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“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XVIII)

Posted by on Gen 24, 2023

“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XVIII)

Seconda parte

Capitolo XI. L’Aspide

Carlo, rimasto come tutti già sappiamo in Marsiglia, sconcertato nei suoi piani ed informato per mezzo di Simon della mala riuscita delle mene e delle operazioni della società, fremeva, non avendo potuto vendicarsi del suo nemico, ed andava escogitando un mezzo come poter arrivare ad ottenere il suo scopo, standogli molto a cuore la distruzione di colui che, secondo lui, gli aveva involata tutta la sua felicità e troncati i suoi vasti progetti.

Di notte tempo e servendosi di un ben immaginato travestimento, imbarcandosi su di un bastimento che salpava dal porto di Marsiglia per il porto di Cartagena, si fece colà trasportare per giungere in altro modo al compimento dei suoi voti, se fino allora non aveva potuto arrivarvi.

Cartagena era in quel momento in piena rivolta[1]: gli intransigenti si erano ribellati al governo e, non volendo in verun modo sapere di arrendersi, sprezzavano la Repubblica, sprezzavano il Pretendente e volevano solamente costituirsi assolutamente[2], avendo perciò creato un governo provvisorio ed una giunta che rappresentasse la città. La ribellione era al colmo ed i repubblicani stavano al di fuori della città bloccandola e minacciandola di bombardamento e di sterminio se non avesse cessato dalle sue utopie e [non] si fosse arresa a discrezione.

L’azione non era ancora principiata, quindi ai legni di bandiera estranea[3] non era impedito l’ingresso nel porto, né ai viaggiatori forestieri era negato dagli assedianti l’ingresso nella città. Ogni Nazione aveva in quei paraggi dei legni per proteggere i propri interessi e quelli dei connazionali residenti nella città, ed il commercio tra il di dentro ed il di fuori non era ancora interrotto.

Giunto il legno nel porto di Cartagena, Carlo, che anelava di metter piede sul terreno spagnolo, si diede tutta la premura di discendere ed inoltrarsi nella città; mille furono le difficoltà che dovette superare, ma dopo qualche giorno finalmente venne a capo di poter sbarcare ed inoltrarsi in Cartagena, cercando nei primi giorni di prender [informazioni sul] Paese, informarsi del come poter fare per raggiungere il suo nemico, del quale andava in traccia e che per notizie raccolte sapeva essersi unito a Don Carlos, ma senza saperne il sito, né poter immaginare il modo per trovarlo.

La sua maniera però sospetta ed il suo modo riservato di raccogliere notizie gli fu di molto nocumento, poiché cadde in sospetto del governo provvisorio e quantunque egli avesse adottato il linguaggio francese, pure, essendo stato riconosciuto per Italiano, fu immediatamente arrestato e condotto in prigione, perché giudicato spia dei repubblicani.

Lo sconsigliato Carlo, che non aveva saputo prevedere un tanto disastro, fremeva ed inutilmente si affaticava a provare la sua innocenza, tanto più che non poteva in verun modo ricorrere né al Console Francese, non essendo suddito di quella nazione e temendo essere conosciuto per l’omicida di Giuseppina, né potendo rivolgersi al Console Italiano di cui aveva [di]sco­nosciuta la nazionalità e paventando di poter anche inquietarsi[4] ed essere rimandato in patria, cosa che non voleva fare, pretendendo ad agni costo di volersi vendicare di Ernesto.

Era già scorsa la seconda notte, quando il carceriere – al quale egli aveva regalato dal primo istante del denaro, perché gli avesse fatto subito conoscere quale avesse dovuto essere il suo destino – entrato nella segreta dove si trovava così gli favellò:

– Cattive nuove, amico mio, cattive nuove.

– Come sarebbe a dire? Che significa questa parola cattive nuove?

– Significa, Voto a Dios[5], che la vostra sorte è poco felice: a quest’ora un tribunale improvvisato sta decidendo della vostra sorte, e voi…

– Ebbene?

– Difficilmente sfuggirete all’ultimo supplizio.

– Per Bacco! Sarebbe possibile!…

– Possibilissimo: voi siete stato giudicato una spia e contro le spie non vi è transazione. Per quanto ho inteso, domani nella spiaggia, alla vista della squadra assediante, riceverete una scarica di confetti nello stomaco e sarete da esempio a tutti coloro che saranno tentati, come lo siete stato vossignoria, dal desiderio di introdursi in Cartagena per sorprendere i nostri segreti e trasmetterli al nemico!

– Ma io…

– Ohé! O siate o non siate una spia, questo a me non importa; ma quello che posso assicurarvi è che nella vostra pelle non ne darei nemmeno la quarta parte di un maravedí.

– Ed una borsa ben guarnita non di maravedí, ma di monete d’oro francese ed italiane, bella e grande è pronta per te, se tu mi aiuti a fuggire.

– Fuggire!…

– Dato il caso che io muoio, a te che bene ne verrà?

– Per verità niuno; e questo è certo.

– E puoi tu sperare, anzi supporre in buona fede, che la tua patria Cartagena possa ancora per molto ancora sostenere un assedio come quello che i repubblicani le hanno posto d’intorno?

– Questo poi non lo so, ma se dovessi dire il vero, credo che a lungo andare la faccenda non potrà durare: resisteranno, resisteranno; ma poi…

– Ma poi?

– Dovranno cedere.

– Ed allora, non hai timore che quella figura che farò io sull’alba di domani, potrai far tu fra qualche giorno?

– Io!… ma io non sono che un semplice esecutore d’ordine!

– È vero; ma andrai confuso con coloro che ti avranno ordinato di tenermi in segreta.

– Ciò anche può essere…

– Per conseguenza, perché non vedi di aiutarmi e meco fuggire anche tu?

– Il pensiero, a dire il vero non sarebbe male… ma come si fa?

– A ciò dovresti pensar tu.

– Datemi due ore di tempo e ci penserò.

– Bada però di non tradirmi, perché allora io sul momento di andare a morte dirò ciò che è succeduto fra di noi e tu sarai punito anche prima della presa della città!

– Diego Perez non ha tradito giammai: vi avrei detto di no; ma siccome prevedo che qui la faccenda non potrà durar molto ed io ho nei monti verso i Pirenei una buona madre ed una bella innamorata, che certamente piangono per la mia lontananza, farò tutto il possibile di scappar via ed andarle a raggiungere; ma però ad un solo patto.

– E quale è?

– Che non appena saremo fuori del circuito della città e che saremo sicuri della nostra fuga, vossignoria aggiungerà a quello che mi ha dato un altra borsa simile.

– Ed eccola, che già te la lascio vedere.

– Benissimo!

– A coraggio come stiamo?

– Quanto ne è necessario ed anche di più.

– Allora tutto il mondo è nostro. Fido in te.

– Domani notte all’aria aperta!

Si strinsero la mano e Diego partì.

Carlo, rimasto solo, cominciò a ruminare dei progetti e la speranza della prossima libertà, nonché della vendetta a cui tanto anelava, gli tennero luogo di sonno, che non potette in verun modo avere a compagno per quella notte. L’alba finalmente apparì in cielo, i rulli di tamburo, i trambusti che anche dall’interno del carcere si sentivano, facevano giungere all’orecchio ed all’immaginazione di Carlo tutto quello che si faceva in Cartagena. Verso le undici del mattino Carlo intese di nuovo schiudersi l’uscio del carcere e presentatosi Diego, facendo segno di silenzio, gettò con precauzione un piccolo biglietto sotto il pagliericcio di Carlo, quindi introdusse un Magistrato seguito da diversi Alguezili[6], il quale con tutta la possibile gravità del carattere spagnolo lesse la sentenza emanata dal tribunale contro il prigioniero; sentenza che lo condannava alla pena della fucilazione da eseguirsi sulla spianata nella prigione, alla vista del mare, allo spuntare della novella ventura giornata. Letta la sentenza e partiti il Magistrato e la scorta, Diego accennò a Carlo il biglietto, indi seguì anch’egli gli altri, rinchiudendo di nuovo la porta a doppio mandato.

Rimasto solo, Carlo corse immediatamente a prendere il biglietto che Diego gli aveva accennato ed avidamente ne lesse il contenuto: «Tenetevi pronto verso la mezzanotte a seguirmi; tutti gli ostacoli sono superati; coraggio e partiremo tranquillamente, se un qualche sacro Ministro viene a trovarci, mostratevi docile e pregatelo che vi lasciasse riposare e che ritornasse poche ore prima della esecuzione. Silenzio».

Letto il biglietto, Carlo non trovando altro modo per distruggerlo, lo trangugiò, giudicando che un pezzo di carta nello stomaco non gli avrebbe fatto alcun male, mentre se fosse stato scoperto, gli avrebbe solamente arrecato sommo male; indi dopo di questo con molta arte, da commediante finito, si fece a prendere un’aria di compunzione e di tranquillità che avrebbe illuso ed ingannato il più esperto conoscitore del cuore umano.

Il mezzogiorno suonava e la porta si dischiuse di nuovo. Diego, precedendo il Magistrato già comparso la prima volta, entrò ed una occhiata d’intelligenza corse con Carlo tanto rapidamente che niuno avrebbe potuto accorgersene e quando l’uo­mo della Legge entrò, tutto era finito. Il Magistrato era accompagnato da un frate dell’ordine dei Cappuccini, uomo venerando dalla lunga barba bianca, che veniva, come Diego aveva preconizzato, a disporre il condannato all’ultimo passaggio.

– Condannato, disse il Magistrato.

– Eccomi, che cosa si vuole da me?

– Le tue ore sono contate, ma la clemenza del tribunale, pensando che un’anima cristiana che si appressa all’ultimo passaggio non deve essere abbandonata alle tentazioni del supremo nemico degli uomini e che, quantunque il corpo debba andar perduto, non è giusto che anche l’anima corra il rischio di potersi perdere unitamente al suo sviluppo, lo che in terra cattolica non deve permettersi, vi s’invia un santo sacerdote che venga a confortarvi c ad aprirvi la porta del paradiso.

– Sentirò con piacere e compunzione le cose che egli saprà dirmi, l’ascolterò e confessando le mie colpe spero di vedermi aperta la beata Sede dei giusti.

– Io parto, santo padre; lo lascio nelle vostre mani.

Ciò detto il Magistrato partì ed un altra occhiata di intelligenza corse tra Diego e Carlo; quindi la porta si rinchiuse e i due rimasero soli, accingendosi uno in buona fede ad ascoltare la confessione, mentre l’altro non intendeva che farne una ad pompam per acquistare del tempo e prepararsi alla fuga, preparandosi in tal modo a quella tale vendetta per la quale aveva rischiata la vita ed aveva intrapresa una escursione che non sarebbe caduta in mente a verun altro.

Due ore furono occupate per questa confessione, e dopo che Carlo aveva trattenuto per tanto tempo il reverendo Cappuccino, lo pregò che lo avesse lasciato solo, volendo egli riposare poche ore, ma che all’alba del giorno vegnente si fosse fatto rivedere perché intendeva gettarsi nelle sue braccia ed andare a morire accompagnato fino al punto della esecuzione. Il Cappuccino, benedicendolo nel nome di Dio, lo lasciò promettendogli che immancabilmente sarebbe ritornato per scortarlo e gli raccomandò di pregare e pregar sempre, essendo la preghiera la cosa più accetta a Dio e la via più sicura di essere esaudito nei propri desideri.

Rimasto solo, Carlo non fece altro che passare a rassegna tutti i mezzi possibili che Diego avrebbe potuto mettere in campo per arrivare allo scopo di fuggire dalla prigione. Riandò a tutto quello che in simili casi aveva letto in romanzi, in storie, aveva veduto praticare nei teatri; ma non poteva trovare nella sua mente un mezzo che gli fosse sembrato acconcio allo scopo stabilito; però, quando la notte giunse quasi alla metà, intese di nuovo schiudersi l’uscio e Diego ricomparve, come era il solito in quell’ora per rifondere l’olio alla piccola lampada e vedere se di qualcuna cosa avesse bisogno il prigioniero.

Carlo lo guardò quasi in tono d’interrogazione, al quale sguardo il carceriere rispose con un altro sguardo espressivo ed un dito posto verticalmente sulla bocca, segno di silenzio e di prudenza, gli fece comprendere che l’ora della fuga si accostava. Rinchiusa la porta di nuovo, Carlo si situò preso la medesima aspettando il momento di poter effettuare la desiata fuga e, protendendo l’orecchio, intese che nel corridoio, dove erano quattro soldati, il carceriere faceva una scena che dava l’idea di molta allegria, perché non si sentiva altro che un continuo ridere ed il rumore di diversi bicchieri; Carlo stava in forse sul suo destino: ora tremava ed ora sperava, e mille cose fantastiche gli passavano per la testa.

Ma che cosa mai accadeva fuori il corridoio?

Alla porta della segreta dov’era detenuto il condannato era stata posta una guardia di quattro uomini, perché non avesse potuto succedere veruno inconveniente e per fare sì che al­l’al­ba, non appena fosse spuntata in cielo, i medesimi l’avessero guidato al sito della esecuzione senza perdere tempo. Diego era istrutto[7] di questo fatto e siccome unitamente con loro doveva vegliare anche lui, così stabilì un piano strano ed ardito, ma dalla riuscita del quale doveva dipendere quella concertata fuga.

Giunta l’ora che doveva unirsi ai militi di guardia, se ne venne al suo posto e, chiamandoli tutti e quattro attorno a sé, disse loro con cera allegra e da buontempone:

– Camerati, questa notte è per noi piuttosto penosa: noi dobbiamo guardare e render conto di un condannato a morte, il quale domani farà la brutta figura che tutti sapete. Però, per custodirlo ed involarlo alla tentazione di fuggire prima che egli muoia, non dobbiamo morir noi di noia e di freddo in questo corridoio più gelato delle nevi della Sierra Nevada! Io ho pensato di aggiustare questo affare per quanto meglio si può e riscaldarci, se non altro per non morir noi assiderati, prima che egli non lo sia dalle palle dei moschetti.

Voto a Dios – disse il più vecchio dei quattro soldati – Voto a Dios ed a tutti i bravi intransigenti, che la cosa non mi dispiacerebbe: ma come si potrebbe fare per arrivare a questo scopo?

– Ho immaginato di vuotare più di una guastada[8] di buon vino di Malaga che ho potuto procurarmi questa mattina, burlando una bella giovinetta, che assolutamente voleva vedere un Idalgo, anche arrestato in questo carcere ed alla quale ho dato ad intendere che non prima di domani, dopo l’esecuzione di costui, l’avrei favorita: essa, tutta contenta, ha fatto snocciolare nelle mie mani un bel gruppetto di reali e poscia, come figlia di un negoziante del succo dei grappoli, mi ha mandato per mezzo di un garzone due grossi fiaschi di Malaga, che io che ne son conoscitore ho assaggiato ed ho visto essere di quello, ma veh!, di quello di prima qualità.

– E l’hai con te questo nettare?

– L’ho conservato nel mio stanzino, accompagnato da pane e formaggio e da diverse salacche[9], che col loro sapore pizzicante ce lo faranno gustare come si conviene.

– Tu sei un brav’uomo!

– Un compagnone rispettabile! – soggiunse un altro dei militi di guardia, a cui non dispiaceva affatto di dare un baciozzo al fiasco di Malaga.

– Va dunque! – riprese il terzo, che in quel momento col fucile in spalla faceva la fazione innanzi la porta del carcere – L’aria fredda di questo corridoio è talmente penetrante, che veramente mi dà fastidio.

– Corri, corri a prendere il vino e le salacche.

– Vado, disponete questi due scanni a guisa di desco e ci metteremo a cavalcioni: per Diana, ci è vietato di poter accendere del fuoco in questo sito, che ci fa fare la pelle d’oca, e noi ci riscalderemo bevendo!

– Unico mezzo che non ci potrà essere proibito!

– Di vigilanza non credo che ne avremo timore, perché questi signori della giunta e del Tribunale hanno tanto da fare e da pensare, che difficilmente s’incaricheranno di sorvegliare le carceri: potremo far baldoria a nostro piacere.

Diego si alzò e corse a prendere il vino e l’altra roba che aveva indicata, mentre i quattro soldati, come egli aveva loro detto, accomodavano i due scanni formando un desco. Carlo, che stava tutt’orecchi, intese i discorsi fatti e comprese il pensiero del carceriere; perciò non si scostò un istante dalla porta per assistere coll’udito all’andamento del resto della scena e per potersi regolare come meglio avesse potuto.

Diego ritornò, i soldati diedero subito mano al pane, al formaggio ed alle salacche e poscia, guardando i due grossi recipienti ricolmi di vino che erano comparsi in tavola, si consolarono e fecero il bocchino dolce, pensando, che tutto quel liquido doveva in brev’ora passare nel loro stomaco.

Diego era esimio bevitore ed aveva calcolato che anche dandoci sotto ben bene per la sua porzione, onde accreditare la faccenda, non gli avrebbe fatto male; perciò senza dar sospetto alcuno fu il primo che pose il labbro in faccia al fiascone, che poscia passò di mano in mano agli altri e tutti diedero una magnifica sorsata per ciascheduno.

Il vino era buono; gli Spagnoli, sobri in quanto a mangiare, sono piuttosto ghiotti del contenuto delle botti e fra quei quattro rivoltosi di Cartagena ve n’erano specialmente due che non si facevano pregare quando dovevano dar sotto ad innaffiarsi il gorgozzule e perciò, in men che nol dico, il primo fiasco fu vuotato e colui che era stato fin allora in sentinella fu il primo che, non reggendosi più in piedi, cadde bocconi, addormentandosi di un sonno molto profondo e tirandosi pochi momenti dopo appresso a sé il primo e più attempato dei quattro, che di sua porzione aveva bevuto un buon terzo del liquore di Bacco.

Diego vedeva addormentarsi i quattro ad uno ad uno, ma non quieto però se prima tutti non vedeva immersi nel sonno, dipendendo da tale fatto la riuscita del suo progetto.

A poco a poco il terzo, che ancora si reggeva, cadde an­ch’es­so oppresso da un sopore grave e non rimasero che Diego e l’ultimo dei soldati.

Il carceriere, visitato il secondo fiasco, vide, che nella sua pancia conteneva ancora qualche poco di vino, per conseguenza fece la proposizione all’ultimo rimasto, già imbambolato anche lui, di dividere da fratello quello che ancora era nel recipiente; accolta favorevolmente la proposta, egli pel primo bevette o finse di bere, non facendone scendere nel suo stomaco nemmeno un gocciolo di più, e poscia porse il fiasco al compagno che, accostatolo al labbro, lo vuotò completamente, riunendo tutto quello che ivi ancora si conteneva all’altro di già bevuto e per conseguenza, non potendo più resistere alla forza dell’ubriachezza, cadde anch’egli come erano caduti gli altri e Diego rimase completamente padrone del campo e respirò, comprendendo che avrebbe finalmente potuto pensare seriamente a ciò che doveva fare.

La prima sua cura fu quella di ungere ben bene d’olio la chiave della prigione, perché nell’aprire la porta non avesse col suo troppo stridere fatto grande rumore e scoperta la trama, quindi si accostò con tutta la precauzione, tremando, perché in sostanza il passo che dava[10] era molto ardito, ed aprendo con tutta la precauzione l’uscio, chiamò a bassissima voce Carlo, che era già in piedi, quantunque le catene che lo cingevano non gli dessero agio di potersi troppo muovere; ma essendo queste cadute in un attimo, perché dischiuse da Diego, entrambi con la rapidità del lampo e con la leggerezza di una lepre, avendo prima rinchiuso l’uscio della prigione, fuggirono pel corridoio, saltando come scoiattoli per sopra i dormenti e, scendendo una lunghissima e ripida scala per la quale Diego fece da guida al compagno, si trovarono al livello del[11] cortile, che traversato con precauzione per dietro certi archi non praticati, giunsero ad una bassa porticina, la quale fu dischiusa con una chiave che Diego conservava ed uscirono in un piccolo giardinetto mal guardato e senza guardie perché dalla parte di terra, essendo tutta la vigilanza degli assediati portata dalla parte del mare d’onde accorreva il pericolo, e quindi con tutta l’agilità possibile, scavalcando un basso e quasi diruto muro e tre o quattro siepi spinose, uscirono all’aperta campagna, la quale oltrepassata rapidamente, in meno di un’ora, per vie non conosciute da Carlo, ma conosciutissime da Diego, si trovarono fuori città.

Colà giunti ad un osteriaccia di pochissima apparenza e fatta una parca colezione[12], per mettersi in forze, ripresero il loro cammino e, giunti che furono ad un punto in dove dovevano dividersi, nel dirlo a Carlo ed insegnargli la via che avrebbe dovuto tenere, per poter poi pianamente raggiungere la meta sua, gli domandò il resto del pattuito compenso; alla qual cosa Carlo, senza farsi replicare porse al carceriere l’altra borsa, che per fortuna non gli era mai stata tolta, non avendo i Cartaginesi pensato a farlo, ma nel passare nelle mani di Diego il denaro e stringerlo al seno, dandogli un bacio, con tutta la destrezza e sollecitudine possibile gli strappò dalla tasca un pugnale, che quegli aveva e glielo confisse con tutta la forza nel petto, facendolo rimanere all’istante cadavere, non avendo il misero potuto emettere che un solo grido, e poscia, curvandosi sopra esso, ripigliò il suo denaro, ritenne lo stile, gli rubò anche tutt’altro che aveva del suo e la giacca, distintivo[13] di carceriere, che indossò subitamente e dopo averlo guardato con un riso di disprezzo e compassione, si allontanò, prendendo pel momento la strada indicatagli e progettando di insegnarsi man mano l’altra che doveva percorrere per giungere al più presto possibile alla destinazione dove egli intendeva di arrivare.

Qual erano dunque i suoi progetti?

Che intendeva fare per vendicarsi?

Lo vedremo.

Capitolo XII. La battaglia di Montejurra

Mentre tutto ciò succedeva e la mattina i Cartagenesi si accingevano ad eseguire la giustizia della spia, trovarono tutto ciò che era succeduto e rimasero esterrefatti e sorpresi, né potettero far altro che far cadere il peso della stessa giustizia sopra i poveri quattro soldati avvinazzati, vittima prima di un inganno e poscia del mancato loro dovere.

***

Gli affari dei Carlisti camminavano prosperamente: ovunque la vittoria seguiva le loro bandiere e specialmente il corpo comandato dal legittimo sovrano Don Carlos non si trovava perdente in verun incontro. Ernesto era divenuto il carito[14] del Pretendente e l’opera sua in Francia ed in Italia, dove manteneva estesa corrispondenza, era utilissima al Re, ché soccorsi di armi, armati e danari immantinente arrivavano e già da per tutto si sperava che dopo l’effettivo trionfo del legittimismo in Ispagna, avrebbe a tempo e luogo potuto succedere lo stesso ed in Francia ed altrove, scopo principalissimo e generale di tutti coloro che si erano cooperati e si cooperavano per tanto scopo.

Le armi repubblicane non erano più troppo fortunate in faccia ai loro nemici e la insubordinazione delle truppe era palese: ogni giorno, si può dire, oltre delle rotte che esse ricevevano, le colonne del governo si vedevano assottigliate mercé pronunciamenti e diserzioni, che continuamente succedevano. L’entusiasmo dei Carlisti cresceva da momento in momento, mentre l’avvilimento dei repubblicani era estremo, non contribuendovi per poco l’affare disastroso di Cartagena, come prima tutte le altre ribellioni di altre singole e cospicue città[15], che quantunque già vinte, conservavano sempre il germe di un odio e di un fanatismo difficilmente tale da potersi superare.

Castelar[16] pronunciava degli studiati discorsi nell’as­sem­blea delle Cortes assicurando che le cose della effimera Repubblica andavano sempre per bene, ma egli stesso era persuaso che tutto ciò che diceva era ad pompam, essendo i fatti molto contrari alle parole.

Ernesto si era per qualche tempo allontanato e, recatosi nella città di San Sebastiano dove aveva avuto un abboccamento con uno dei suoi colleghi venuto dalla Francia a comunicargli cose riguardanti la comune causa nel più stretto incognito, non era stato conosciuto da nessuno. Solamente l’ultima sera, mentre dopo aver avuto un lungo discorso col suo corrispondente ed aver secolui stabilite molte cose interessanti, si recava di nuovo al suo albergo, vide o gli parve di vedere un uomo che da lontano lo pedinasse e gli tenesse l’occhio addosso; si meravigliò da principio, ma poscia si persuase che non era niente difficile che una spia avesse vigilati i suoi passi e quindi, [giunto] all’albergo, cercò di far insellare un buon cavallo che aveva ed immantinente prese la via di fuori città per ritornarsene presso l’accampamento di Don Carlos, invero molto lontano da quella città di frontiera.

Lungo il cammino niun’avventura gli successe più; il suo timore svanì e si era anzi interamente assicurato che non gli sarebbe accaduto più nulla di male, quando all’inoltrarsi in un bosco per dove necessariamente doveva passare, si vide circondato da una squadra di gendarmi del governo, che guidati da un loro comandante e da un uomo che egli non riconobbe da principio, perché imbacuccato in un largo mantello, fu fermato e, intimatogli l’arresto, fu posto in mezzo e si riprese la via di San Sebastiano per guidarlo al carcere.

Ernesto, nulla sgomentato però da questo fatto, si arrestò in mezzo la campagna e chiese il perché veniva ricondotto in San Sebastiano e guidato al carcere.

– Per essere punito dei tuoi misfatti. – disse il Comandante della scorta – Tu sei un agente carlista e noi soldati del governo: siamo obbligati assicurarci della tua persona, perché sei un vile, un traditore della patria.

– Vile e traditore della patria non sono io! – rispose, come ispirato Ernesto – Vili e traditori della patria sono solamente coloro che servono un governo iniquo e scellerato; ma giacché voi mi conoscete tutti per un agente carlista, io non disconfesserò l’esser mio e vi confermerò che tale mi sono; ma però, seguendo le bandiere del glorioso Don Carlos e secondando i suoi sforzi perché recuperi di nuovo il Trono che di diritto gli spetta e che non è altro che il legittimo retaggio degli avi suoi, io credo di fare l’opera la più santa, la più bella e perfetta, cooperandomi perché il discendente di Carlo v ristabilisca il suo trono rubatogli in diversi incontri dai suoi nemici. E voi, che arrestandomi e guidandomi al carcere contribuirete a fare sì che egli perda uno dei suoi più fedeli ed esperti agenti, farete opera nefanda, perversa, avvilirete il vostro nome di uomini onesti, di militari accorti, di Spagnoli amanti della vostra patria e la Storia vi segnerà nelle sue pagine col vero nome di traditori di essa.

– Noi… traditori!

– Sì, lo siete, perché se veramente amaste il vostro Paese e ne curaste gl’interessi, invece di condurmi al carcere e ad una sicura morte, vi unireste meco e recandovi al campo del vostro legittimo Signore, contribuireste con la vostra opera, col vostro valore, col sangue vostro al suo trionfo e alla grandezza ed alla felicità della Spagna.

– Ma, signore, noi abbiamo giurato…

– Un giuramento prestato per una cattiva causa non viene accolto nel cielo, né l’anima di colui che non lo serba viene in nulla macchiata per averlo trasgredito. Venite, correte meco: da persecutori, diventate seguaci di chi è stato da Dio stesso destinato a darvi la vera felicità! Ed allora, cancellando il male già fatto e giurando di nuovo ai piedi del Sovrano la vostra fedeltà, sarete benedetti dal cielo, farete la più bella e santa opera e vi ricoprirete di gloria eterna ed imperitura.

Viva Don Carlos! – esclamò a questi accenti il Comandante dalla scorta dei Gendarmi – Amici, voi sentite tutto ciò che questo brav’uomo ha detto?

– Lo sentiamo!

– E tutti siamo del suo parere!

Viva Don Carlos! – gridarono in coro – E morte a chi, spiando i vostri passi, ci aveva fatto commettere un gran sacrilegio! Ma ora tutto è cangiato: andiamo, voliamo tutti a raggiungere il nostro Sovrano! E tu, – disse rivolgendosi all’uomo involto nel tabarro – e tu che sei stato il primo a denunciare questo nostro amico, ritorna ai tuoi sedicenti signori e di’ loro…

– Che mai?… Oserete voi?…

– Oseremo fare ciò che il nostro dovere ci comanda. Di’ dunque ai comandanti della città d’onde siamo partiti, che Gil Perez, il comandante dei sei valorosi gendarmi venuti per eseguire l’arresto dell’emissario carlista, vergognandosi di essere gli sgherri degli effettivi tiranni della Spagna, si sono ricreduti e corrono invece a pugnare sotto le gloriose bandiere del legittimo Sovrano.

– Sciagurati! Ma voi sarete puniti!

– Per ora è d’uopo che ti allontani tu, o che un colpo di fucile saprà farti pagar cara l’audacia che tu hai d’insultarci. Parti!

Parti! – gridarono in coro tutti.

– Parto; ma però la mia missione non è finita. Ernesto, riconoscimi: tu mi sfuggi di nuovo dalle mani; ma ti raggiungerò, oh sì, ti raggiungerò!

Ciò dicendo sciolse un poco il suo mantello, che aveva fortemente avvolto attorno al collo, e mostrò per pochi istanti il suo viso. Ernesto, nel riconoscerlo, esclamò:

– Carlo, tu!…

– Io, e sempre io!

Indi, dato di sprone al cavallo che lo portava, si diede a tutta corsa a scappare verso San Sebastiano, prima che gli altri avessero potuto immaginare una simile risoluzione.

– Ch’ei vada perduto! – disse Gil Perez – Non si ritardi un solo istante: cerchiamo di raggiungere il glorioso Don Carlos!

– Seguitemi dunque allegramente e siate più che certi che egli ci accoglierà come un padre perché voi, nel pugnare per lui, non farete che pugnare per la madre patria, la Spagna.

Partirono tutti al galoppo ed in breve tempo giunsero al campo di Don Carlos, dove vennero accolti come fu accolto il figliuol prodigo dal vecchio genitore delle antiche carte. Ernesto, presentando i gendarmi ed il loro comandante, prese su di sé l’impegno che essi avrebbero fatto il loro dovere e diede malleveria sulla sua vita e sul suo onore che non avrebbero in alcun modo mancato al proprio obbligo, lasciando, se fosse occorso, il loro sangue per la Spagna, pel loro Re.

– E presto, – disse Don Carlos – presto si presenterà l’occasione di mostrare la loro valentia ed il loro onore; non andrà guari[17], siccome le previsioni addimostrano, una battaglia molto seria sarà ingaggiata fra noi ed i repubblicani. Voi, in tale occasione, mi darete prova di ciò che saprete fare ed io andrò superbo di avere fra i miei degli eroi che, ammaliati finora da un malinteso amor di patria, avevano piegato l’orec­chio alla voce dell’onore ed ora, aprendolo, mostreranno che gli Spagnoli possono errare, ma saranno sempre quegli Eroi che furono fino da tempo immemorabile.

Tutto ritornò nell’ordine e nella calma, cosa che non potette essere per certo in Carlo, che mentre ritornava nella città dove aveva fatto succedere l’arresto di Ernesto, perché pensava che invece di gloria da questa denunzia, gli sarebbe venuta onta ed avrebbe avuto invece di premio una punizione, che lo avrebbe perduto invece di esaltarlo; ma il cavallo correva, correva, correva ed egli non poteva frenarlo; ma si fermò[18] in un progetto che gli balenò alla mente; chiese a se stesso come avrebbe potuto fare per metterlo in esecuzione e siccome il suo corsiero era talmente aizzato a corsa e non poteva frenarlo, trasse dalla fodera dell’arcione una pistola e sparandola nell’o­rec­chio del cavallo lo fece cadavere e gettandosi contemporaneamente dalla sella si trovò in piedi e scavalcato[19] senza alcun pericolo; poco lungi da quel luogo vi era una capanna di meschina apparenza, una capanna da carbonari: egli vi si cacciò dentro e colà incominciò a riflettere ben bene su ciò che doveva fare e quando ebbe ben maturato il disegno che gli balenava in mente, avvoltosi di nuovo nel mantello, uscì pedestre[20] ed invece di ritornare alla città, rivolse i passi per la via che portava al campo carlista.

Il suo tragitto, perché fatto a piedi, non potette essere certamente tanto breve come quello di Ernesto e dei gendarmi; ma pure era da poco spuntata l’al­ba che si trovò nelle vicinanze del campo e potette da un’altu­ra vicina scorgere tutto l’esercito del Pretendente ed in lontananza quello dei repubblicani. Si fermò ad osservare l’imponenza di quelle due masse che si contrastavano i futuri destini della Spagna e rifletté che dal maggiore o minor coraggio di quegli uomini dipenderà la distanza dei due drammi che stavano per involgersi[21], misurando la distanza che passava tra il decidersi di una grande giornata influente su di un fatto di tanta importanza e la sua vendetta, che nella generalità degli avvenimenti europei si riduceva a cosa di tanto poco momento da non interessare che forse appena lui solo.

Il sole cominciava a poco a poco a comparire ed irradiava con tutta la forza l’accampamento carlista, mentre che l’altro, situato in sito più basso, rimaneva ancora in una penombra che non ne faceva ben distinguere la posizione.

I Carlisti, maggiori è vero di numero, ma non agguerriti, né forniti che di poca artiglieria e cavalleria, avevano – militarmente – parlando minor probabilità di vittoria. Ma per loro pugnava Iddio, coadiutore della loro giusta causa, che rendeva perciò più formidabili le loro braccia e più ardito il loro coraggio.

Essi erano fiduciosi da una parte, ma i loro capi erano prudenti e titubanti ed usavano tutte le precauzioni perché la pugna che andava ad impegnarsi fosse condotta con prudenza e destrezza; tutti giravano per le fila, incuorando i soldati, e lo stesso Re non si mostrava da meno degli altri, portandosi da per tutto, acciò la sua presenza avesse resi sempre più baldi i coraggiosi ed avesse influito sopra i meno arditi.

Ernesto alla testa del suo corpo, unitamente al suo compagno francese, imprese così ad arringarli con tutta la forza possibile:

– Amici, ecco il secondo cimento serio nel quale noi dal punto che ci siamo uniti coll’esercito reale ci troviamo; rammentatevi del primo, di cui noi fummo coloro che ne risolvemmo la vittoria. Voi Francesi, pensate che la vostra fama e perizia nelle armi non è mai scemata e, quantunque gl’Ispani siano anch’essi valorosi e bravi nel campo, dimostrate che servendo una buona causa né il numero, né i mezzi dei nemici sono tal cosa da farvi indietreggiare e la vostra sveltezza e la vostra grande agilità vi facciano padroni indubitatamente della vittoria. Voi però Italiani, che combattete insieme ai vostri fratelli, rammentatevi della gloria imperitura che ormai sempre vi siete acquistata pei campi di battaglia; richiamatevi alla mente quei Romani, vincitori in tutte le guerre combattute; abbiate presenti i vostri avoli, che riuniti contro il Barbarossa gli fecero mordere la terra e fuggire vergognosamente innanzi a loro ed imitatene l’esempio valoroso per la giusta causa che difendete; ed ogni colpo che vibrerete sia fulmine che abbatte, schianta, distrugge questi propugnatori di una libertà falsa e bugiarda, poiché non potrà mai esservi libertà alcuna dove non v’è legittimismo e potere sovrano acquistato per sacro, per santo ed imperituro diritto divino.

Terminate appena queste parole, mentre il sole aveva più apertamente illuminato il panorama che si presentava agli occhi di Carlo, un colpo di cannone fece correre tutti ai propri posti: la battaglia incominciava.

Il generale Moriones[22], comandante dalle truppe repubblicane, aveva immaginato di attaccare contemporaneamente su tutta la linea i Carlisti, superiori a lui di forze, appunto per sorprenderli e spingerli dinanzi a sé, senza dar loro tempo di poter badare ad un combattimento ben regolato; la sua artiglieria fu destinata a spazzare per la prima il nemico, il quale non potendo metterne in batteria altrettanta, certamente non poteva resistere secondo i suoi piani all’attacco preparato.

In effetti, alle prime cannonate tratte a mitraglia, le fila dei Carlisti furono sgominate e la morte che continuamente cadeva e con assiduità in mezzo a loro diede molto da pensare ai Comandanti, che raccoltisi a momentaneo consiglio di guerra, videro che aspettando di piè fermo il nemico, difficilmente avrebbero potuto contrastare la vittoria ai repubblicani e sottrarre le loro truppe ad una certa strage.

Immaginarono perciò di prendere essi l’offensiva, invece che rimanersene in una malintesa difensiva, che certamente avrebbe loro arrecato male e perciò, senza perder tempo, fecero suonare la carica e tutti i pedoni[23] ed i pochi cavalieri si slanciarono al galoppo ed al passo di corsa contro le fulminanti artiglierie e confusi[24] Spagnoli, Italiani, Francesi, gridando a tutta gola «Viva il Re! Viva Don Carlos!», con ardire indicibile assalirono le batterie nemiche, per modo che i primi accorsi incontrarono coraggiosamente e da Eroi la morte, perché le artiglierie nemiche fulminavano terribilmente e senza posa alcuna. I primi ed i più arditi pagarono col proprio sangue e la propria vita il coraggio che li guidava; ma mentre cento cadevano per primi, gli altri con impeto maggiore si slanciavano innanzi e fra questi si distinguevano i Francesi e gl’Italiani, che con valore e slancio indicibile davano agli altri l’esempio di una fermezza ed abnegazione proverbiale.

La battaglia durava da qualche tempo; da ambo le parti prodigi di valore si osservavano con tutta gagliardia. I repubblicani assalitori, più esperti alle armi perché truppe più regolari e disciplinate, avanzavano, quantunque la resistenza fosse tremenda, lentamente ma con ordine e precisione; i Carlisti – guidati dallo spirito dalla giustizia che era loro guida e dal pensiero che pugnavano contro truppe assai a loro superiori se non per numero, certamente per ordine e disciplina – facevano coi loro petti ostacolo fortissimo all’impeto dei nemici.

Per un momento però la fortuna parve interamente propizia ai repubblicani, i quali guadagnarono molto terreno ed i Carlisti retrocedettero, senza quasi poter più resistere; ma il generale Moriones, infatuato da un effimero vantaggio, esclamando «Voto a Dios, che questi assassini sono finalmente distrutti», diede ordine alla cavalleria di dare maggiormente addosso; ma la cavalleria, impegnata in un terreno montanino e boscoso, non potette eseguir bene ciò che gli era stato comandato, di modo che produsse, invece di bene, confusione nelle stesse file dei repubblicani, tanto che, vistosi questo, alcuni dei condottieri carlisti espertissimi ed animati da supremo zelo spinsero con ardire i loro guerrieri innanzi ed il nemico, che sembrava di già vittorioso, fu da principio respinto, poscia completamente sbaragliato e quindi posto in completa rotta, inseguito per lunghissimo tratto, restando punita in tal modo la vanagloria del generale Moriones, che al pari di Cesare aveva pronunziato il suo «veni, vidi, vici», mentre in sostanza toccò una delle più terribili sconfitte che si possano immaginare nei fasti tutte le battaglie combattute[25].


[1] Il Cantón de Cartagena o Cantón Murciano fu l’insurrezione federalista durata dal 12 luglio 1873 al 12 gennaio 1874.

[2] Cioè, in modo autonomo.

[3] Straniera.

[4] Mettersi nei guai.

[5] «Giuro a Dio!».

[6] Alguacil, funzionario del tribunale.

[7] Istruito, a conoscenza.

[8] Caraffa con corpo largo e collo stretto, simile al fiasco.

[9] Salacca (o saracca): sarda, aringa o altro pesce simile conservato sotto sale o affumicato.

[10] Faceva, intraprendeva.

[11] Nel testo: «in piano dal».

[12] Antica variante di colazione.

[13] Divisa.

[14] Favorito.

[15] La ribellione (o rivoluzione) cantonale si estese a una dozzina di città, le cui più importanti furono Alicante, Ávila, Cadice, Granada, Málaga, Salamanca, Siviglia e Valencia.

[16] Emilio Castelar (1832-1899), democratico, liberale e repubblicano, fu il quarto Presidente della Prima Repubblica spagnola per ben quattro mesi (dal 7 settembre 1873 al 3 gennaio del 1874), preceduto da tre Presidenti in sette mesi e seguito da un quinto, Francisco Serrano, che resse la carica per tutto il 1874, prima del ritorno alla Monarchia.

[17] «Non andrà guari»: non passerà molto (tempo).

[18] Confermò.

[19] Scesa dalla cavalcatura.

[20] A piedi.

[21] Svolgersi.

[22] Domingo Moriones y Murillo, Zabaleta y Sanz (1823-1881).

[23] Fanti.

[24] Uniti.

[25] Lo scontro, pur descritto con una certa fantasia, ha due caratteristiche (lo svolgimento in montagna e il comando dell’esercito repubblicano affidato al generale Moriones) che rimandano alla prima battaglia di Montejurra (7-9 novembre 1873), rimasta mitica nell’immaginario carlista.

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