uomo invecchia, più fa ricorso al patrimonio mnemonico, decidendo di chiudere con la vita”, dall’altra: “ Più un popolo fa testimonianza delle proprie radici e de lproprio passato, più si avvicina alla decadenza ed alla estinzione”.
Premesso che non è possibile un parallelo tra cose che ho dimostrato avere natura diversa, analizziamo comunque i due casi. La prima affermazione può essere vera in sé, nei casi estremi in cui la memoria è usata dal vecchio come strumento di eutanasìa nel senso etimologico di ‘bel morire’. Invece in Borghes, ad esempio, si accelera e si definisce il ruolo della memoria personale come parte cospicua dell’essere, e in Norberto Bobbio diventa importante il carattere di reciprocità della memoria (l’allievo che lo ricorda, egli che ricorda persone care, come ha detto nell’ultima sua intervista); in tutti e due questi ultimi casi citatisi tratta di un modo diverso di voler vivere, non di morire.
Quanto alla seconda affermazione, non mi pare che siano i popoli in estinzione ad accentuare la difesa della loro storia e della loro identità: al contrario, lo hanno fatto ad esempio i negri, gli ebrei, i palestinesi, i curdi, proprio nei momenti del loro riscatto, proprio come strumento di reazione all’estinzione e si è rivelata sempre un’arma vincente. Al contrario, se guardiamo all’abbandono del nostro patrimonio storico-architettonico, cioè al momento di maggiore oblìo per il nostro passato, esso coincide con la perdita d’identità delle nostre città, con le pratiche e le mode mutuate da altri popoli: siamo nel caso più classico di decadenza. L’oblìo culturale e di identità nazionale degli emigranti non a caso è coevo al caos edilizio nelle loro città d’origine, spesso alimentato dalle loro stesse rimesse di capitali: e di mode.
Mi soffermo su quanto non condivido del saggio sulla memoria che Asor Rosa premette al suo libro: “La luce del crepuscolo”, per esempio a proposito di memorizzare e memoria. Non credo che una poesia mandata a memoria entri nel nostro patrimonio mnemonico. Occorrerebbe distinguere con locuzioni diverse i due diversi processi: il primo del ricordare nel senso del tenere a mente, il secondo dell’ aver memoria di. Entrambe sono una registrazione, ma la prima è razionale volontaria indotta ed esterna, la seconda raccoglie l’ humus di un accadimento ed è processo non volontario, interno all’essere ,entra a far parte del sistema-essere. Inoltre, il tenere a mente, mandare a memoria non opera sintesi: non fondiamo in un’unica poesia d’amore tutte le poesie d’amore che abbiamo imparato (non avrebbe neanche senso) come invece facciamo con le vicende che diventano ricordi personali: ricordiamo il sorriso di nostro padre, il bacio di nostra madre, come concrezioni mnemoniche di tutti i sorrisi di nostro padre e tutti i baci di nostra madre.
C’è comunque da considerare una terza accezione della memoria, che chiamerei mass-mediale, oggetto di una scienza relativamente giovane, la Memetica, il cui massimo rappresentante italiano è Franco Ianneo. Nel suo libro “Meme”(ampiamente citato e utilizzato in questo libro) egli analizza il modo, analogo a quello dei virus biologici e informatici, secondo il quale bit di memoria si diffondono nel sistema mnemonico individuale, insediandovisi inconsciamente, sicché alcune informazioni passano senza controllo critico da uno all’atro dei soggetti fino a formare tendenze, convincimenti e desideri indotti che noi fallacemente riconosciamo come nostri. È ciò che fa la pubblicità, specie quella ad alto contenuto subliminale. Non è la sede per analizzare questo inquietante aspetto della memoria, ma esso rappresenta un reale pericolo di infezione del nostro patrimonio mnemonico e quindi della nostra identità. Ma neppure questa è la nostra memoria.
Un’ultima divagazione, rispondendo ad un mio stesso vecchio quesito circa l’esistenza o meno della memoria negli oggetti o nei luoghi. Mi sono sempre risposto di sì, e molte di queste pagine sono intrise ditale non provata ipotesi. La tradizione o la leggenda individuano alcuni luoghi – luoghi sacri, centri storici o città intere – come scenario di eventi straordinari o ancestrali; è in essi che risiede quello che si chiama il “genius loci”. Essi sono il fondamento dell’identità della gente che vi si riconosce, essendovi accaduta la storia tramandata: e questa circostanza li trasforma in fonti di emozioni. Non si spiegherebbe altrimenti la differenza evocativa tra un ambiente in cui siano vissute delle persone per secoli e una sua perfetta copia, nel set di un film ad esempio. Molti registi cercano i luoghi della realtà vera perché gli attori entrino empaticamente nella parte. È quel che fa diverso, ad esempio, “Il nuovo cinema Paradiso” da altri film anche eccellenti costruiti negli studios. Mario Martone, per le riprese del suo episodio “La salita” nel film collettivo “I vesuviani” mi chiese di scegliergli luoghi veri del Vesuvio: e girò tutto lì dalla prima all’ultima scena, costringendo gli attori (e se stesso) ad una vera e propria full immersion nell’habitat vesuviano. Ne uscirono diversi, compreso lui stesso e Toni Servillo.
Parimenti, le leggende metropolitane sui luoghi misteriosi hanno spesso qualche fondamento. Gli oggetti o i luoghi ritengono in certo modo qualcosa del “vissuto”, accumulando un proprio patrimonio di ricordi. Cosa spinge i vecchi a resistere nei luoghi della loro vita vissuta a fronte di vantaggi materiali e salutari altrove? L’abitudine? Mi sembra troppo poco. Perché la nipote indossa la collana della nonna, il nipote l’orologio del nonno e, più in generale, perché si cercano e s’indossano abiti altrui? Certo per un piacere di assorbire qualcosa che vi è contenuto, per innescare un processo di identificazione o di possesso. I bambini lo fanno normalmente, calzando le scarpe dei genitori o indossandone gli indumenti: sono gli adulti che traducono in termini comici questa pratica, ma i bambini sono serissimi e ci ridono solo dopo, per emulazione. Rena Mireka, l’attrice di Grotowski, durante i suoi laboratori, vietava assolutamente che i giovani indossassero indumenti dei più anziani, perché carichi di vissuto troppo pesante, vietava di scambiarceli comunque, perché si era in un lavoro in cui occorreva tutta l’energia. Anche il rubare oggetti, talora di scarso valore, può contenere aspetti che riportano ad un tentativo di possedere, entrare in contatto con: è quella che in fase parossistica si chiama cleptomania.
L’attrazione per gli oggetti o luoghi, consapevole o meno, funziona dunque da eccezionale deterrente mnemonico. Come delle vicende, anche di luoghi e cose si ciba la nostra memoria: in una magica transustanziazione inversa, da materiale l’oggetto-luogo si smaterializza, diviene della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, per dirla con Pessoa, si assimila a noi, diventa nostra materia mentale.
Questo tentiamo di fare per tutto il corso della nostra vita: ne ricostruiamo di continuo le parti dentro noi stessi per poi obiettivarle(cioè accettarle) in un gioco ciclico di fagìa ed eiezione, di ingoiare e vomitare. In questo incessante processo ciclico, come in un setaccio a maglie strette, rimangono depositi sempre più sottili di realtà a formare il nostro patrimonio mnemonico; altrimenti sarebbe l’alienazione, la perdita dell’identità, la follìa, l’annullamento. E noi siamo quel setaccio; guai se le sue maglie si allargano: rischiamo di non raccogliere più la fine e preziosa polvere mnemonica che ci fa vivi.
Scompariremo quando non sapremo più ricordare.