Due zampognari molisani morti a Napoli durante il colera del 1836 Due zampognari molisani
Nel 1837, Giovanni Emmanue le Bidera pubblicò un libro contenente una serie di racconti che narravano alcune vicende legate all’epidemia colerica che aveva colpito Napoli l’anno precedente. Alle pagine 174-176 dell’edizione stampata a Napoli «a spese di Raffaele De Stefano», l’autore incluse la storia di due zampognari molisani (padre e figlio) che, recatisi a Napoli per le novene di dicembre, si ammalarono e morirono.
Gli sfortunati protagonisti della vicenda – di cui Bidera non riporla i nomi – erano due rappresentanti dell’antica tradizione zampognara dell’arca matesina, che ancora oggi conta suonatori attivi in località come San Polo Malese e Bojano.
Il racconto è intitolato I due zampognari e all’interno del libro è cronologicamente collocato alla data del 2 dicembre. Lo stile narrativo di Bidera non è granché e denuncia la sua datazione, tuttavia nel finale riesce a trasmettere una delicata aura di tristezza.
Il racconto.
«Un padre ed un figlio di una istessa fisonomia, ma una rappresentante la florida giovinezza, l’altra il tramonto della virilità; sicché se ad un pittore fosse venuto talento dipingere qual, diverrebbe il figlio nell’età di cinquanta cinque anni , avrebbe presa a modello la testa del padre , e se quella del padre nell’età di diciotto anni, avrebbe potuto prendere quella del figlio: ma belle entrambe, di bianchi rari capelli adorna l’una, di biondi e folti l’altra; serene fronti e schiette, severi ma leali costumi, educazione sannita che il perenne piovere de’ secoli non avea potuto sfregiare.
Tali erano i due Zampognari, che dando un addio alla loro famiglia, discendevano l’erta dell’antica Bojano oggi piccolo paese, e già un tempo capita le del Sannio. Giunti al piano il giovinetto si rivolse, e sull’alta rupe vedea da lungi ancora il rosso grembiale della sua fidanzata come una bandiera sull’alto di un Castello, e si diedero col cuore e l’estremo addio. Per la lunga strada ora venivano atterriti per la invasione del Colera in Napoli, ora rincorati a proseguire il loro cammino dalle varie dicerie di avvelenamenti, e non di peste a cui il governo avea provveduto di già; ed ecco nel terzo giorno del loro viaggio da Capo di Chino la grande Città fare ai loro sguardi pomposa mostra degli alti suoi palagi, e delle superbe cupole: e giulivi, affrettano il passo; ma giunti al grande Ospizio dei poveri, si incontrano con altri loro paesani che fuggono dall’infelice Città: E perché ven tornate voi? – E perché voi venite? Napoli è in lutto: noi fuggiamo dall’ira di Dio … qui vi è il Colera; e partono. Ristanno gli affaticati dal lungo viaggio, si guardano smarriti, uno attende il cenno dell’altro. Il padre a suo mal grado dopo aver meditato disse: Torniamo indietro: non fece motto il misero figlio, e lo seguia; ma il vecchio vide che gli spuntavano le lagrime, ed appoggiando ambo le mani al bastone, che servia di puntello a lutto il corpo: Ebbene, gli dicea un anno più, un anno meno è l’istesso. La tua fidanzata, se ti ama, aspetterà E torneremo noi con le mani vuote alla misera madre, a mia sorella, a’ miei piccoli fratelli? Il vecchio riflette alle bisogne di sua famiglia, e poi rispose: Figlio, i miei anni sono passati; se tu non temi, andiamo in nome del Signore: ed eccoli alle porte dell’avvelenata Città: suonare le zampogne innanzi la Madonna delle Grazie al largo delle Pigne in ringraziamento del compito viaggio, e poscia pensierosi, e stanchi passare per quelle strade già popolose e gaie ed ora meste, giungere in una locanduccia a Fontana dei Serpi e prendere il solito alloggio. In una grande stanza terrena con pochissimi compagni accesero in mezzo ad essa il fuoco, e dopo vari racconti del fulminante Colera andarono a coricarsi sopra un misero pagliericcio. L’indomani secondo il loro costume fecero un giro come due rondinelle per le varie abitazioni; e poche delle antiche clientele rimanevano a loro, poiché a chi era morto il marito, a chi il figlio, e a chi il fratello: ma si confortarono di acquistare delle nuove per la mancanza di zampognari. Ritornati la sera alla stessa locanda ritrovarono tra una folla di gente un loro compagno morto di Colera, e andarono a dormire altrove.
Il giorno due decembre innanzi la dimane nell’istess’ora il padre e il figlio furono colpiti dal morbo micidiale, fenomeno prodotto forse dalla uniformità della vita, e dei cibi: e si amavano-tanto gli sventurati che l’uno per non affligger l’altro non si attentava di palesare il male che soffriva, ma in vano; ché il male più eloquente di loro si scoprì. Furono entrambi fasciati su due sedie e condotti all’ospedale di Loreto. La sedia ov’era il figlio precedeva quella del padre … Ahi! miseri! quali erano le vostre idee in quel tristissimo viaggio! Quando furono giunti il giovine seduto sul letto appoggiato come il Gladiatore ferito, guardava suo padre in viso, ed i suoi sguardi par dicessero: Chi di noi due narrerà all’abbandonata famiglia la nostra sventura? e – se moriamo tutti e due!…
Oh deplorabile condizione!
In quel desolante luogo di dolore dove cento altri lottavano con la morte, due letti vicini accolsero il padre e il figlio: essi si rincoravano a vicenda, essi si animavano a prendere le medicine, ma quando il figlio tacque, e non diede più risposta; quello sventurato padre mise un profondo sospiro, e chiuso nella sua coltre come in una tomba, quel l’anima paterna abbandonò il corpo per raggiungere ne’ regni de’ morti la dolente anima del figlio».[1]
Mauro Gioielli
[1] GIVANNI EMMANUELE BIDERA, Gli ultimi novanta giorni del 1836, ossia il colera in Napoli, racconti di G. E. Bidera italo-greco. A spese di Raffaele de Stefano, Napoli 1837, pp.174-177.
Bellissimo racconto, tragico e dolente e pieno di umanità!.. purtroppo epidemie come il colera seminavano ai tempi le stragi senz’armi… non c’erano i vaccini!!.. ma oggi che ci sono non è detto che siano il toccasana assoluto… caterina