DON LIBORIO ROMANO – IL BOIA DELLE DUE SICILIE (settima parte)
DON LIBORIO ALL’ATTACCO
Da quel momento l’attività di don Liborio diventa frenetica. Con la motivazione della necessità di mantenere l’ordine pubblico chiede ripetutamente a Francesco II l’aumento dell’organico della guardia nazionale di Napoli, recentemente istituita, che diventa, rinforzata dai camorristi, il corpo pretoriano del ministro (da 6.000 col Del Re, con decreto del 19 luglio a 9.600, e a 12.000 dal 27 agosto). Chiede inoltre 12.000 fucili per la stessa (14 agosto): “Il 14 agosto il ministero, esponendo al Re l’opportunità ed i vantaggi d’armare la guardia nazionale, mi fece dare 12.000 fucili… intorno al quale aumento ebbi a sostenere la piú viva contraddizione da parte del Re, che, cedendo al fine alle mie rimostranze, mi disse sorridendo: “Si accordi pur questo al tribuno Romano” (L. Romano, Memorie politiche). Per un po’ di tempo ancora, però, le sue azioni sono apparentemente attestate alla piú stretta legalità, talché viene tacciato di tradimento dai suoi stessi compari di lotta politica. Ma la sua è una posizione di tentennamento o di consumatissima astuzia. Scrive di lui il Persano: “Il ministro Liborio Romano… vorrebbe e non vorrebbe a un tempo. La sua posizione l’obbliga a tentennare: non si può fare grande affidamento su lui“. Il 5 agosto Romano incontra il Nisco, che gli parla delle armi nascoste sulle navi del Persano, ferme nella rada di Napoli, da usare per un sommovimento sovversivo in favore del Piemonte. Alla fine dell’incontro don Liborio acconsente: “Ebbene, sono con voi” (Nisco, riportato da Ghezzi). Vengono scoperte pseudocongiure in cui si arrestano molti oppositori del governo costituzionale fedeli al Re, tanto che Francesco II ironizza sulla di lui “bravura”. Intanto gli eventi precipitano. Il 20 agosto il filibustiere nizzardo è sbarcato in Calabria con i suoi 23.000 piemontesi e con la sua legione ungherese. Il Romano ne estrapola già le conseguenze prossime venture. Lo stesso giorno scrive al Re un memorandum, che i colleghi di gabinetto rifiutano di sottoscrivere. In esso il Romano, dopo essersi dichiarato profondamente devoto alla dinastia e al paese, dipinge al Re una situazione catastrofica circa la tenuta dell’Esercito e della Marina, fa intravedere una lunghissima e sanguinosa guerra civile in cui, anche se arridesse la vittoria, questa sarebbe peggiore della sconfitta, quindi propone al Re di allontanarsi senza combattere. Leggiamo al riguardo l’intelligente commento che ne ha dato la Pellicciari (L’Altro Risorgimento, edizione Piemme, pag. 247): “Da chi è tradito Francesco II? innanzi tutto dal re di Sardegna, suo cugino, poi dal ministro dell’interno Liborio Romano che lo convince a lasciare la capitale senza opporre resistenza. Con quali argomenti il ministro dell’interno induce il sovrano a compiere un vero e proprio suicidio, un gesto insensato dal punto di vista politico? Con l’appello al cuore di Francesco, al suo attaccamento alla città di Napoli, all’amore per il suo popolo e per la religione cattolica. E succede l’incredibile: il giovane re lascia il campo senza combattere per risparmiare ai napoletani la guerra e a Napoli la distruzione“. Ecco il memorandum-ipocrisia del Romano: “Sire, Le circostanze straordinarie in cui versa il paese e la situazione gravissima nei rapporti ed esterni ed interni, che ci è fatta dagli imperscrutabili disegni della Provvidenza, ci impone i piú alti e sacri doveri verso la M.V. di rassegnarle libere e rispettose parole, come a testimonio solenne della devozione profonda alla causa del trono e del paese (e intanto la notte va a prender ordini dal Persano e sta in intelligenza col Cavour, ndr). Affermiamone gravissima la situazione ed eccone la dimostrazione … alle interne difficoltà inestricabili si aggiungono le gravissime complicanze esterne. Noi ci troviamo in presenza dell’Italia, che si è lanciata nelle vie della rivoluzione col vessillo della Casa di Savoia, il che vuol dire con la mente ed il braccio di un governo forte, ordinato e rappresentato dalla piú antica dinastia italiana. Ecco il pericolo e la minaccia che si aggrava fatalmente sul governo della M.V.. Né poi il Piemonte procede isolato e spoglio d’appoggi. Le due grandi potenze occidentali, la Francia e l’Inghilterra, per fini diversi stendono l’una e l’altra il loro braccio protettore al Piemonte: Garibaldi evidentemente non è che lo strumento di questa politica, oramai palese. Poste tali condizioni, esaminiamo quale sarà la via da tenere, perché sia salvo l’onore, la dignità e l’avvenire della augusta dinastia, che la M.V. rappresenta. Pongasi l’ipotesi della resistenza ad oltranza. Confessiamo innanzi tutto alla M.V. che le forze di resistenza a noi appariscono svigorite, mal sicure e incerte. Che assegnamento farà il governo della M.V. sulla R. Marina, la quale, diciamolo con franchezza, è in piena dissoluzione?(grazie alle mene del comandante in capo, lo zio del Re, ndr). Né maggior fiducia potrebbe ispirare l’esercito, che ha rotto ogni vincolo di disciplina e di obbedienza gerarchica e però inabile a guerra ordinata (una menzogna! la disciplina e la tenuta dell’esercito si vedrà sul Volturno e a Gaeta). Quale dunque dei capi dell’armata oserebbe in buona fede assumerne la responsabilità?… Poniamo pure il caso della vittoria momentanea dell’esercito del governo. Sarebbe questa, o Sire, ci si permetta il dirlo, una di quelle vittorie infelici, peggiori di mille disfatte. Vittoria comprata a prezzo di sangue, di macelli e di rovine; vittoria che solleverebbe la universale coscienza dell’Europa, che farebbe rallegrare tutti i nemici della Vostra Augusta Dinastia e che forse aprirebbe veramente un abisso tra essa e i popoli affidati dalla Provvidenza al Vostro cuore paterno. Rigettando adunque come a noi pare nell’onestà della nostra coscienza, il partito della resistenza, della lotta e della guerra civile, quale sarà il partito saggio, onesto, umano e veramente degno del discendente di Enrico IV? Quest’uno noi sentiamo il dovere di proporre e di consigliare alla M.V.: che la M.V. si allontani per poco dal suolo della reggia dei suoi maggiori(cioè i suoi padri, ndr), che investa d’una reggenza temporanea un ministero forte, fidato, onesto a capo del quale sia preposto non già un principe reale, la cui persona per motivi che non vogliamo indagare, né farebbe rinascere la fiducia pubblica né sarebbe garentia solida degli interessi dinastici; ma bensí un nome cospicuo, onorato, da meritare piena la confidenza della M.V. e del paese. Che distaccandosi la M.V. dai popoli suoi rivolga ad essi franche e generose parole, da far testimonio del suo cuore paterno, del suo generoso proposito di risparmiare al paese gli orrori della guerra civile… Eccole, o Sire, il partito che noi (cioè lui, ndr) sappiamo e possiamo consigliare alla M.V. con franchezzza di coscienza onesta… Che se per disavventura V.M. nell’alta sua saggezza non istimasse accoglierli (i consigli, ndr) a noi (cioè a lui, ndr) non rimarrebbe altro partito che rassegnare l’alto ufficio di che la M.V. onoravaci, riconoscendo mancata a noi la sovrana fiducia. Napoli, 20 agosto 1860 – Liborio Romano”
UN RE GIOVANE E PATERNO
Il Re – come ricorda il Nisco – rimase di sasso. Noi diciamo che il Re, se non avesse avuto “cuore paterno“, avrebbe dovuto far fucilare all’istante, per alto tradimento, quel ministro e tutto il gabinetto, perché chiaramente il documento, pur dai ministri all’ultimo istante non sottoscritto, ne metteva in evidenza la collusione col Romano, che si esprime a nome di tutti. Il memorandum era stato cosí concepito perché il Romano si aspettava che tutti i suoi compari gettassero la maschera e ponessero il Re davanti al fatto compiuto. Al Re si erano aperti finalmente completamente gli occhi: “I traditori, pagati dal nemico straniero, sedevano nel mio Consiglio, a fianco dei miei fedeli servitori; nella sincerità del mio cuore non potevo credere al tradimento” (8 dicembre, da Gaeta, Manifesto ai popoli delle Due Sicilie). Il 1° settembre anche Pianelli, ministro della guerra, in collusione col Romano, consiglia al Re di abbandonare Napoli. Il Re chiede consiglio ai suoi esperti militari. Anche costoro sono dello stesso avviso. Il Re fa mettere tutto per iscritto. Subito dopo tutti i ministri danno le dimissioni e lo lasciano completamente solo con i gravissimi problemi del momento. Il tradimento è giunto all’atto finale, consummatum est. Il Re le accettò, ma li pregò di sbrigare gli affari correnti in attesa delle nuove nomine (Giornale costituzionale, 3 settembre). Il giorno dopo, dopo che un consiglio di generali ebbe dichiarato impossibile la resistenza al Garibaldi in quel di Salerno, il Re decise la partenza per Gaeta, per difendere il Paese, le ricchezze, l’onore, le case, la Patria. A don Liborio, al diabolico ministro, rivolse le ultime parole “don Libò , guardateve ‘o cuollo“, cioè se torno, ti faccio la festa. Qualcuno dei fedeli piangeva. Il Re rivolto a tutti esclamò : “Voi sognate l’Italia e Vittorio Emanuele, ma sarete infelici“. E cosí è stato ed è. Appena partito il Re per Gaeta, 6 settembre, il nizzardo, avvisato dai soliti compari, cosí telegrafò da Salerno a don Liborio: “Sig. Ministro dell’Interno e della Polizia – Napoli – Appena qui giunge il Sindaco (il principe di Alessandria, ndr) e il Comandante della Guardia Nazionale di Napoli (De Sauget, ndr) (altri due traditori, ndr) che attendo, io verrò tra voi. In questo solenne momento vi raccomando l’ordine e la tranquillità, che si addicono alla dignità di un popolo, il quale rientra deciso nella padronanza dei suoi diritti. Il Dittatore delle Due Sicilie – Giuseppe Garibaldi” Ecco la incredibile, anche se in sintonia col personaggio, risposta del Romano: “All’invittissimo General Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie. Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutarla il redentore d’Italia e deporre nelle sue mani il potere dello Stato e i propri destini. In questa aspettativa, io starò saldo a tutela dell’ordine e della tranquilllità pubblica. La sua voce, già da me resa nota al popolo, è il piú grande pegno del successo di tali assunti. Mi attendo ulteriori ordini suoi e sono con illimitato rispetto, di lei, Dittatore invittissimo, Liborio Romano.” Quello scritto fu la pietra tombale che sancí, con la piú criminale delle impreveggenze e col tradimento piú becero, la morte delle Due Sicilie e l’inizio della tragedia del popolo duosiciliano. “Un popolo che esprime dal suo seno governanti di tale carattere…ministeriale non può andare incontro e non può essere “docile” che alla servitú, anche se il capo dello Stato ne difende l’indipendenza” (Renato Di Giacomo, Il Mezzogiorno dinanzi al terzo conflitto mondiale).
fonte
brigantaggio.net