Alta Terra di Lavoro

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Fine della storia

Posted by on Nov 5, 2022

Fine della storia

Finiva così la storia del brigadiere Vincenzo Amenduni e dei carabinieri Fiorentino Bonfiglio (28 anni), Mario Boscone (22 anni) , Emanuele Greco (25 anni), Giovanni La Brocca (20 anni), Vittorio Levico (29 anni), Pietro Loria (22 anni) e Mario Spampinato (31 anni).

Al brigadiere Amenduni verrà concessa postuma la medaglia d’oro con decreto  presidenziale  n.  98  datato 5 aprile  2016,  con la seguente  motivazione:  <Con  ferma determinazione, esemplare iniziativa  ed  eccezionale  coraggio,  nel corso di un servizio perlustrativo, unitamente ad altri militari, non esitava  ad  affrontare  un  soverchiante   numero   di   fuorilegge, appartenenti a pericolosa banda  armata>.

Fatto  segno  a  proditoria azione di fuoco, replicava con l’arma in dotazione, dopo aver trovato rifugio all’interno di un fienile, resistendo  strenuamente  sino  al termine delle munizioni,  allorché’  veniva  catturato. Costretto  a marcia forzata nell’agro Nisseno per 18 giorni, sottoposto ad  atroci sofferenze  fisiche,  ininterrotto  digiuno  e  vessazioni, veniva, infine, barbaramente  trucidato.

Chiaro  esempio  di  elette  virtù militari e altissimo senso del dovere». Ex feudo  Nobile,  agro  di Gela  (Caltanissetta)  –  Ex  feudo  Rigiulfo,  agro di Mazzarino (Caltanissetta), 10 – 28 gennaio 1946.

Con identica motivazione vennero concesse medaglie d’oro alle altre vittime di questa barbarie.

In un primo momento tutte le indagini afferenti la banda dei niscemesi vennero concentrate presso la procura di Palermo, ritenendo che gli ordini fossero venuti proprio dal Capoluogo; successivamente la maxi-inchiesta venne smembrata e gli atti inviati per competenza alle varie procure dell’Isola, secondo il luogo dove i delitti erano stati commessi: si perse così la visione globale degli accadimenti.

Molti dei banditi verranno processati nel dicembre del 1948 davanti la corte di assise di Caltanissetta per i fatti di Feudo Nobile e saranno condannati all’ergastolo: saranno solo i banditi a pagare, essendo escluse altre responsabilità.

Anzi fu espressamente sancito che l’ideale indipendentista per i banditi era solo di facciata. Così letteralmente scrive la Corte: la predetta banda (composta tutta da avanzi di galera, di evasi e di pregiudicati) successivamente si aggregava al GRIS al solo intimo proposito di mascherare e rafforzare il raggiungimento delle proprie finalità, rivolte unicamente alla consumazione dei più gravi delitti.

Dunque nessuna patente di “idealisti” per i feroci fuorilegge di Niscemi. Probabilmente più che le sentenze ad essere carenti furono le indagini: non si sa se consapevolmente. Si ebbe (e si ha tuttora) la sensazione di avere voluto chiudere frettolosamente quel periodo, senza tanti approfondimenti.

In occasione della decisione emessa contro Concetto Gallo il 28.10.1950, la Corte evidenziò in un inciso, tanto sintetico quanto efficace, tutte le sue perplessità, mettendo in rilievo la non lodevole superficialità degli accertamenti.

Per il resto ratificò il carattere politico di tutte le azione di Concetto Gallo e in special modo i fatti di monte San Mauro: l’ambiente è quello della battaglia che vede contrapposti due piccoli eserciti, il regolare comandato da tre generali e quello dei ribelli contro l’ordine costituito comandato da Concetto Gallo, che agiva per un ideale, sia pure condannevole, per il sovvertimento che si proponeva, ma pur sempre un ideale.

Tutti i reati erano pertanto da ritenersi inclusi nel decreto di amnistia, compreso l’omicidio dell’appuntato Cappello, derubricato da “volontario” a “preterintenzionale”. Ne conseguì la revoca dell’ordine di cattura.

Su sollecitazione dei famigliari del militare, la sentenza sul punto venne impugnata e nel processo che si svolse a Lecce – con sentenza del 18.11.1954 – rivisse l’originario capo di imputazione, sebbene vennero riconosciute molte attenuanti; alla fine  Gallo fu condannato a 14 anni di reclusione, solo per questo fatto, essendo ogni altra imputazione superata dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

La pena per Gallo fu interamente condonata. Il 28 aprile del 1947 l’ispettore Ettore Messana, nel relazionare al ministero dell’Intero, scriveva con soddisfazione: sono lieto ora di potere affermare che la tenacia e lo sprezzo costante della vita di cui ha dato prova il personale dell’Ispettorato in operazioni quanto mai difficili e pericolose hanno avuto ragione della banda dei niscemesi, oramai del tutto debellata, se non si tiene conto degli ultimi due residuati -il Buccheri e il Collura – sulle cui tracce sono già i dipendenti reparti.

Il 16 marzo 1946 è un sabato e la corriera partita da Catania arriva a Niscemi dopo avere fatto il giro di diversi paesetti. Deve raggiungere Licata passando da Gela.

Dopo  attraversato  il  paese,  proveniente  da  Caltagirone,  arriva  in  piazza Vittorio Emanuele; qui scendono parecchie persone, altre ne salgono e fa il giro puntando verso Gela, percorrendo il breve tratto di via Umberto, via Ponte Olivo e imboccando la strada provinciale che porta al bivio che conduce alla città del Golfo.

Alla guida c’è Angelo Randazzo, dipendente della ditta di trasporti, che tante volte aveva fatto quel percorso. Sembrava un viaggio come un altro, ma ecco che dopo avere percorso circa tre chilometri arriva alle curve che immettono nel rettilineo di quella località che ancora ora viene chiamata “a valanca ro pannu” ed è costretto a fermarsi per la presenza a terra di una persona che sembra inanimata; scende dal mezzo e si accorge che in effetti si tratta di un cadavere.

Scendono increduli tutti gli altri passeggeri: un uomo robusto e possente, di sicuro molto alto giace a terra senza segni di vita. Il cadavere appare circondato da una corona di pietre, che all’altezza della testa formano una croce. Il petto si presenta sconquassato  da  un  evidente  colpo  di  arma  da  fuoco,  verosimilmente  sparato  a distanza molto ravvicinata.

Si  legge  nella  relazione  di  servizio  che  verrà  stilata  dal  brigadiere  Montesi: indossava un impermeabile americano di colore olivastro, le braccia erano aperte e le gambe divaricate.  Oltre al colpo alla schiena, presentava segni di una ferita d’arma da fuoco alla vena giugulare, verosimilmente il segno di un colpo di grazia.

Dall’assenza  di  macchie  di  sangue  per  terra,  nonostante  la  recisione  della giugulare,  era  facile  intuire  che  l’omicidio  fosse  avvenuto  altrove  e  il  corpo  lì trasportato o per dare un segnale o comunque per rendere noto a tutti che la vita di quel soggetto era finita per sempre.

Qualcuno dei passeggeri azzarda timidamente un nome, anzi un soprannome, ma lo pronuncia così a bassa voce che nessuno lo capisce; gira attorno al cadavere e si accorge che a quell’uomo manca un pezzo dell’orecchio destro e l’ipotesi timidamente azzardata trova conferma: iddu è! “Iddu” è Avila Rosario, inteso Canaluni.

Per qualche attimo passeggeri ed autista si guardarono increduli senza sapere cosa fare, come se non fosse normale che occorreva avvisare i carabinieri che lì giaceva il cadavere dell’uomo più ricercato della Sicilia orientale: il secondo di tutta l’Isola, dopo il bandito Giuliano.

Avvertiti dunque i carabinieri, il sottufficiale presente in caserma (tale brigadiere Francesco Montesi) si precipitò sul posto, constatando che effettivamente quel corpo era del bandito che tutti cercavano.

Addosso aveva 300 lire e un copia del giornale  La Libertà, bisettimanale separatista stampato a Catania. Per tanto tempo voce di popolo raccontava che avesse con sé ben 350 mila lire, pari a circa undicimila euro. Accanto giaceva un fucile mitragliatore.

Un carro normalmente adibito a trasporto di letame venne impiegato per condurre la salma in paese.

Nel frattempo il sistema del passaparola (efficace quanto il moderno WhatsApp) aveva  avvisato  tutta  la  popolazione  di  quell’evento  straordinario.  Un  solo  grido: Mmazzanu  a  Canaluni!  E  la  gente  cominciò  ad  affollarsi  a  largo  Spasimo  nel tentativo di poter vedere coi propri occhi che era finita l’epopea di questo personaggio che tanto terrore aveva seminato tra la popolazione.

Raccontano gli anziani che uno stuolo di bambini e ragazzi si accalcò in attesa del lugubre passaggio, quasi fosse una processione religiosa. E mentre ritmavano la frase, forse  senza  neanche  comprenderne  il  significato,  battevano  le  mani  in  modo cadenzato.

Ed ecco finalmente comparire il carro col suo macabro fardello, coperto da un pietoso lenzuolo, che occulta parzialmente quel corpo senza vita lasciando penzoloni quei grandissimi piedi che assomigliavano a due tegole (i canala) e che gli erano valsi il soprannome col quale era conosciuto in paese e non solo.

Scriverà il Corriere di Informazione in prima pagina la popolazione ha appreso con sollievo la fine del feroce bandito, che era il suo incubo.

In  verità  la  maggior  parte  dei  Niscemesi  –  almeno  all’inizio  dell’avventura banditesca  –  non  aveva  manifestato  grandi  preoccupazioni  per  le  imprese  di Canaluni, perché si diceva che la sua banda “toccava” solo i ricchi e non i poveri.

E i poveri erano la maggioranza assoluta! La mancanza di sangue e l’assenza di tracce di sparo fecero subito pensare che il delitto fosse stato commesso altrove.

Non si saprà mai dove, né chi intascò la taglia di 500.000 lire come corrispettivo di quell’orecchio, che la barbarie del tempo aveva promosso a macabro certificato.

Si parlò di qualcuno della sua stessa banda e qualche anziano a denti stretti pronuncia ancora ora un nome, dopo avere avuto reiterate rassicurazioni che resterà segreto.

Ma non c’è neanche certezza che la taglia sia stata effettivamente erogata. In una missiva  segreta  inviata  dall’Ispettorato  di  polizia  al  ministero  dell’Interno  in occasione della morte dell’altro capobanda – Salvatore Rizzo – avvenuta il 19.2.1947 si legge: prego codesto ministero perché la taglia di 500 mila lire promessa per la cattura del capobanda dei Niscemesi venga concessa al confidente che è riuscito a far cogliere il bandito Rizzo Salvatore, capo della banda stessa, durante tutte le vicende dell’EVIS, in occasione dell’eccidio dei militari della stazione di Feudo Nobile e in tutte le altre imprese criminose.

La frase appare equivoca perché potrebbe significare che quella taglia promessa per Avila non era stata mai ritirata, ma potrebbe anche significare che la stessa somma data a chi aveva freddato Canaluni doveva essere data a chi aveva fatto trovare il nascondiglio di Rizzo.

Parafrasando quel che è stato detto di Giuliano,  di sicuro c’è solo  che Saru Canaluni è morto. Le indagini sulla morte di Avila non portarono a nulla, ma si sussurrava all’epoca che nessuno si prese la briga di sprecare il tempo cercando di capire da chi, come e dove fosse stato giustiziato.

Ma questo è solo il finale della storia della banda dei Niscemesi, per come è stata chiamata, della quale non si è scritto molto, salvo l’episodio di Feudo Nobile del quale  si  tratterà  a  parte  e  quel  poco  che  è  stato  scritto  è  spesso  frutto  di approssimazione (si legge addirittura in qualche libro che il cadavere venne ritrovato nella strada che conduce ad Acate!).

Come in tutte le storie di Sicilia che hanno a che fare con banditismo o mafia non possono mai mancare i misteri, a volte grandi a volte piccoli, ma pur sempre inspiegabili.

L’accanimento nella ricerca storica qualche volta dà i suoi frutti e in un sol colpo sembra che debba ribaltarsi un racconto oramai consolidato. Per come si è detto, il cadavere di Canaluni è stato rinvenuto il 16 marzo del 1946 lungo la provinciale che conduce a Ponte Olivo.

I carabinieri intervenuti redassero il rapporto all’autorità giudiziaria (allora era il pretore di Niscemi) che – come da prassi – diede comunicazione del decesso all’ufficiale dello stato civile del comune di nascita.

L’atto di morte di Avila è annotato al numero 5 del registro degli atti di morte, parte seconda, serie B e in esso si legge: l’anno 1946 addì 17 del mese di marzo alle ore  dodici e minuti quaranta, nella casa comunale, io cav. Pispisia ufficiale dello Stato Civile del comune di Niscemi avendo ricevuto dal pretore di questo mandamento un avviso di morte con la data di oggi…do atto che il giorno quindici marzo 1946 alle ore imprecisate in contrada valanca del Panni (sic!) è morto Avila Rosario dell’età di anni  47, terrazziere, maritato con Pardo Maria.

Forse si sarà trattato di mero errore materiale da parte dell’ufficiale dello Stato Civile, ma errori e incongruenze si rinvengono anche in altri casi, segno che la storia di quel periodo meriterebbe un’attenta rivisitazione.

fonte

GLI ANNI DELLA RABBIA 1943-46… BANDITISMO E SEPARATISMO TRA NISCEMI E CALTAGIRONE.

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