Feudalesimo nei Regni di Napoli e Sicilia
Dopo gli speciali sul Gran Capitano (2015) e su Cervantes (2016), inauguriamo il nuovo anno con uno speciale dedicato all’istituto feudale nei Regni di Napoli e Sicilia scritto dallo studioso Davide Alessandra.
Quando si tratta un argomento spinoso come quello che stiamo per proporre, l’obbligo, per fare chiarezza, è delineare l’impianto politico istituzionale dei due regni. Sebbene fossero sotto la medesima Corona le differenze erano quasi incolmabili, si erano creati degli strani giochi di potere in virtù dei quali la Corona dei Borbone veniva quasi ricattata dal baronaggio di Sicilia per attuare le politiche a loro congeniali, ma di questo ne parleremo in modo più approfondito in seguito.
La domanda adesso è: come poteva il baronaggio siciliano ricattare e tenere sotto scacco la Corona di Napoli? La risposta a questo quesito sta nella struttura politico-istituzionale del Regno di Sicilia, vediamola nel dettaglio.
In primis il baronaggio ossia l’intera aristocrazia feudale, sia essa laica o ecclesiastica, nel regno di Sicilia si contavano circa 185 feudatari[1]. All’interno dei loro feudi i baroni erano paragonabili alla stregua di monarchi assoluti in quanto: esercitavano la giurisdizione, imponevano gabelle[2], dazi e angarìe[3]. Per contrastare la potenza baronale due erano gli istituti in prima linea
nella lotta: il viceré e il consultore del governo. Il primo governava l’isola in nome del sovrano, il secondo assisteva il viceré nelle questioni tecnico giuridiche. L’istituzione per eccellenza della Sicilia del XVIII secolo era il Parlamento (Napoli ne era priva sin dal 1642) Siciliano[4], luogo di abusi e dove si consumava il “ricatto” nei confronti della Corona di Napoli. Esso era articolato in tre bracci, quello militare, quello ecclesiastico e demaniale, e si riuniva ogni tre o quattro anni. I membri dei diversi bracci rappresentavano gli interessi, rispettivamente, dei baroni, della chiesa e delle città demaniali. Il blocco militare e quello ecclesiastico rappresentavano la rocca della feudalità nel Parlamento Siciliano e ben poco poteva fare l’isolato e minoritario, braccio demaniale. Il Parlamento fu senza dubbio un attento e suscettibile custode dei privilegi, delle prerogative e delle consuetudini isolane. La funzione principale del Parlamento era quella di stabilire i donativi che dovevano essere versati alla Corona, un sistema paradossale in cui i contribuenti decidevano i contributi da versare; è questa la situazione che dava vita al “ricatto”, poiché la minaccia di deliberare donativi inferiori era una buona leva per far sì che la Corona di Napoli non si inimicasse i baroni siciliani.
Un organo che sopperiva alla lunga assenza delle riunioni parlamentari era la Deputazione del Regno, organo esecutivo, composto da quattro rappresentanti di ciascun braccio parlamentare, anche qui i baroni avevano la maggioranza.
La rappresentanza degli interessi della Sicilia alla corte di Napoli era affidata alla Giunta di Sicilia, organo collegiale, composto dai consultori della giunta, due siciliani (rappresentanti del baronaggio) e due napoletani esperti di diritto siciliano. L’importanza della giunta è innegabile, dopo il terremoto provocato dal viceré Caracciolo, «tra il 1782 ed il 1790 la Giunta di Sicilia divenne l’arma più tagliente della feudalità siciliana»[5]. Analizzando il libro di Raffaele Ajello, fondamentale, nella descrizione dei rapporti tra i due regni, ci è sembrata l’analisi che se ne trae. Nonostante, scrive Ajello, le differenze tra le due capitali nelle dinamiche sociali e nelle istituzioni, le sorti politiche erano interdipendenti, egli pone molto risalto su quest’aspetto. I baroni siciliani avevano la forza per imporsi alla monarchia e per decidere la loro politica.
Nel Regno di Napoli il sistema feudale era stato annichilito, gli abusi più importanti estirpati da un sistema giudiziario col pugno di ferro, al contrario, in Sicilia dove le magistrature erano dipendenti del baronaggio, ciò non era avvenuto. Riferendo ciò al settore economico, un sistema feudale forte o debole va a connotare indubbiamente il sistema economico di uno stato. A Napoli l’economia dei grandi possessori di capitali si basava sulla speculazione, i quali acquistavano grandi partite di debito pubblico che venivano, in seguito, rimborsate; tale metodo era un ottimo espediente per investire i capitali dei singoli, ma andava a devastare l’economia del regno. Nel breve periodo si aveva una crescita esponenziale di denaro liquido, mentre nel lungo periodo lo stato era costretto ad indebitarsi maggiormente per far fronte ai titoli del debito emesso e per procacciare il denaro per tenere in vita l’economia. Si entrava in un circolo vizioso da cui uscire era molto complicato, a riprova di ciò il governo della regina Maria Carolina, «tra il settembre 1786 ed il marzo 1787 chiese una riduzione forzosa dei tassi di alcuni arrendamenti al tre per cento […] una pura e semplice espropriazione di metà della rendita»[6]. I feudatari napoletani, oltre a mere attività di speculazione, potevano ed avevano altre forme di investimenti. Un altro aspetto sulla feudalità napoletana che si evince, è che i grandi feudatari erano quasi tutti residenti nella capitale, quindi i loro interessi economici venivano a intrecciarsi con gli altri ceti, ciò faceva si che «nella capitale il problema del feudo non aveva un impatto così violento, come in Sicilia»[7]. Nel Regno di Napoli, fattore fondamentale e da non sottovalutare, era presente il ceto della borghesia. Per quanto riguarda la Sicilia, la società siciliana era divisa nettamente in due, da un lato il ceto benestante, composto da feudatari, ecclesiastici e professionisti, dall’altro il popolo che versava in condizioni che oggi, come minimo, sarebbero assimilabili al cd. terzo mondo. Nel Regno di Sicilia la differenza tra ricchezza e povertà era netta, la macchina economica siciliana aveva connotati differenti rispetto al Regno di Napoli. L’economia si basava essenzialmente sulla ricchezza agraria mentre tutti gli altri settori erano poco sfruttati. Era necessario iniziare a puntare sullo sviluppo della manifattura, sullo sfruttamento delle miniere di zolfo e sui commerci marittimi, data l’ottima posizione geografica dell’isola. Per quanto riguarda i commerci marittimi, essi erano poco praticati a causa dei pirati che infestavano le coste. Per chi volesse approfondire ed esaminare l’aspetto dell’economia siciliana durante il XVIII secolo consigliamo la lettura de “Il ristoro della Sicilia” di Francesco Saverio D’Andrea; nella prima parte della trattazione vengono delineati tutti i mezzi per far rifiorire l’economia, nella seconda si elencano tutti i malanni e gli abusi mentre nell’ultima si passano in rassegna i rimedi. Per concludere è doveroso fare un’ultima considerazione, ponendo l’accento nuovamente sul concetto d’interdipendenza. Quando la scellerata politica del Regno di Napoli venne meno, rendendolo inadempiente e impossibilitato a pagare le obbligazioni che avevo emesso, i sudditi persero tutta la fiducia verso lo stato. L’economia del Regno di Napoli, a questo punto, dipendeva dai donativi del baronaggio rendendolo ancora più potente e consapevole di poter piegare la monarchia ai propri bisogni.
Autore: Davide Alessandra
Autore foto: Anna D’Ambra
[1] E. Loncao, Genesi del latifondo in Sicilia, La Commerciale, Palermo, 1899.
[2] Per gabella s’intendeva il canone, l’affitto, dovuto da chi otteneva l’uso di un fondo per semina o pascolo. Il fondo si prendeva in affitto dall’amministrazione erariale, baronale o civica. Successivamente il termine gabella si estese anche alla concessione in affitto di uffici e servizi pubblici, per esempio gli esattori d’imposte, per questa ragione vennero chiamati gabelloti.
[3] Per angarie s’intendono le prestazioni gratuite, in forma di lavoro e opere, dovute dagli abitanti del feudo, in cambio della protezione che il barone offriva loro. Vedi R. Trifone, Feudi e demanii, Società editrice libraria, Milano, 1909.
[4] Istituzione a maggioranza feudale. Vedi A. Crisantino, Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al 1820, Associazione mediterranea, Palermo, 2010.
[5] R. Ajello, Stato e feudalità in Sicilia. Economia e diritto in un dibattito di fine settecento, Jovene, Napoli, 1992, p. 11.
[6] R. Ajello, Stato e feudalità in Sicilia. Economia e diritto in un dibattito di fine settecento, Jovene, Napoli, 1992, p. 92.
[7] Ivi, p. 90.