“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (VIII)
Capitolo VIII. Ernesto
Ernesto, dopo l’abboccamento avuto con la Contessa e dopo, come abbiamo veduto, essere rientrato in se stesso, stabilì di voler recedere da quella mala tresca e, profittando che le circostanze delle nuove occupazioni di che doveva incaricarsi l’avevano per diversi giorni allontanato da Erminia e preparandosi ad intraprendere un primo viaggio per conto della società rigeneratrice, stabilì di dare i primi passi pel suo matrimonio con Emilia, onde distrarsi dalla passione che avrebbe potuto in lui veramente accendersi per l’ammaliatrice Contessa.
Palesata quest’intenzione alla madre, senza però farle penetrare cosa alcuna dell’avventura accadutagli, si pose con tutta alacrità all’opera – dovendosi la sua partenza effettuare in quindici giorni ed indi ad un altro mese il ritorno – di apparecchiare le cose in modo che, parte presenziati da lui i preparativi del matrimonio, parte accuditi nella sua assenza dalla signora Martina, al suo rimpatriare avesse potuto effettuarsi; e stimava opportunissimo farlo, poiché contava all’ombra di un sacro nodo difendersi e star tranquillo per tutto il tempo della sua vita.
Però Erminia, stimolata dall’amore che nutriva pel povero Ernesto del quale era fortemente presa, avendo veduto che dopo la prima visita egli non si era più curato di andarla a trovare, prese per un completo disprezzo l’agire di Ernesto e disperata ed esasperata dall’essere in tal modo trattata, giurò in cuor suo di vendicarsi di tanta cattiva azione e di far pagare caro, assai caro, il turpe abbandono all’audace che la disprezzava.
Cominciò dall’informarsi dell’abitazione di Ernesto ed una bella mattina corse difilato a casa sua, annunziandosi alla madre ed alla sposa per una signora che poteva comandare Ernesto e che perciò gli imponeva di recarsi presso di lei, pena la sua indignazione, aggiungendo che se, non avesse obbedito, ella lo avrebbe potuto liquidare; che forse nutriva il pensiero di tradire i suoi doveri, [ma] ella avrebbe avuto tanto potere da farlo pentire e forse fargli perdere anche l’impiego che occupava.
La povera signora Martina e la ingenua Emilia, alle quali in sostanza Ernesto non aveva confidato la natura dell’occupazione, dell’impiego e degl’incarichi che riceveva, facendo loro solamente capire di trattarsi di cose commerciali, rimasero stupefatte dal tono della signora, comprendendo che di tutt’altro trattar si doveva che di commercio; ma siccome Erminia appariscente e bellissima femmina era, così più nel cuore di Emilia che della signora Martina incominciarono a destarsi dei sospetti, i quali, quantunque non giustificati da veruna cosa, perché Erminia non aveva accennato nulla del vero, pure fecero talmente conturbate il cuore e la mente della povera fanciulla, che in tutto il resto di quella giornata, fino al ritorno di Ernesto in casa, non fece altro che versar lagrime amare, non curando i conforti della signora, la quale supponendo che la giovinetta piangesse non per gelosia, ma solo per timore che suo fidanzato, stante l’aver mancato al suo dovere, potesse perdere quel poco di bene che s’era procurato, la persuadeva dicendole che ella come madre avrebbe interposta tutta le sua autorità per far sì che suo figlio immediatamente si fosse recato appo la signora la quale tanta premura addimostrava di vederlo, fomentando in tal modo vieppiù il dolore di Emilia, che invece di acquietarsi si accendeva di più e si accresceva, credendo nel suo cuore che quella signora sarebbe stata per lei una fronte di acerbi dolori.
Ernesto venne ed allegro oltremodo, poiché nel corso della giornata aveva eseguite molte incombenze delicatissime e si era meritati gli elogi di chi lo comandava, più aveva menate a compimento diverse altre cose necessarie al suo matrimonio. Emilia però vedendolo, piangendo gli disse:
– Senti Ernesto, senti ciò che deve dirti tua madre, senti la scena che poco prima ci è accaduta e vedi se per noi, e specialmente per me, ci può essere felicità alcuna a questo mondo.
– Che cosa avviene? – replicò spaventato Ernesto – Di che mai si tratta, madre mia? Ditemelo, per pietà: io veggo piangere la mia povera Emilia ed il pianto è segno che si tratta di cosa molto grave e d’importanza.
– Oltremodo d’importanza è la bisogna di cui si tratta. Qui è venuta una signora.
– Una signora!…
– Altera e superbamente abbigliata, la quale si è annunziata per una Contessa.
– La Contessa!… qui!…
– Ella sia mostrava molto adirata contro di te, poiché diceva di essere tu un uomo trascurato e non attaccato ai tuoi doveri, che hai commesso l’enorme mancanza di non recarti più in casa sua, mentre conosci tutto ciò che dessa deve farti sapere e tutta l’importanza della sua persona negli affari che tu tratti. Ha minacciato che se tu per questa sera, stante domani dovrai partire, non ti fossi recato in casa sua, avrebbe forse fatto in modo che avresti perduto il posto che ti sei per caso procurato. Figlio mio, per quanto mi ami, cessa dall’essere ingrato; io non so chi sia quella signora, ma certamente mi pare che sia una nobilissima donna, ed i nobili debbono essere accarezzati e pregati, non attaccati di fronte. Rammentati pure che erano pochissimi giorni che tu ti trovavi nel caso di precipitarti, infelice, dal Ponte della Sanità e che un caso oltremodo strano ti ha salvato da tanta disgrazia, facendoti ritrovare aiuto a protezione in chi tu stesso non conoscevi. Ascolta dunque la mia voce, recati presto presso quella signora.
– Ma…
– Non frapporre indugio, corri, corri: essa ha detto di essere più che necessario che tu vada a trovarla; non farne dunque a meno.
– Madre mia…
– Te ne prego con tutta la premura e tenerezza possibile: va, corri dalla signora Contessa, chiedile scusa della tua mancanza ed obbedisci ciecamente a ciò che dessa ti dirà. Si tratta della esistenza della tua famiglia, di tua madre, di colei che tu hai destinato fare tua sposa e per tali ragioni non si trascura cosa alcuna, ma mo’ invece tutto si mette in opera per acquistarsi sempre maggiormente l’amore e la benevolenza di chi può comandarci.
Ernesto guardò la madre, passò la sua mano nei capelli e quindi, dando un altro sguardo ad Emilia, prese di nuovo il cappello e con lentissimo passo si incamminò di nuovo verso l’uscio d’ingresso, dicendo alla signora Martina:
– Obbedirò ai vostri consigli: sì, andrò in questo momento dalla signora Contessa, ascolterò i suoi ordini e, qualunque essi siano, li eseguirò ciecamente. Non voglio essere io la cagione di novelle disgrazie alla nostra famiglia, non voglio acquistarmi la taccia di ingrato e di birbante; ma il cielo faccia – sussurrò poscia a bassa voce – il cielo faccia che questa visita non sia tale da immergere tutti nel dolore e nell’affanno il più terribile e crudele.
Giunto all’uscio di sala, si rivolse e vide Emilia che lo accompagnava con uno sguardo nel quale erano dipinti la mestizia e l’affanno, ed accostatosi a lei, le prese la mano:
– Emilia, – le disse – non temere: forse nel tuo cuore giovanile la vista di quella superba ed avvenente donna ha destato qualche timore, qualche sospetto. No, no; calma, calma i tuoi timori, da’ pace al tuo povero cuore: io sarò sempre tuo affettuoso amante e tuo sposo amoroso; scaccia i sospetti e la gelosia: qualunque donna potesse presentarsi ai miei sguardi non avrà mai la forza di strapparmi dal cuore la tua immagine che vi è ribadita da un affetto puro, santo, immacolato e prodotto in me da tutte le tue belle qualità e virtù.
Ernesto mentiva? No, in quel momento egli era animato da un’affezione a tutta prova, era spinto a dir quelle parole dal cuore, ché veramente sentiva tutto l’amore per quella giovinetta; ma però, mentre diceva quello parole, la sua ragione lo persuadeva che egli mentiva, perché quella donna che era già stata capace di farlo cadere in fallo, aveva rimasto[1] nel suo spirito uno scompiglio tale, che egli non sapeva come fare per tranquillarlo e quasi facendo forza a se stesso aveva trovato il mezzo di allontanarsi da quella donna, per non esporsi più al pericolo di essere di nuovo affascinato dai suoi vezzi e forse di perdersi interamente appresso a lei.
Emilia asciugò le sue lagrime, porse a baciare la sua mano ad Ernesto e più quieta ritornò a sedersi presso la signora Martina, persuasa che il suo amante non avrebbe in nulla mancato a tutte le promesse che in quel momento le aveva fatto ed Ernesto con animo turbato uscì per andare dalla Contessa, palpitando per sé, per Emilia e per tutti i futuri progetti di matrimonio e di felicità.
Giunto presso Erminia egli si trovava in una disposizione d’animo che non sapeva risolvere in se stesso quello che doveva fare o come comportarsi: si fece annunciare e, introdotto in quel medesimo gabinetto della prima volta, rimase stupefatto di trovare quella donna, così ardita e superba, in una toletta che ne mostrava l’avvilimento ed il dispiacere: dimessa negli abiti, dimessa di volto ed anch’essa piangente come aveva lasciata Emilia.
Appena entrato Ernesto, ella lo guardò con un’occhiata languida e gli disse: – Benvenuto, signor Ernesto, finalmente dopo tanto tempo vi siete degnato di comparire, avete ricalcata la via della casa della meschina ed infelice Erminia. Uomini, tutti ad un modo: non appena si mostra per voi un tantino di debolezza, [ecco] che voi alzate la cresta e trionfanti vi gloriate di averci vinto e spinte al male. Perché, dimmi, ingrato, perché dopo
di avermi ridotta tua vittima mi hai abbandonata?
– Mia vittima!…
– E che forse io non ebbi la debolezza di cedere alle tue premure?
– Non falsiamo le cose, foste voi che mi costringeste, signora Contessa, a cedere alle vostre premure; ed onorato, oh sì, mi credei onorato dalla vostra somma compiacenza e commisi un atto che il mio cuore mi gridava: «non commettere!». Credei, signora, mio dovere anzi allontanarmi da voi che, donna, poteste per un momento traviare dal retto sentiero e volendo dare ascolto ad un impeto di momentaneo amore, obliando la verecondia donnesca, cadeste in un fallo nel quale sono sicuro non vorrete perseverare. Ho avuto somma stima di voi, allontanandomi e levandovi l’occasione di non ben calcolare il male che faceste ancora seguitando in una tresca…
– Tresca!
– Non saprei dare altro nome alla scena succeduta fra di noi.
– No, uomo senza cuore, no, che tale non è! In me non agì per poco il capriccio; io sono pienamente innamorata di te; e tu, che amavi un’altra, non dovevi – giacché non potevi corrispondermi come io ti amo – profittare della mia debolezza per avvilirmi e quindi abbandonarmi da scellerato, tenendomi a vile e trattandomi come una donna da trivio, mentre in me scorre un sangue nobilissimo e bollente, un sangue che brucia le mie vene e che sarà tale da farmi perdere il sentimento di donna e mi farà diventare una tigre atta a disbranare te, colei cha mi ti contrasta, tua madre e tutti coloro che avessero l’ardire di contrariare ai miei voleri.
– E voi dunque?
– Sono fortemente innamorata.
– E volete?
– Essere corrisposta con la medesima forza.
– Non posso farlo, signora.
– Lo dovete.
– No.
– Sì, e vi giuro che lo farete.
– Signora Contessa, pietà di me…
– Pietà di te? E tu chiedi a me pietà, mentre sei tanto crudele di non averne per me? Io in questo momento sono quella che deggio cadere ai tuoi piedi e dirti: «Ernesto, guardami, il mio non è un capriccio, il mio non è un momentaneo abbagliamento di ragione»; nel mio cuore si è accesa una fiamma, una passione immensa e tu, che l’hai saputa destare con le tue grazie, con la tua venusta figura, con gli eletti tuoi modi, devi dividerla interamente meco. Sappi, io sono colei che ha soggiogato tutti i primari uomini di questo Regno; sono colei che tengo in mano i destini di tutta quasi una nazione, che ad un cenno, ad una parola posso far sorgere a migliaia gli uomini, posso mettere a soqquadro l’intero Regno delle Due Sicilie ed ora mi trovo soggiogata da te, da te, che sei l’anima mia, che sei colui che tanto adoro e dal quale io non sono corrisposta. Io morirò, oh sì, per certo morirò, perché la forza stessa dell’amore mi darà tutto il coraggio di uccidermi: in questo anello è rinchiuso un veleno il quale, se tu mi disprezzi, immediatamente scenderà nelle mie viscere e mi troncherà un’esistenza che senza di te non mi è più sopportabile, non è soffribile. Ernesto, colei che tu dici di amare non è degna di te; io, io sono colei che può farti felice: io solamente; e tu a me sola devi rivolgerti, a me sola, sì, sì, e con me sola devi compartire il tuo amore, tutti gli affetti tuoi.
***
Lettore, avete voi mai amato?
Lettore, siete stato giovine?
Lettore avete mai avuto sangue nelle vene?
Sì: questa è la risposta a tutte le tre domande.
Dunque? È inutile andare più innanzi, è inutile riflettere più: Ernesto perdette in questa seconda occasione tutta la prudenza e non solo s’immerse di nuovo nei deliranti pensieri di un amore passeggero ed esilarante; ma perdette interamente l’affezione che aveva per Emilia e cadde completamente nei lacci della Frine, incominciando a sentire per lei una passione straordinaria e tale che diventò a poco a poco incendio vorace e che gli fece obliare tutto ciò che ci era di sacro pel suo primo affetto e dimenticare interamente Emilia e la fede giurata.
La buona giovinetta però, inesperta ed inconscia della malvagità del mondo, fidente sempre nell’uomo che di già le aveva giurato amore, sperava vicina la sua felicità, quantunque nei pochi giorni che precedettero ancora la partenza di Ernesto aveva veduto un certo raffreddamento nel suo innamorato e lo aveva fatto notare alla signora Martina, la quale ne fece delle rimostranze al figlio, che scusandosi dell’essere preoccupato per tutto ciò che doveva intraprendere per conto della società di cui faceva parte, fece sì che le due donne si tacquero ed attesero l’evento della venuta dal suo viaggio per effettuare le già stabilite nozze.
Ernesto partì; egli principiò un giro di propaganda nelle nostre province; ma non parti solo: la bella Contessa, in abito da uomo e fingendosi un suo compagno, lo seguì dopo pochi giorni. Gli affari della setta e della rivoluzione incominciavano ad incalzare la guerra del ’59 di già si prevedeva prossima a scoppiare ed era dunque necessario che molti e capaci agenti segreti avessero eseguito il loro dovere con tutta la possibile alacrità; quindi Ernesto, che era stimato uno dei più esperti, e la Contessa, voluta per una delle più influenti, dovettero per necessità percorrere molti luoghi onde spargere quel veleno che doveva corrompere tutte le fonti vitali dell’antico Regno delle Due Sicilie e travolgerlo nella generale e rovinosa rivoluzione che tanto ha arrecato danno e dolori a questa nostra povera e desolata patria.
Nel tempo della malattia di Re Ferdinando, l’opera dissolvente dei due agenti nelle tre province della Puglia[1] fu di sommo giovamento. L’avvenente Contessa, influenzando con i suoi eletti modi e con la sua sovraumana bellezza ‹su› tutti i più influenti uomini dell’avverso partito, corrompeva tutti e li associava al partito che dessa rappresentava. Ernesto, che ferace ingegno aveva sortito dalla natura, profittava benissimo delle lezioni ed istruzioni ricevute del Comitato e faceva spiccare palpabilmente agli occhi dei più restii il bene che da un cambiamento di governo ci sarebbe venuto; ed Erminia, parte dirigendolo, parte facendosi da lui dirigere, arrivava con le sue arti infernali a tutto e la faccenda camminava a vele gonfie.
Ernesto, che era partito per rimaner lontano da Napoli per pochi giorni, si accostava quasi ad un anno che ne era lontano e parte perché il suo dovere veramente lo richiamava in quei lontani paesi, parte che la scaltra Erminia per goder meglio dal suo amore cercava con tutta la scaltrezza dei suoi modi di non farlo più ritornare vicino a colei che forse avrebbe potuto farlo recedere dalla sua passione e scioglierlo dai suoi lacci nei quali ella l’aveva saputo avvincere, non si parlava affatto di riaccostarsi alla capitale del Regno.
Emilia, intanto, non mancava giammai di scrivere al suo innamorato; ma queste lettere non arrivavano al loro destino, perché la scaltra Contessa aveva l’abilità d’intercettarle tutte, di modo che la povera giovinetta non si vedeva giammai risposta e quantunque confortata dalla signora Martina, anch’essa priva di notizie del suo figliuolo, cominciò a sentirsi rodere in prima il cuore dal terribile verme della gelosia e poscia la salute da una lenta malattia che ebbe per lei tristi e funeste conseguenze.
Ernesto, però, era felice fra le braccia dell’impudica e rivoluzionaria Contessa?
Capitolo IX. Il duello
Molte volte Ernesto, sebbene ammaliato dalla bellezza e dall’amore di Erminia e gettato perciò nel fondo della più sozza passione, pure rientrava per qualche istante in sé stesso e specialmente allorquando i fatti che si andavano svolgendo e le necessità della rivoluzione portavano che Erminia troppo vivamente doveva far giocare le sue fisiche qualità per abbindolare un qualche importante merlotto che non poteva esser vinto in altro modo che mercé le attrattive della medesima; allora il suo cuore si sentiva punto da un acuto dardo e la sua fantasia giocava in maniera da farlo delirare; ma però le grazie della sua amante, le ragioni dell’opera che insieme portavano a compimento e le proteste della bella – la quale sosteneva essere essa interamente passiva in tutto ciò che faceva e che egli, sol egli era colui che veramente amava – lo persuadevano, quantunque in qualche momento non poteva persuadersi della figura non troppo lusinghiera che egli faceva.
Avvenne però il caso che – precisamente nel tempo in cui il Pio Re Ferdinando ii, ammalatosi in Bari, principiava a far sorgere nei petti dei rivoluzionari la dolce speranza che i loro disegni avrebbero potuto ottenere un felice risultato – fu d’uopo di abbattere una delle principali colonne dell’esercito borbonico, stanziato in quelle parti e propriamente nella limitrofa provincia di Capitanata.
Il Comitato direttivo annetteva moltissima importanza alla caduta di questo personaggio e tutta la premura faceva perché egli fosse stato a qualunque costo soggiogato.
L’opera era molto difficile: Ernesto ed altri agenti avevano sondate le acque ed avevano visto esser egli uomo incorruttibile sotto tutti gli aspetti; profferte di denaro erano state respinte, promesse di onori non avevano prodotto effetto, ogni qualunque specie di blandizia non aveva prodotto verun buon esito e quasi si disperava di adeguare al suolo un colosso, vinto il quale con molta facilità si avrebbe potuto ottenere un magnifico intento finale.
Ultima via restava quella delle donnesche seduzioni. Il personaggio di cui si parla era uomo poco al di là dei quarant’anni, di prestante aspetto e di modi vivaci e geniali. Dopo di aver escogitato tutti i mezzi, si era venuto a sapere che egli non era totalmente alieno dai piaceri femminei e perciò immediatamente si era dato ordine a talune adepte di seconda sfera di assaltare la piazza con tutta la possibile astuzia e finezza; ma diverse di queste signore si erano cimentate e sempre ne erano uscite sconfitte e non avevano potuto riuscire in nulla; fu giocoforza indirizzare sui suoi passi la scaltra e famosa Contessa.
Erminia, ricevute le opportune istruzioni, postasi di accordo con Ernesto ed un altro agente inferiore che doveva aprirle la via fingendosi un capocomico girovago, il quale di unita[2] alla prima donna di una compagnia, trovandosi in ristrettezze, andavano cercando di trovare un qualche teatro onde potersi trattenere e metter su delle rappresentazioni, e siccome ‹a quella emergenza› non troppo si pensava in quelle province ai divertimenti pubblici, così il voluto[3] capocomico, volendo indirizzarsi alle autorità della piccola città dove stanziava il personaggio da conquistare che comandava un buon corpo di truppe, ebbe l’accorgimento di raccomandarsi a lui, pregandolo che con la sua influenza avesse visto di far sì che la sua compagnia avesse potuto venir sulla piazza a recitare e guadagnarsi un onesto pane. Il finto capocomico era uomo tale da sostener benissimo la sua parte, perché un tempo veramente aveva esercitata la professione di commediante; perciò stabilite così le cose, si passò immediatamente alla esecuzione del meditato progetto.
La coppia stabilita si presentò a casa del bravo Militare, mentre Ernesto, anch’egli camuffato da comico, attendeva su di una locanda l’esito delle pratiche per poi, come capo di questa semiartistica cospiratrice spedizione, dar conto ai suoi superiori di tutto ciò che si faceva.
Il Militare, che gentilissimo uomo era ed amante in certo modo del teatro, accolse benissimo la virtuosa coppia e [fin] da principio, interessandosi del fatto e della posizione piuttosto triste di quei due, promise di far tutto il possibile per giovar loro presso le autorità, promettendo che se avesse potuto riuscire a far loro ottenere ciò che bramavano, si sarebbe anche cooperato per un buono abbonamento fra i militari, i quali quasi tutti sono amanti del divertimento del teatro; e siccome i finti comici si annunziavano per gente oppressa dalla miseria e quasi quasi facevano credere esser privi di tutto per procurarsi alloggio e vitto, il Militare offrì gentilmente [di ospitare], fino a che le cose fossero andate innanzi, e l’uno e l’altro in casa sua. Con molta riconoscenza fu accolta la profferta ed immediatamente si principiarono le pratiche per venire allo scopo prefisso.
Il Militare però, che come abbiamo detto non era tanto austero in fatto di bel sesso, incominciò ad adocchiare l’avvenente prima donna; ed essa, che non era venuta ivi che a quello scopo, corrispondeva con tutta affabilità e gentilezza alle premure del Militare, di talché fin dalla prima visita le reti furono gettate.
Il dopo pranzo, il Militare si condusse presso le principali autorità della Città, che a tanto intercessore nulla negarono; e fino a che non venne la sera il permesso di poter venire a dar delle recite si era ottenuto.
Fatto questo e senza perder tempo, il finto capocomico immediatamente finse partire per siti vicini dove era il rimanente della compagnia per andarla a prendere e portarla il dopo dimani nella piazza, rimanendo l’incarico alla prima donna di far girare un foglio di appalto[4] e raccomandandola caldamente al buon Militare, che promise proteggerla ed aiutarla, seguitando a tenerla in casa sua, cosa che sì voleva, ma che solamente ad Ernesto dispiaceva, che prevedendo tutto ciò che sarebbe succeduto, fremeva di sdegno di dover assistere in disparte a ciò che egli chiamava suo disonore.
Le cose nel corso della notte e nel giorno seguente precedettero come si era immaginato. Il Comandante, soggiogato dalla bellezza della prima donna, cadde nelle sue reti; fatto questo la signora incominciò a persuaderlo circa il vero oggetto della sua venuta presso di lui ed ebbe la fortuna di veder quasi coronata la sua pratica, perché egli quasi quasi cedette ai suoi seducenti discorsi ed in fine cadde completamente nei lacci tesigli, tanto che con la sua disfatta poscia a tempo e luogo fu uno di quelli che più contribuirono all’esito del trionfo della rivoluzione.
I comici sparirono. Il Militare, conscio del vero oggetto della finzione, aiutò a spargere una menzogna con la quale si constatava la non venuta di costoro al paese; ma con mille pretesti ritenne però presso di sé la prima donna, che ormai tutto il paese caratterizzava come la sua innamorata, mormorandone e sparlandone un poco, ma poi ridendone, come in questi casi suole avvenire.
Tutta questa commedia era succeduta in dieci giorni; Ernesto aveva immensamente sofferto, ma aveva tollerato, perché la necessità, finché la cosa non fosse riuscita, glielo imponeva; ma postosi poi egli di accordo col Militare per gli affari della propaganda, mal soffriva che Erminia avesse seguitato a rimanere in casa del Militare e cercava tutti i mezzi per farla partire. Colui però non voleva e cercava trattenerla e la stessa Erminia ‹che›, quantunque sempre innamorata di Ernesto, pure non poteva in verun modo sciogliersi dal Militare, si adattava a rimanere ancora presso del suo novello amante, che in sostanza non era uomo da prendersi a gabbo.
Ernesto, non volendo più tollerare un tale stato di cose, principiò a borbottare, a mettersi in disaccordo con il Militare, a maltrattare Erminia incolpandola di tradimento, di civetteria e facendolo in modo che il Militare, uomo di mondo, accortosi da queste cose che fra i due c’era qualche antecedente concerto, salì in tutte le furie e con modi alteri e privi di cerimonie proverbiò talmente Ernesto che questi, mal sapendo resistere agli insulti che riceveva, si risentì anch’egli ed in un animato diverbio sorto fra entrambi corse una sfida ed il giorno susseguente i due rivali andarono a battersi.
Erminia, sebbene le dispiacesse il fatto, pure per non trovarsi imbrogliata in cose che avrebbero potuto comprometterla, nottetempo fuggì da quel paese e si ritirò in altra vicina città, dove poteva essere validamente protetta da quelli del suo partito.
Il giorno venente Ernesto andava in cerca di Erminia, ma inutilmente la ricercò: ella era sparita; intanto egli dovette sempre correre e battersi a cimentare la sua vita per una donna che non era sua, che egli si era ostinato a credere sua, accecato da una passione che formava la sua vergogna e che uccideva un’altra donna appassionata, affettuosa, degna di ogni premura e di tutta la possibile fedeltà.
[Scesi] quindi sul terreno, l’arma prescelta era la spada; il Militare aveva per suo secondo un suo collega, mentre Ernesto aveva dovuto ricorrere a uno di quelli da lui conosciuti per caso che, addetti come agenti subalterni nell’associazione rivoluzionaria, si prestavano a malincuore ad un fatto privato, comprendendo che qualunque avesse potuto essere l’esito del duello, gli interessi della causa erano sempre pregiudicati, poiché Ernesto, se vinto, non avrebbe potuto più agire; se vincitore, avrebbe dovuto fuggire immediatamente e quindi non assistere agli affari che in quel momento avevano bisogno di somma ed indefessa assistenza.
Il duello cominciò: il Militare era valentissimo schermitore, mentre Ernesto, quantunque non nuovo alla trattazione delle armi, pure non era tale da poter resistere alla bravura del suo avversario.
Al primo assalto, fosse fortuna, fosse negligenza del rivale di Ernesto, che avendo [ri]conosciuto la sua debolezza lo trattava con poca importanza, un piccolo colpo di spada al braccio fece rimanere ferito il Militare, ma questa piccola ed insignificante ferita accese maggiormente il suo sdegno e alla seconda messa in guardia non trattò più la faccenda con quella leggerezza con la quale l’aveva da principio intrapresa e vi si pose con tutta l’arte e lo sdegno possibile, in maniera che non appena Ernesto ebbe tempo di parare il primo ed il secondo colpo che al terzo ricevette un fendente sotto la mammella destra che poco mancò non lo avesse trapassato da parte a parte, facendolo piombare al suolo dando un grido ed invocando sua madre.
Caduto Ernesto ferito, fu immediatamente accudito da un chirurgo che era venuto sul luogo a presenziare il combattimento; ma costui nell’esaminare la ferita, quantunque avesse annunziato non esservi pericolo imminente per la vita del ferito, pure non potette fare a meno di dire che la ferita era molto grave e vi sarebbe abbisognato molte cure e lungo tempo fino a che non avesse potuto compiersi la guarigione.
Trasportato Ernesto nella locanda dove si trovava alloggiato, cominciò dall’accorgersi di aver bisogno di cure amorevoli e pietose nello stato in cui si trovava ed essendosi informato, per mezzo di persone della sua setta, della signora Contessa, cagione di tanto suo malanno, seppe che costei essendosi prima allontanata dal paese per qualche giorno, era quindi ritornata di nuovo, trattenendosi tranquillamente presso il Militare che tanto malamente lo aveva ferito.
Il dolore di Ernesto a tale scoperta fu immenso ed allora cominciò un poco a comprendere il passo falso che aveva fatto, allontanandosi dalla sua buona Emilia e quasi di lei dimenticandosi, per immergersi in un amore che, mentre formava la sua rovina, gli era nel medesimo tempo di vergogna e di rossore.
Fece dal suo compagno scrivere a Napoli, dando notizie di sé alla sventurata genitrice e facendole comprendere qual fosse il suo stato non perché avesse sperato di vederla al suo fianco, ma per raccomandarle la misera giovinetta che troppo tardi si accorgeva esser più degna del suo amore rispetto alla scaltra Contessa la quale, dopo di avergli fatto perdere quasi la vita, lo aveva totalmente abbandonato non curandosi più di lui né punto né poco.
Il maggior dolore di Ernesto era quello che, mentre egli si trovava in quello stato, pendente tra la vita e la morte, i suoi superiori, o sia i capi del Comitato Napolitano, scrivevano ad ogni ordinario impartendogli ordini sopra ordini che egli non poteva più adempiere pel momento, stante lo stato in cui si trovava, e per conseguenza coloro lo minacciavano di togliergli la fiducia ed il potere che gli avevano accordato, dicendo che per futili e private ragioni ed anzi per turpitudini del genere di quella di cui si trattava, un buon patriota non doveva mettere a repentaglio la vita tanto preziosa agli interessi comuni.
Tutte queste cose esacerbavano la sua ferita, di modo che egli invece dei pochi giorni nei quali il chirurgo gli aveva assicurato che avrebbe potuto durare per guarirsi, l’affare era andato piuttosto in lungo ed Ernesto forse non avrebbe potuto sfuggire alla morte, se dopo giunta in Napoli la notizia di tanta disgrazia, la signora Martina ed Emilia non si fossero affrettate ambedue a correre in soccorso dell’ammalato e con le loro tenere cure non avessero blandito le sue sofferenze e i suoi dolori, non dipartendosi neppur per poco dal suo letto e curandolo con tutta l’affezione ed amorevolezza possibile.
[1] Capitanata (capoluogo Foggia), Terra di Bari e Terra d’Otranto (Lecce).
[2] Di unita: assieme.
[3] Preteso.
[4] Un foglio di appalto:non è chiaro se “girare” si riferisca a far firmare il contratto con il Comune per la rappresentazione oppure a diffondere un volantino pubblicitario.
[1] Lasciato.