Alta Terra di Lavoro

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“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XVII)

Posted by on Gen 20, 2023

“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XVII)

Seconda Parte

Capitolo IX. In ferrovia

Non era ancora l’alba novella, allorché l’Orecchiacuto si recò alla Ferrovia, prese un biglietto per Versailles e quindi si pose alla vedetta per attendere il suo uomo; non era passata che una mezzora ed egli aveva fumato intera la sua pipa, che Ernesto comparì, accompagnato dal Duca e da un altro vecchio signore. Il suo aspetto era molto triste, i suoi occhi si vedevano circondati da un cerchio rosso che indicava di aver sparse moltissime lagrime.

Il Duca era anch’egli afflitto e l’altro signore, che formava il terzo della comitiva, col suo contegno serio, quantunque non abbattuto, dava più risalto al dolore dei due. Giunti alle scale della ferrovia si divisero, stringendosi le mani. Orecchiacuto intese che il Duca diceva ad Ernesto:

– Figlio mio, caro figlio, qualunque sia stata la disgrazia da me e da te sofferta, il dovere prima di tutto. Nell’adempi­men­to del proprio dovere l’uomo trova il compenso di tutto quello che può aver sofferto. Coraggio! E dalla fermezza della quale mi vedi far uso, impara che Iddio non lascia verun uomo immerso nell’affanno, quando la ragione di esso non è turpe e peccaminosa.

Il segno della partenza fu dato. Ernesto salì nella carrozza che doveva condurlo ed il Duca col suo compagno presero di nuovo la via della città, mentre lo sgherro della Società salì anch’egli nel wagon in dove sedeva Ernesto, che per combinazione si trovava ripieno di gente e perciò faceva essere per allora assai difficile l’operazione che egli doveva eseguire.

Il viaggio per molto tempo fu senza verun incidente. Orecchiacuto, avendo compreso che fino alla più prossima fermata per lui non vi era da fare, chiuse gli occhi e, attendendo un momento più favorevole, si addormentò saporitamente, mentre Ernesto anch’egli chiuse gli occhi ad un breve sopore, che gli ricondusse alla mente molti tratti della sua passata vita.

Giunti ad una fermata, il wagon rimase quasi vuoto, perché oltre di Ernesto ed Orecchiacuto, non vi si vedeva seduto che un altro solo personaggio, il quale dal suo aspetto sembrava un negoziante alsaziano e che stava rannicchiato in un angolo del legno[1], bevendo di quando in quando un sorso di liquore da una bottiglia e, dopo d’aver bevuto, prendendo anch’egli la posizione di chi dorma profondamente.

Orecchiacuto guardava sempre i movimenti di tutti i due suoi compagni di viaggio e siccome espertissimo era nel suo mestiere, attendeva che il treno fosse giunto nella vicinanza di un’altra stazione, per poter agire allo scopo, che si era prefisso; in effetti, quando si accorse che si arrivava nelle vicinanze del sito di fermata, non fece altra operazione che guardare da prima i suoi colleghi e, scorgendoli entrambi immersi nel sonno, levatosi dal suo posto, andò a farsi in mezzo ai due, ritenendoli per qualche altro poco di tempo d’occhio entrambi.

Giunti propriamente in prossimità della stazione, Orecchiacuto, che aveva formato bene il suo piano, [decise] di metterlo in esecuzione.

Qual era il suo piano?

Egli aveva stabilito di voler soffocare con la sua mano sinistra Ernesto dormiente e con la diritta, senza dargli tempo di muoversi, piantargli uno stile[2] diritto al cuore, rimanendoglielo[3] dentro la ferita, avvolgendolo nel tabarro, come sempre era stato; ed appena il convoglio si fosse fermato, gettarsi giù dalla carrozza, prendendo subito il largo ed inoltrandosi quindi nella prima città sulla via, dove mercé l’associazione avrebbe sempre trovato protezione ed aiuto, fino poscia a trasferirsi a Parigi e di là far consapevole Simon del tiro eseguito.

Giunti dunque, come abbiamo detto, in prossimità della stazione, Orecchiacuto con ardire sommo, dando un’ultima occhiata al negoziante, che in quel momento non dava propriamente segno di vita, si slanciò rapidamente su di Ernesto, che aveva la testa un poco rovesciata all’indietro, offrendo in tal modo la gola perfettamente scoperta ed afferratolo per questa con la mano sinistra, che poteva dirsi di ferro, gliela strinse talmente che gli levò tutta la forza di muoversi e di gridare; indi, più rapidamente ancora, trasse il pugnale ed alzato il braccio si accinse a dare il colpo, come aveva premeditato.

Ernesto aprì gli occhi e cercò difendersi; ma gli fu impossibile, perché le sue forze erano perdute e per lui non vi era più speranza di salvezza.

Però la difesa venne improvvisamente da un altro punto, mentre il povero disgraziato non se la attendeva in verun modo.

Il mercante alsaziano, che pareva dormisse, aveva da qualche tempo adocchiate le mosse di Orecchiacuto e non si era ingannato nel suo giudizio, che colui qualche cosa meditasse; e siccome portava con sé una borsa molto ben fornita, temeva che si trattasse di un furto da farsi sulla sua persona: si pose alla vedetta e non lo perdette più di occhio e, allorché lo vide situarsi in mezzo, si concentrò in se stesso dicendosi: «Provati, provati, galantuomo, che stai fresco!».

Ora, avendo poi visto che non si trattava di lui, bensì del­l’al­tro viaggiatore, la compassione lo prese e specialmente quando comprese trattarsi non di furto, ma completamente di un assassinio, non diede tempo ad Orecchiacuto di vibrare il colpo e siccome con la sinistra teneva sempre la famosa bottiglia dalla quale ogni tanto beveva il suo sorsetto, cominciò dal darla in testa dell’assassino con tutta la forza, tanto da romperla, fracassargli il capo ed inondarlo del liquore che vi si conteneva. Quindi, quasi prima che Orecchiacuto si fosse accorto di ciò che succedeva, fermandogli il braccio alzato in alto e stringendolo in un pugno gigantesco, disse:

– Ehi! Compare, che intendi di fare, eh? Un assassinio in ferrovia; ma però ti sei fatto i conti senza l’oste; dove sono io, non si fanno di consimili gherminelle[4]!

L’improvviso assalto fece sì, che la mano che teneva stretta la gola di Ernesto dovette necessariamente allargarsi dalla sua stretta, di modo che costui, ripreso coraggio ed avuto libero il respiro, divenne padrone di tutte le sue forze e, alzandosi, cercò anche lui di afferrare il suo assassino, ma non ce ne fu bisogno, perché il salvatore alsaziano di già aveva rovesciato Orecchiacuto e, appuntatogli alla gola il suo medesimo pugnale che gli aveva levato di mano ed al petto un ginocchio col quale lo premeva fortemente, si faceva delle grosse risate ripetendo:

– Caro amico, quando si deve fare il nobile mestiere che tu fai, si debbono usare precauzioni tutte straordinarie; per ora ci sei capitato ed invece di uccidere, sarai bellamente consegnato nelle mani della giustizia.

Orecchiacuto, preso dalla rabbia per essere stato così terribilmente sconfitto e nel pericolo terribile di essere consegnato alla forza, e siccome anch’egli era uomo nerboruto e risoluto, non potendo far altro, addentò la mano libera del negoziante e gli diede un morso così stringente ed acuto, che quasi stava per spezzargli la prima falange del dito.

Le forze del vincitore furono per poco paralizzate dal dolore alla mano, tanto che egli dovette alquanto retrocedere dalla pressione ed allora cominciò una terribile lotta fra i due che, dotati di quasi pari forza e sveltezza, potevano benissimo contrastare insieme. Il pugnale tolto ad Orecchiacuto cadde dalle mani dell’Alsaziano, che per un istante fu rovesciato sul sedile dello carrozza; ma rialzatosi e cinto con le sue nerborute braccia il Marsigliese, riuscì a gettarlo definitivamente in terra e, aiutato da Ernesto, che anche egli prese parte alla lotta, lo tennero forte per gli altri pochi minuti che il treno ancora camminò e quindi, non appena questo si fermò, chiamando ad alta voce la forza pubblica, che immantinente accorse, lo consegnarono a questa, che riconosciutolo per quello che era:

– Ah! – disse il Sergente che la comandava – Sei un galantuomo! Sono stato molto tempo in Marsiglia e so che razza di mariuolo sei tu; mi rallegro di averti fra le mani: ora puoi farti una casa in cielo, ché in terra non pagherai più pigione per lungo tempo.

– Sia, come voi dite; ma non ci è che fare; andrò carcerato. Ma sapete, Brigadiere, che quell’aria non mi fa male: ci sono avvezzo. Il guaio è per i principianti; per me, sono veterano e la vostra minaccia non mi fa effetto…

Però nel dir queste parole, pensava e con dispiacere alle lettere che aveva per la società, che certamente sarebbero cadute nelle mani della forza e tutto l’immaginato piano sarebbe stato rovesciato. Fu condotto in una stanza della stazione, si fece immediatamente un verbale di arresto momentaneamente e, mentre il vapore[5] si rimetteva in movimento, i gendarmi chiusero l’arrestato in un piccolo stanzino che non aveva altro che un piccolo finestrino, sprangato di ferri, che affacciava alla campagna.

Il Brigadiere della Gendarmeria aveva frugato addosso ad Orecchiacuto; ma non però aveva trovato altro che un secondo pugnale, dei biglietti di banco e talune carte insignificanti, perché le lettere della società il malandrino, previdente ed astuto, le aveva nascoste nientemeno che nello spazio che si interponeva fra la suola esterna della scarpa e la suola più sottile che i calzolai mettono da dentro e che tocca immediatamente il piede. Rimasto solo nello stanzino, Orecchiacuto disse:

– Il colpo è fallito; ma però, mio caro Brigadiere, ho l’onore di dirti che non conosci affatto il tuo mestiere; non sei stato capace di ritrovare le lettere, che dovevi comprendere che io dovessi avere addosso; però come farle [re]capitare ai miei soci non so ancora; ma ci riuscirò.

Passato qualche tempo, Orecchiacuto, intese rimenare[6] a bassa voce il suo nome verso il finestrino di sopra indicato; meravigliato di questo fatto alzò gli occhi e vide brillare al di là di quello due occhi lucenti ed intese una voce che ripeteva di nuovo il suo nome.

– Chi è? – replicò egli.

– Un associato della nostra Compagnia, che ti ha [ri]conosciuto.

– Per Bacco, sarebbe possibile? Il tuo nome?

– Andrein; non sono uno degli ultimi.

– No, ora che [lo] sento, [capisco] chi sei, quantunque non ti conosco di persona.

– Dopo di averti visto nelle mani dei gatti e chiuso nella topaia, ho supposto che era impossibile che uno dei nostri viaggiasse senza avere delle istruzioni. Parla: ci è da far niente in tuo pro?

– In mio pro, nel momento, pare di no; ma prendi, sono lettere da far capitare a Parigi a Ladronier e subito.

– Benissimo; all’istante saranno dirette colà.

Orecchiacuto, che aveva già tolta dal piede la scarpa e preso dalla fodera anzidetta i fogli, li gettò con destrezza somma dal finestrino, in modo che immediatamente furono afferrati da Andrein, che disse:

– Addio, dunque: potrei, qui arrampicato, essere scoperto e ciò non mi conviene. Al più presto queste lettere [saranno] a Parigi.

– Te lo raccomando caldamente, si tratta di cosa importantissima.

– Sarà fatto. Addio.

– Addio.

Andrein sparì, e fu buono per entrambi, perché nel medesimo istante si aprì l’uscio della piccola stanza ed i gendarmi entrarono e, legato Orecchiacuto, lo trassero ai carcere principale della città, dove attese l’esito del suo tentato assassinio.

Capitolo X. Don Carlos

Il convoglio seguitò la sua via e finalmente giunse a Parigi. Ernesto per tutta la strada ringraziò sentitamente il cortese Alsaziano che lo aveva salvato da una morte sicura, però rifletté che quell’attentato non aveva potuto essere stato commesso che ad istigazione di Carlo, il quale, non avendolo potuto uccidere da sé, gli aveva mandato appresso un mandatario per trafiggerlo. Da idea in idea, concepì il pensiero che quello non sarebbe stato l’unico pericolo che avrebbe corso lungo la strada: poiché era esperto in queste cose, immaginò che quell’uo­mo non poteva essere un semplice prezzolato del suo nemico, ma lo giudicò – come in effetti era – un membro di qualche compagnia di quelle che si incaricano di ogni sorta di delitti per conto d’altri ed a prezzo determinato. E siccome sapeva per esperienza che cosa fossero coteste riunioni di malfattori, s’impressionò[7] che egli sarebbe stato inseguito e perseguitato lungo la strada da altri emissari, se pel momento al primo non era riuscito l’incarico affidatogli.

Stette perciò sulla sua per tutto il resto del viaggio fino a Versailles e, giunto colà, guardandosi il più che poteva dagli agguati che avrebbero potuto tendergli, si presentò alla persona alla quale era stato diretto.

Fu accolto benissimo ed immediatamente gli venne comunicato l’ordine, di chi poteva in effetti comandarlo, di recarsi alla testa di una forte mano di volontari italiani e francesi a servire sotto le insegne gloriose di Don Carlos, che nel momento disputava vittoriosamente ai repubblicani di Spagna l’avito suo regno.

Rimase da principio esterrefatto Ernesto; ma poscia pensò che il dolore che l’opprimeva era maggiore assai della morte, avendo perduto colei che avrebbe potuto farlo ancora felice; e rifletté che non si trattava, nel caso dovesse soccombere, di una morte disonorata e per la mano di un assassino, ma gloriosa, sul campo di battaglia ed in sostegno di una causa che ormai egli non più indugiava a credere la migliore e che, riuscendo vittorioso, avrebbe potuto esser quella che avrebbe potuto ridonare col tempo alla sua patria il perduto bene.

Accettò l’incarico offertogli e si fece senza perder tempo dare le istruzioni opportune, dalle quali apprese che la maggior parte di coloro che lo attendevano per essere da lui capitanati avevano di già oltrepassato il confine dei Pirenei od erano vicini ad oltrepassarlo e che un altro Capo, esperto militare, lo attendeva colà per mettersi sotto i suoi ordini, da poiché egli doveva far la figura presso il Pretendente di un uomo politico inviatogli dai suoi partigiani, mentre per la parte militare la bisogna era affidata all’altro.

Ricevute le istruzioni, dopo tre soli giorni di trattenimento a Versailles, dove ebbe agio d’intrattenersi con diversi componenti dell’Assemblea[8], egli, in sembiante di commesso viaggiatore, scortato da due fidatissimi seguaci, intraprese il viaggio alla volta dei Pirenei e, giunto colà, mentre dopo di aver riposato in un’ultima osteria sul suolo francese e mentre cautamente era vicino a varcare il confine, s’intese tirare alle spalle due colpi di fucile, uno dei quali gli passò molto da vicino e l’altro gli forò il cappello, facendoglielo cadere dal capo.

I due seguaci rimasero meravigliati e supposero che coloro che avevano tirato sul loro principale erano agenti del governo francese; ma egli gli rassicurò, dicendo loro:

– Non temete, non temete, miei fidi: non è il governo che s’in­carica di me; ma tutt’altri, e già che mi hanno ancora sbagliato[9]: ora non più li temo, perché sono sul suolo spagnolo.

Ciò detto, varcò il confine ed inoltratosi per circa duecento passi, si accorse che ivi erano delle genti accampate, dal cui linguaggio italiano comprese essere una piccola porzione della banda che lo aspettava ed avanzandosi perciò con più franchezza, allorché fu da una sentinella fermato sul suo nome, rispose:

– Sono il vostro Comandante.

– Sareste mai il nominato Ernesto?

– Precisamente quello.

– Ebbene, è necessario allora che vi abbocchiate col nostro generale.

– Sono prontissimo: portatemi a lui dinanzi.

Alcuni di quegli uomini, che erano tutti riuniti in quelle vicinanze, uscirono dai loro nascondigli e lo guidarono in una piccola capanna di taglialegna che era poco discosta; colà lo presentarono ad un uomo in sui cinquant’anni, che dall’ab­bron­za­to volto e dall’aria completamente militare dava a divedere essere l’altro capo di quei volontari.

– Siete voi, colui che militarmente comanda questi giovinotti? – interrogò Ernesto.

– Precisamente io. E voi chi siete, che mi fate una tale domanda?

Ernesto, senza nemmeno rispondere, sporse al Militare la lettera di cui era portatore e costui, dopo averla letta, disse:

– Siate il benvenuto, Signore; siate certo che il vostro arrivo è per noi una festa; noi stiamo da molto tempo in questo sito e molti altri nostri compagni ci attendono in altri luoghi; si aspettava solamente il vostro arrivo per poterci porre in marcia, unirci al forte[10] del nostro esercito, presentarci al Sovrano ed andare a combattere quei farfalloni di repubblicani.

– Ebbene, se il vostro desiderio era che noi fossimo giunti, eccoci: ci siamo. Si diano le disposizioni e subito in cammino.

– Olà! – disse il primo comandante.

– Eccomi ai vostri ordini. – rispose un ufficiale d’ordine inferiore.

– Che immantinente si diano i segnali e senza attendere domani all’alba del giorno si parta.

– Corro a dar le disposizioni opportune; intanto non sarebbe male che voi e il nuovo arrivato v’inoltraste un poco di più sul terreno spagnolo e vi recaste appo il nostro principal nerbo di uomini; tutti gli altri che sono sparsi per le campagne si riuniranno a poco a poco agli altri durante la notte e non appena l’alba apparirà in cielo, in marcia!

– Resta dunque tu incaricato, mio bravo, della riunione della truppa.

– A me la cura di simile bisogna.

– Noi dunque partiamo.

Fatti smontare dai cavalli Ernesto ed i suoi compagni, il capo Militare si unì con lui e scortato da otto uomini si posero ad intraprendere un viaggio pedestre che in mezzo ai greppi[11], ai dirupi ed alle cime di quelle montagne, non era niente piacevole; ma che necessariamente così si doveva compiere.

Dopo diverse miglia in mezzo a monti, boschi ed a dirupi, giunsero tutti in prossimità di una vasta grotta, alla porta della quale una sentinella diede il “chi vive”, a cui il capo militare rispose egli stesso e, riconosciuto che venne, s’introdussero tutti nella grotta, si fecero riconoscere dagli altri capi subalterni che erano ivi e diedero gli ordini perché, appena fosse incominciato il giorno, si fossero mossi tutti di colà. Durante la notte da diverse parti arrivarono i drappelli degli altri volontari, che tutti uniti formavano un numero piuttosto forte da presentarsi al pretendente Don Carlos, il quale era poco tempo da che era entrato in Ispagna a comandare i suoi soldati.

Mossasi la colonna in sul fare del giorno per quelle montagne, tutti camminavano guardinghi, sia perché temevano che i repubblicani del governo fossero stati i primi ad incontrarli e li avessero attaccati, la qual cosa non volevano succedesse, sia perché poteva accadere che i medesimi Carlisti, i quali non sapevano chi essi si fossero, potendoli prendere per nemici avrebbero potuto malamente accogliergli; perciò le precauzioni erano tali e tante, che non potevano prendersene di più.

In effetti, giunti in poca distanza dagli avamposti di uno dei principali Cabecillas, furono avvistati[12] dalle sentinelle del campo, che vedendo una truppa non conosciuta diedero l’al­lar­me e tutto il campo immediatamente fu sotto le armi.

Ernesto ed il Capo Militare, avanzandosi di qualche passo sulla fronte della loro truppa, dissero a chi si avanzava per riconoscere i sopravvenuti che essi erano amici e che non desideravano altro che essere presentati al Comandante supremo.

Tutti si fermarono: i sopravvenuti colle armi a piede, mentre gli Spagnoli erano sempre sul “chi vive”; intanto si avanzò un picchetto di questi e chiuse in mezzo i due parlamentari, che spogliatisi di tutte le armi che avevano addosso, li scortarono presso uno dei principali comandanti carlisti.

– Chi siete voi? – domandò questi ai due sopraggiunti.

– Amici e fratelli d’armi. Noi comandiamo un forte nerbo di truppe volontarie composto di Francesi e d’Italiani, i quali tutti hanno giurato di pugnare al vostro fianco pel trionfo della causa del vostro legittimo Sovrano che rivendica diritti da molto tempo conculcati.

– E chi ne assicura essere voi veramente amici e non traditori, che fingendo di venirsi ad unirsi in sacro ed amichevole vincolo con noi, vengano poi a piantarci il pugnale nelle reni per massacrarci e venderci ai nostri nemici?

– Chi ve ne assicura? – disse Ernesto – Prima di tutto le nostre vite, che sono a vostra disposizione; in secondo luogo questi fogli vergati da colui che c’invia a colui cui veniamo a servire.

– Lasciate che io osservi.

– Eccovi le lettere.

Ernesto porse le lettere; non appena guardate dal Cabecilla, lo sorpresero e poco dopo disse:

– Cospetto di Bacco, ciò è straordinario: questo è un fatto che stranamente mi sorprende, ma dietro tali prove non mi è più lecito dubitare; però, le precauzioni sono sempre ottime, ed io non voglio essere cagione di un qualche grande disguido. Fate che i vostri militi restino a ben lunga disianza dal mio accampamento; io porterò questi ricapiti a colui cui sono diretti ed egli giudicherà dell’accoglienza che conviene vi si faccia.

– Ma, se è lecito sapersi, a chi noi siamo presenti?

– Ad uno del più strenui difensori del Trono e della Legittimità.

– Suppongo per altro, che in Ispagna, come in Italia ed in Francia, ogni uomo ha un nome…

– Il Curato Santa Cruz[13].

– M’inchino dunque fino a terra innanzi a colui che, ad onta della molta distanza che passa tra il suo primo Ministero ed il presente, non sdegna cingere l’acciaro per difendere chi si raccomanda interamente al diritto che dal cielo gli viene.

– Noi pugniamo dal pergamo, dall’altare, dal pulpito; ma le nostre armi spirituali, le quali hanno tutta la forza nei tempi normali, allorché non bastano da loro, hanno bisogno di essere coadiuvate da quelle temporali; e poiché siamo agnelli mansueti in mezzo ai lupi, dobbiamo nelle circostanze diventar lupi da parte nostra; ed io posso dirvi che non un lupo, ma seguitando a rimanere in mezzo a loro, sono un leone, sono il vero Leone di Giuda.

– Speriamo ottener dunque vittoria, combattendo al vostro fianco, e dimostrandovi che anche noi, se non leoni, non cessiamo di essere leopardi e che contribuiremo con tutta la nostra forza allo scopo santissimo di rimettere in trono colui dal ristabilimento del quale dipende in gran parte l’assestamento delle nostre due povere patrie.

– Gomez!

Comparve un Uffiziale di ordine inferiore, ma di forme erculee e di bella presenza, a cui il Curato si rivolse, dicendo:

– Vigilanza assoluta su quella truppa accampata in prossimità del nostro campo; e per ora trattate i loro Comandanti come nostri amici: che apprendano che gli Spagnoli, formidabili sul campo di battaglia, non cessano di essere veri amici sotto la tenda e nei sollazzevoli ritrovi.

Santa Cruz si allontanò. Ernesto ed il suo compagno furono invitati da Gomez a sedere ad una ben imbandita mensa, ricca di quanto poteva trovarsi in un accampamento di guerrillas e sulla quale non mancò il prezioso vino di Xeres e l’Ali­can­te confortatore, che fecero deliziare e consolare i due arrivati, mentre attendevano il ritorno del famoso Cabecilla che era andato a dar conto della loro missione ad un capo di ordine superiore.

Passò circa un’ora e più, fino a che il Curato Santa Cruz ritornò, accompagnato dalla scorta di dieci uomini e da un tale avvolto in un mantello, che mostrava nell’aspetto di essere uno verso il quale tutti i presenti usavano rispetto e deferenza. Il Cabecilla, indirizzandosi ad Ernesto, disse:

– Eccomi di ritorno, signori Comandanti. Ho fatto presente a chi di dovere le vostre credenziali; egli, convinto della certezza e bontà della vostra missione, viene da se stesso ad accogliervi, a ringraziarvi e ad ammettervi tra le fila dei suoi difensori.

– Egli stesso si degna di venirne incontro?

– Sì, io stesso. – disse l’uomo avvolto nel mantello e, svolgendosi dallo stesso, si palesò nel suo vero aspetto: egli era, in sostanza, nientemeno che il pretendente medesimo Don Carlos.

Alla sua vista, tanto Ernesto quanto il suo compagno piegarono il ginocchio, esclamando:

– Maestà!

– Sorgete, – disse il Principe – io non voglio da voi umiliazioni ed atti indegni di gente che viene a combattete sotto le mie bandiere per la buona causa e pel trionfo della legittimità. Sorgete, e venite fra le mie braccia! Santa Cruz, l’alba incomincia a sorgere: mi appresterò a passare a rassegna questo corpo che la vicina Francia e l’Italia ne mandano; gl’interessi delle nostre tre terre sono eguali: bisogna frenare l’anarchia, abbattere l’Idra rivoluzionaria, che tutto sconvolge, e rimettere l’ordine, che dal diritto divino e dalla sola legittimità può nascere. Noi pugneremo nel nome di Dio, noi vinceremo e dopo vinto, allora conoscerete chi mi son io, ed allora, oh!, allora si vedrà il bene che potrà venire agli altri dalla mia restaurazione. Giuratemi soltanto che non indietreggerete giammai in faccia a qualunque pericolo.

– Lo giuriamo!

– Che mostrerete di essere sempre quelli che in tutti i tempi sono stato le due nazioni da voi rappresentate.

– Lo giuriamo!

– Che perirete prima di veder perire la Santa Causa che avete abbracciata.

– Lo giuriamo!

– Ora, a noi: procediamo alla rivista di tutti i corpi di truppe che quivi si trovano riuniti e tu, Cabecilla, apparecchia sotto le armi i prodi Spagnoli che comandi, che io fra mezz’ora passerò in rivista tutti.

Dato quest’ordine, Don Carlos, che mostrava nell’aspetto veramente la grandezza di un Sovrano, licenziò tutti e, sedutosi nella tenda appartenente di già al Cabecilla, attendendo che la rivista si fosse disposta, pregò fervorosamente Iddio per fargli ottenere la vittoria.

Poco dopo l’alba le due schiere erano sotto le armi, pronte ad essere passate in rivista dal loro legittimo Sovrano Don Carlos. Gli Spagnoli, più agguerriti ed uniformemente vestiti, davano tutto l’aspetto di un bel corpo d’esercito, ma i Francesi ed Italiani, quantunque non in aspetto di così militare apparenza, pure davano a divedere nei loro aspetti risoluti e della bellezza del personale che era un corpo sulla cui cooperazione poteva benissimo fondarsi e davano a sperare una sicura vittoria, quante volte fossero stati guidati a combattere.

La rivista durò circa un’ora ed il Principe si congratulò tanto con Ernesto quanto con il suo compagno, il secondo Comandante, della bellezza della schiera che guidavano; ma mentre tutto ciò succedeva, s’intesero in distanza dei colpi di fucile e quindi le grida delle sentinelle avanzate, che chiamavano al­l’ar­mi e dopo poco si vide un forte corpo di repubblicani avanzarsi per attaccare i legittimisti carlisti, che presi all’im­prov­viso ebbero appena il tempo di correre alla difesa e che stavano per cedere non per viltà o per inesperienza dei capi, ma perché qualunque sia bravura o valentia, a poco può servire, quante volte un assalto improvviso paralizza le forze e sventa tutte le ben preparate mosse strategiche.

Il Cabecilla si vide perduto, volta più che aveva presso di sé Don Carlos in persona, della cui sicurezza rispondeva all’eser­ci­to intero ed alla Spagna tutta.

I repubblicani, guidati da un abile Generale, si avanzavano rapidamente con impeto irresistibile ed invano a loro si faceva ostacolo dai Carlisti.

In un attimo Ernesto, consigliatosi col suo compagno, l’al­tro Comandante, decise di dare una prima prova della bravura del suo corpo e della veracità della sua missione: arringò con pochi, ma energici accenti i suoi soldati; quindi, quantunque non avesse mai pugnato in campo aperto, essendo stata l’opera sua, nel primo tempo della sua vita, adibita alla guerra di tavolino, si spinse alla testa dei suoi, che tutti erano uomini esperti ed atti alle armi, ed entrando in azione, mercé una ben regolata mossa sul fianco sinistro della colonna nemica, pose in sbaraglio questa e diede campo agli Spagnoli sperperati[14] di riordinarsi e tener fronte, mentre i repubblicani, imbaldanziti già della prima vittoria e spintisi troppo innanzi ad inseguire i fuggenti, furono colti quasi all’improvviso e rimasero sgominati e confusi, in modo che da vincitori che di già si stimavano, divennero perdenti e furono completamente sconfitti[15].

Il Cabecilla, che si mordeva le mani, avendo dovuto vedersi battuto alla presenza medesima del Sovrano, rincuoratosi insieme ai suoi, caricò di nuovo con tutta la forza il nemico e una rotta terribile ed una strage dei nemici fu immediatamente compiuta.

Ernesto, alla testa dei suoi, si coprì di gloria e non appena l’azione fu terminata, prendendo i Carlisti una quantità di prigionieri ed inseguendo per lungo tratto i repubblicani, corse a gettarsi ai piedi di Don Carlos, dicendogli:

– Ecco, Maestà! Ecco se è vero l’aiuto che noi veniamo a prestare al Vostro trionfo e se potete una volta di più contare sul nostro valore e sulla fedeltà nostra.

– Ma voi siete ferito? – disse Don Carlos vedendolo tutto asperso di sangue.

– È sangue nemico questo che mi vedete scorrere dalle mani, è sangue di coloro che ardiscono oppugnare il Vostro diritto ed armarsi contro di Voi; ma da oggi innanzi, Maestà, ardisco preconizzarvelo, la via che percorrerete non sarà che un continuato trionfo e le porte di Madrid saranno al più presto aperte alla Maestà Vostra.

– Lo spero ed accetto il buon augurio; ora è d’uopo profittare della vittoria, e giacché il nemico ha rimasta[16] la via aperta innanzi di noi, marciamo e che la Vergine ci sia propizia.

La marcia immaginata[17] seguì e per più di un mese non fu essa che un continuo trionfo, perché in tutti gl’incontri, in tutte le battaglie contro i soldati della effimera Repubblica spagnola, le armi di Don Carlos riuscivano vincitrici.


[1] Scompartimento. Letteralmente per legno si intende una barca.

[2] Stiletto, pugnale.

[3] Lasciandolo.

[4] Inganni, birichinate. È detto ironicamente.

[5] La locomotiva. Come nel precedente caso di legno, il termine è mutuato (o confuso) con quello marinaro.

[6] Ripetere.

[7] Si convinse.

[8] Del Parlamento francese.

[9] Mancato.

[10] Al grosso.

[11] Greppo: fianco brullo e ripido di un’altura.

[12] Nel testo: «percontati».

[13] Il basco Manuel Ignacio Santa Cruz y Loydi (1842-1926) fu un sacerdote e combattente carlista noto come “il curato Santa Cruz”. Attivo nella Terza Guerra Carlista, nel giugno del 1873 lasciò l’esercito legittimista per contrasti con i superiori. Entrò nella Compagnia di Gesù e si recò come missionario in Colombia, dove rimase fino alla morte. È descritto in due romanzi del 1909: Zalacaín el aventurero di Pío Baroja (terza opera della trilogia Tierras vascas) e Gerifaltes de antaño (trad. it.: Falchi di altri tempi) di Ramón María del Valle-Inclán, che conclude la Trilogia della guerra carlista.

[14] Scompaginati.

[15] Potrebbe trattarsi della battaglia di Eraul (5 maggio 1873 – Don Carlos era arrivato il 2 maggio) o di Udave (26 giugno 1873).

[16] Lasciato.

[17] Proposta.

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