“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) introduzione di Gianandrea de Antonellis (IV)
Lo Trovatore, Il passato ed il presente ovvero “Ernesto il disingannato“ Prefazione S.A.R. Don Sisto Enrico di Borbone Abanderado de la Tradición Introduzione e cura del testo Gianandrea de Antonellis Postfazione
Prefazione S.A.R. Don Sisto Enrico di Borbone Abanderado de la Tradición Introduzione e cura del testo Gianandrea de Antonellis Postfazione
Francesco Maurizio di Giovine con due scritti inediti di Don Carlos vii, Duca di Madrid e di Francisco Elías de Tejada
Trasbordo ideologico avvertito (e coerente)
In compenso, come detto, proprio questa seconda parte si rivela essere decisamente innovativa in quanto a contenuto: poco alla volta, assistiamo ad un coerente ed avvertito “trasbordo ideologico”, per cui non è possibile essere legittimisti pensando esclusivamente ad una restaurazione locale, ma il Trono e l’Altare vanno ristabiliti in tutta Europa e i princìpi cardine del Carlismo, concretizzati nel motto «Dios, Patria, Fueros, Rey», devono essere condivisi da tutta la comunità tradizionalista monarchica e cristiana.
«Roma, Francia, Spagna» (Seconda parte, capitolo 3: II, 3): con questa concisa frase il Duca di ***, il capo dei comitati borbonici di Napoli, riesce a convincere il protagonista ad ampliare i propri orizzonti e a ritenere credibile un’impresa restaurativa che a Napoli sembrava ormai tramontata: non si può, cioè, difendere il Trono e l’Altare senza abbracciare i principi del legittimismo ispanico, che sono validi per tutto il mondo.
Ecco perché, come visto[1], essi vengono “tradotti” in un linguaggio perfettamente comprensibile ad un qualsiasi lettore napolitano (ed italiano): «Per Dio, per la Patria, per la Giustizia e pel Diritto legittimo!!!».
Per la Giustizia, poiché il concetto di fueros, l’insieme dei diritti municipali e regionali, secolarmente radicati, nella storia della Spagna, era poco noto nell’ormai completamente francesizzata Napoli di fine xix secolo[2]; per il diritto legittimo in quanto un altro diritto e un altro re, non legittimi ma usurpatori, erano già presenti nello Stato italiano, ma non per questo potevano (e tuttora non possono) essere considerati accettabili.
L’entusiasmo per l’epopea di Carlo vii, il pretendente legittimo al Trono di Spagna, protagonista della Terza guerra carlista, che sembrava sul punto di entrare a Madrid, è evidente nei giornali dell’epoca. La «Civiltà Cattolica» riconosce in lui la “luce dello spirito cristiano” opposta non solo alla prima repubblica spagnola, ma all’intera mentalità liberale:
Questa luce, che si fa ogni giorno più vivida, offende gli occhi del liberalismo e lo sbigottisce. […] Ond’è che a questa luce esso da per tutto comincia a leggere la sua sentenza di morte. […] In particolar modo poi la legge e rilegge nella bandiera che, dai Pirenei all’Ebro, le milizie di Carlo vii tengon alta e gloriosa, e incoronano di sempre nuovi allori. Tra le pieghe di quell’insegna, da oltre un anno lacera e insanguinata, ma non mai vinta, brilla come astro un motto, che è il fatale mane, thecel, phares[3], dell’odierna barbarie liberalesca. Al suo ateismo che nega ogni religione, al suo socialismo che distrugge ogni civiltà, alla sua anarchia che rigetta ogni potere, quel vessillo oppone Dio, la Patria, il Re; cioè dire il vero centro della religione, il vero vincolo della civiltà, il vero fondamento dell’umano consorzio. Perciò la bandiera di Carlo vii rappresenta magnificamente i tre grandi concetti antirivoluzionarii, la cui prevalenza, non nella sola Spagna, ma nella maggior parte d’Europa, ristorerà gli ordini della civiltà cristiana, sopra le ruine ammucchiatevi dal liberalismo. Sotto questo rispetto, le vittorie che essa nella Biscaglia, nella Navarra e nella Catalogna va conseguendo, sono di ottimo augurio; e meritano il favore di quanti amano il trionfo della pace nei popoli e della giustizia nel mondo.[4]
Anche Il Trovatore segue l’epopea carlista: nel 1874 la pubblicazione della seconda parte del romanzo va di pari passo con l’entusiastica descrizione delle vittorie di Don Carlos di Borbone; sabato 10 gennaio definisce «colpo diStato» la nomina di Francisco Serrano a presidente della repubblica del 3 gennaio precedente ed «illegittimo» il futuro (dal successivo 29 dicembre) Alfonso xii, figlio di Isabella ii, «essendoché la madre sua regnò per opera della setta, e contro ad ogni dritto», esaltando nel contempo le imprese di Carlo vii «che non cederà certo il già acquistato per far posto a pochi cialtroni pagati dall’estero per fare della Spagna una schiava ai cenni della Prussia»
Sabato 12 settembre 1874 – mentre esce la penultima puntata di Ernesto con la descrizione della vittoria di Montejurra – sotto il titolo di apertura Il genio del male viene attaccato Bismarck (anzi, Bismark)[5], reo di non assecondare il progetto restaurativo del pretendente carlista nonché di essere «il paladino dello agonizzante governo serranista», e si conclude affermando perentoriamente:
Lasciate che la Prussia intervenga, e quel giorno D. Carlos potrà dire ai suoi soldati, la campagna è finita. Andiamo a riposarci a Madrid… Per ora i repubblicani ànno avuto una altra perdita ed i Carlisti sono ad otto leghe da Madrid!!!!…
Firmato, naturalmente, Il Trovatore. E così l’intera prima pagina è dedicata ai fatti di Spagna, mentre un trafiletto in terza sottolinea i buoni rapporti di Don Carlos con lo Zar di Russia.
Simili, nella struttura, altri numeri del giornale[6], che vedevano correre di pari passo l’entusiasmo degli editoriali coronato dall’emozione narrativa e corroborato dalle notizie provenienti dalla Spagna. Sorge il dubbio di un’unica penna, almeno per i due pezzi di prima pagina.
Un romanzo ideologico per l’internazionale legittimista?
In Ernesto il disingannato un elemento rivelatore giunge dall’uso di due termini: rivoluzione per indicare (e qualificare) il risorgimento; e legittimismo, ripetuto più volte nella seconda parte del romanzo, a sancire il passaggio dalla mentalità puramente difensivo-negativa (nel senso di anti-risorgimentale) della prima parte a quella positiva e propositiva della seconda.
In generale, la lucidità analitica dell’autore si evince dall’attenzione riservata ad elementi “politici” e propagandistici che la storiografia mette generalmente in secondo piano rispetto alle ultime vicende militari del Regno: in particolare la nefasta opera di demolizione – che tanto peso ebbe dopo l’aggressione e che continua ad averne, perfino ai nostri giorni! – orchestrata per oltre un decennio dai fuoriusciti del Quarantotto a partire dalle celeberrime lettere di Gladstone e sostenuta dalla sempre più pressante propaganda piemontese:
In Italia fino all’epoca indicata il fermento era immenso, quantunque nascosto nel più segreto dei cuori, ma il Conte di Cavour lo fomentava, proteggendolo quasi apertamente, e preparava con arte sopraffina da per ogni dove le fiammelle che dovevan poi produrre l’incendio spaventevole che, scoppiato in Sicilia, divampò in un attimo ed al quale si diede il nome di rivoluzione dei popoli, ma che non fu che l’esito di un lungo e tenace concerto di un dramma macchinato da uomini astuti a tavolino e sviluppato con l’aiuto potentissimo dell’oro, retto ai fianchi dall’urto e dall’infamia. (I, 2)
La stessa lucidità risulta dall’elenco dei mali contemporanei: non soltanto (allora come ora!) la denuncia delle onnipresenti tasse o dell’utilizzo “terroristico” del trasferimento coatto, anticamera del licenziamento, per i pubblici funzionari di riconosciuta fede borbonica[7]; ma anche la denuncia dell’apertura alle altre religioni[8] e delle conseguenti limitazioni alle manifestazioni di fede cattolica[9], prima causa del dilagare dell’immoralità nella società civile.
Di fronte a tanto sfacelo, il protagonista Ernesto diventa quindi un “Napolitano medio”, che pur rendendosi lucidamente conto di come intorno a sé trionfi l’arrivismo di coloro che sfruttano cinicamente il moto rivoluzionario, non è però capace di opporvisi; non prende le armi dandosi alla macchia come i “briganti” e cerca invece di alzare la voce per gridare la verità, ma viene soffocato dai suoi stessi ex caporioni.
Perciò non può far altro che ritirarsi in campagna, al Vomero, affidando alle proprie memorie la denuncia di quanto ha visto accadere:
In tali memorie per necessaria conseguenza trovasi stabilito e consacrato il principio che non avvi, non può esservi benessere pei popoli, se non facendosi governare da principi legittimi, creati dal diritto divino, i quali serbando sempre i sacri diritti della legittima sovranità, faranno sempre trionfare la giustizia, la virtù, la gloria; mentre che dalle rivoluzioni, maledette da Dio, non possono sorgere che il depredamento, i soprusi, la più completa iniquità. (I, 15)
E conclude maledicendo i «propugnatori di una libertà falsa e bugiarda», sostenendo che «non potrà mai esservi libertà alcuna dove non v’è legittimismo e potere sovrano acquistato per sacro, per santo ed imperituro diritto divino» (II, 12).
Altro importante elemento di lucidità – che forse derivava, come i precedenti, da un’attenta lettura della «Civiltà Cattolica» – è quello di saper andare oltre i più o meno angusti confini patrî: la causa che Ernesto decide di abbracciare non è solo quella di restituire a Francesco ii il suo Regno, ma di pugnare per ristabilire il “principio del Trono e dell’Altare” abbattuto dalla Rivoluzione.
In subordine, una volta ripristinato questo sacro principio, sarebbe giunto il corollario della restaurazione degli antichi Regni: per questo Ernesto si rende conto che la causa per cui sta combattendo è
una causa che ormai egli non più indugiava a credere la migliore e che, riuscendo vittorioso, avrebbe potuto esser quella che avrebbe potuto ridonare col tempo alla sua patria il perduto bene. (II, 10)
Il compito che il protagonista si assume è quindi quello di creare e mantenere contatti con personalità (ideologi, aristocratici, burocrati, uomini politici, militari) che possano essere utili alla causa.
Poi, pur non avendo una specifica preparazione, passa dalla teoria alla pratica, dalla memorialistica e dall’attività “diplomatica” al combattimento sul campo, compiendo una sorta di ascesa spirituale culminata nella prova del fuoco.
Va detto che, rispetto al menzionato repubblicano Giovanni Gervasi, per certi versi ispiratore della sua figura[10], il nostro Ernesto, una volta disingannato, si mantiene su una posizione di legittimismo puro, scevro da ogni compromesso, anche momentaneo, con il nemico del proprio nemico, che per essere tale non diventa necessariamente un proprio amico.
Se poi vogliamo vedere nella citata frase del Duca di Pescolanciano «necessita stampare un foglio di divulgazione delle idee alle Masse»[11] un utilizzo della stampa popolare (e magari proprio del Trovatore), potremmo vedere in Ernesto il disingannato ben più che un testo di intrattenimento a sfondo politico, ma un vero e proprio programma ideologico: in tale prospettiva dovremmo leggere un ultimo elemento, nel romanzo solo accennato, ma di grande importanza.
Alla vigilia della grande e vittoriosa battaglia di Montejurra (che nella finzione si risolve in una sola giornata, ma nella realtà si svolse in più giorni, dal 7 al 9 novembre 1873), dopo aver ascoltato dalla viva voce di Carlo vii una sintesi del pensiero legittimista, vediamo lo stesso Pretendente ritirarsi ed inginocchiarsi in preghiera:
«Gli interessi delle nostre tre terre [Spagna, Italia e Francia] sono eguali; bisogna frenare l’anarchia, abbattere l’Idra rivoluzionaria, che tutto sconvolge, e rimettere l’ordine, che dal diritto divino, e dalla sola legittimità può nascere.[…]».
Dato quest’ordine, Don Carlos, che mostrava nell’aspetto veramente la grandezza di un Sovrano, licenziò tutti e, sedutosi nella tenda appartenente di già al Cabecilla, attendendo che la rivista si fosse disposta, pregò fervorosamente Iddio per fargli ottenere la vittoria. (II, 10)
In maniera quasi subliminale, quindi, viene espresso un concetto fondamentale: il combattente della Controrivoluzione, della Legittimità e dell’Ordine non deve essere solo essere portatore di una cristallina ideologia antirivoluzionaria, ma anche – e soprattutto – una religiosità praticata.
Perché solo grazie alla Fede vissuta e concreta possiamo raggiungere la Vittoria.
Gianandrea de Antonellis
[1] Cfr. supra, p. VI e ultra, Appendice IV.
[2] Forse si sarebbe potuto “napoletanizzare” il termine con un riferimento ai gloriosi Sedili, caratteristici delle maggiori città del Regno di Napoli (e sciaguratamente aboliti da Ferdinando iv il 25 aprile 1800), usando quest’antica istituzione amministrativa come simbolo di diritto locale e tradizionale. Nel romanzo (I, 7 e 11) per ben due volte si sottolinea la gravissima decisione sabauda di annientare «le antiche singole istituzioni e legislazioni preesistenti».
[3] Baldassarre, re di Babilonia, fu ucciso la notte successiva a una cena regale, durante la quale una mano misteriosa aveva scritto sulla parete le parole «Mene, Tekel, Peres», interpretate da Daniele come una sentenza divina dell’imminente fine di Baldassarre e del suo impero (Daniele 5,25-28).
[4] «La Civiltà Cattolica», serie viii, 1873, vol. xi, p. 257-258.
[5] In altri numeri del giornale è scritto correttamente Bismarck: segno ulteriore più che dell’ignoranza, della sciatteria dovuta alla fretta dei redattori o per lo meno del compositore.
[6] Ecco alcuni titoli di editoriali del 1874: Serrano al cospetto delle nazioni civili e Carlo vii alle potenze cristiane (20 agosto); Giù la maschera (22 agosto, contro Bismarck e Serrano); Carlo vii fa paura (1 settembre).
[7] «Tutti coloro, di qualunque regione italiana fossero stati, i quali non volevano o non potevano adattarsi a lunghi tramutamenti di sedi, perdevano di botto i loro posti, senza logica, senza pietà, senza giustizia veruna». I, 12.
[8] «L’aver permesso il sorgere di tante Chiese Protestanti, seminate per tutta la Città, l’impianto di una quantità di scuole Evangeliche nelle quali s’insegnano l’immoralità e l’ateismo e in cui ogni giorno i dispregiatori della Chiesa Romana esercitano pratiche false ed oscene». (II, 4)
[9] «Proibite le processioni, proibite le luminarie, proibito il suono del Campanello innanzi il Santo Viatico; e mentre nel primo articolo della Costituzione bandita come legge fondamentale del regno si proclamava la Religione Cattolica quella di esso, nell’applicazione poi singolare delle cose la si disprezzava, la si opprimeva e con essa i suoi ministri, perseguitandoli e spogliandoli». Ibid.
[10] Nel pamphlet I legittimisti napoletani, lettere d’un repubblicano ad un consorte (Fratelli De Angelis, Napoli 1869) Gervasi, che disprezzava il lassismo dei borbonici («non hanno la fede nel principio che rappresentano, ma non hanno né manco l’amore che genera quella fede. […] Non hanno la scienza del passato, non la coscienza del presente, non l’intuito […] dell’avvenire. Troppo modesti per voler guidare, sono troppo orgogliosi per voler seguire […]», p. 10), criticava il loro astensionismo elettorale, auspicando un sostegno ai radicali. Al di là delle indicazioni di voto, una unione di fatto contro la “consorteria” (cioè l’unione di liberali e camorristi) fu forse effettivamente proposta, come si evince da alcuni appunti di Giovanni Maria d’Alessandro, duca di Pescolanciano, risalenti al 1867 circa: «Per ogni Provincia sta pronto un Comitato a cui i nostri Agenti danno informazioni sul da fare. Partiremo dalle campagne al momento delle insorgenze – ovunque innalzeremo la bandiera gigliata con i nostri colori. Il Gervasi a Napoli prepara la sorpresa alli occupanti. […] Necessita stampare un foglio di divulgazione delle idee alle Masse. L’incontro con Don Giovanni [Gervasi?] è senza dubbio interessante per la causa e certo al giornale ci arriveremo perché lo stampatore già si dispone». Ettore d’Alessandro, L’autonomismo anarco-legittimista nelle memorie del duca di Pescolanciano, http://www.adsic.it/ [21.11.2016]). Vari documenti del Duca di Pescolanciano sono stati pubblicati in Fulvio Izzo, Maria Sofia Regina dei briganti. Dall’assedio di Gaeta all’attentato a Umberto I, Controcorrente, Napoli 2012,
[11] Cfr. nota precedente.
Il passato e il presente ovvero Ernesto il disincantato, romanzo anonimo
Prima edizione: Stabilimento Tipografico Partenopeo, Napoli 1874
© 2016 Vincenzo D’Amico e Gianandrea de Antonellis