“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XII)
Erano passati altri diciotto mesi da questi ultimi avvenimenti. Ernesto, ritiratosi completamente dai pubblici affari, si era dato a menare una vita tranquilla e ritirata, riconcentrandosi spesso in se stesso e riflettendo a tutto quello che era succeduto e che egli medesimo aveva fatto in parte succedere.
– Mio Dio, – dicea spesse volte nel recondito silenzio di un piccolo gabinetto, dove si rinchiudeva per studiare e leggere tutti i giornali che si pubblicavano nella Penisola – ed è possibile che un’opera così nefanda si sia potuto cominciare da esseri che hanno ricevuto l’afflato divino? Quante scelleranze, quante iniquità, quante infamie si sono commesso nello scorcio di questi pochi anni! Sette troni legittimi abbattuti e sulle rovine di essi innalzato quello rivoluzionario e falsamente chiamato del “voto della nazione”; questo voto tanto predicato ed invocato, falsificato e manomesso; il popolo – che è servito di pretesto a tutte le rivolture, a tutte le bricconerie, a tutte le maledizioni – disprezzato, oppresso, trafitto da mille colpi di tasse e balzelli che ne hanno succhiato il sangue e ne hanno inaridite le fonti della vita. Roma, la di cui rapina sarà certamente pagata cara, oppressa e ridotta «non donna di provincie, ma bordello», il diritto conculcato, la immoralità, la spoliazione, i soprusi, la più completa infame depredazione trionfante, ed io, io!, ho coadiuvato a tanto male, io che avevo sortito dalla natura un’anima retta, pura, onesta, essere stato lo strumento di tanti assassini, di tanti bricconi, che nulla curando quei sacrosanti principi che avevano ad ogni istante nella bocca, li disprezzavano nel cuore e li manomettevano, non pur altro che per farli servire ai loro smodati appetiti, alla mania di ricchezze, alla lussuria, alla libidine! Io!… io ho cooperato a tradire la mia patria, io ho favorito gli ambiziosi, come i Don Antoni, gli usurai come i Bartolomei, le prostitute come le Erminie…. Angelo mio, Emilia, consorte adorata, tu mi sei stata uccisa da quei perfidi, eglino ti hanno sacrificata ai loro perfidi interessi, ti hanno immolata sull’altare della scelleraggine e della nefandezza. Perfidi, perfidi! Ma il cielo è giusto: esso disperderà le vostre nequizie ed io, oh sì!, io che sono stato il vostro braccio, io sarò colui che svelerò le vostre maledizioni all’Europa, io farò a tutti conoscere chi foste, chi siete, chi sarete per essere; ed i vostri nomi, che per adesso falsamente vanno girando magnificati sulle labbra di tutti gl’illusi, saranno maledetti, saranno disprezzati, saranno esecrati da tutti coloro che hanno fior di senno, onore e vero amor di patria nel seno. Giù queste maschere, manigoldi! Squarciate questi fitti veli sotto dei quali nascondete le più orribili e pestifere colpe: io svelerò tutto e tutti vi conosceranno ad occhio nudo.
Egli intraprese a scrivere le sua memorie, le quali diedero a conoscere a quei pochi che poterono leggerle tutto ciò che era succeduto: tutti i tradimenti, le turpitudini, le scelleraggini dei pretesi liberatori del bel Paese «Che Appennin parte, il mar circonda e l’Alpe»[1].
In tali memorie per necessaria conseguenza si trova stabilito e consacrato il principio che non c’è, non può esservi benessere pei popoli, se non facendosi governare da principi legittimi, creati dal diritto divino, i quali serbando sempre i sacri diritti della legittima sovranità, faranno sempre trionfare la giustizia, la virtù, la gloria; mentre che dalle rivoluzioni, maledette da Dio, non possono sorgere che il depredamento, i soprusi, la più completa iniquità.
Ernesto, dopo scritte le sue memorie, si allontanò da questa terra, che aveva tradita, recandosi all’estero, presso un nobile e disgraziato personaggio a gettarsi ai suoi piedi e chiedendogli perdono di tutto il danno che con le sue male opere gli aveva arrecato ed a manifestargli di aver totalmente cangiato bandiera e che da quel punto in poi, come era stato fino allora il propugnatore involontario della scelleraggine, sarebbe diventato quello del bene, della giustizia, della sola legittimità.
Erminia, divorata da lenta e schifosa malattia, chiuse i suoi giorni non molto dopo dell’avvelenata Emilia, riempiendo l’aere di gridi e bestemmie da far fremere ed inorridire tutti coloro che la conoscevano ed avvicinavano.
Gli altri ancora si apprestano a succhiare le ultime gocce di sangue a questa sventurata Italia, che certamente fatta dotta di tanti mali sofferti, forse metterà giudizio, e…
…ai posteri
l’ardua sentenza.[2]
[1] Francesco Petrarca, Canzoniere, cxlvi.
[2] Alessandro Manzoni, Il cinque maggio, 31-32.