Fogia cur me fugis cum te fecit mea manus
Cosa c’è di più fallimentare dell’ abbandono, dell’ incuria, del menefreghismo verso il nostro passato, verso le tracce che riemergono e che riportano a ciò che fummo e che ci ha resi tali ?
Foggia è una città martoriata, colpita al cuore dalla natura e dalla cattiveria umana; il terremoto del 1731 distrusse un terzo delle abitazioni e gran parte del suo patrimonio artistico e culturale; durante la Seconda Guerra Mondiale Foggia poi, venne presa di mira dai bombardamenti che rasero al suolo gran parte delle abitazioni e causarono più di 20000 vittime. In seguito alla distruzione bellica, la città venne ricostruita secondo uno stile fascista, di palazzoni addossati.
Eppure, tra quelle ricostruzioni “moderne”, il passato cerca di mostrarsi, di lasciar viva la memoria delle bellezze che furono, con il Duomo o i resti del cosiddetto Arco di Federico II. Già, i resti … un portale alto 7,38 metri e largo 3,20 metri, costituito da un arco finemente scolpito: “Hoc fieri iussit Federicus Cesar ut urbs sit Fogia regalis sede inclita imp(er)ialis” (Ciò comandò Federico Cesare che fosse fatto affinché la città di Foggia divenisse reale e inclita sede imperiale). Questa la scritta che troneggia sull’ Arco. Perché Federico II, lo Stupor Mundi, scelse Foggia come sede imperiale e centro strategico del suo vasto impero, e dietro i resti di quel portale vi era un magnifico palazzo dotato, presumibilmente, di giardini, fontane, sculture, con interni costituiti da ampi saloni rivestiti di marmi preziosi e ancora scuderie, magazzini e stalle.
Ma un altro passato della Capitanata cerca di venir fuori, ovvero quelle tracce dell’ antica Daunia che spingono per ricevere i giusti fasti. Resti Neolitici di villaggi risalenti al VI millennio a.C. presso Passo di Corvo oppure la Necropoli o la Tomba della Medusa nei siti archeologici di Arpi, risalenti al III millennio a.C..
Nello specifico, l’ Ipogeo della Medusa è uno dei più straordinari monumenti di Arpi e della Daunia ma, parimenti, è anche il simbolo del fallimento della tutela e della valorizzazione del patrimonio dei beni culturali. La scoperta del sito si deve al ritrovamento in quella zona della testa di Medusa (oggi custodita nel museo civico di Foggia, sottratta ai tombaroli). Quando l’ archeologa foggiana Marina Mazzei assunse la carica di ispettore archeologo nel 1985 trovò un sito depredato dagli sciacalli, che lo denudarono dei suoi gioielli, distruggendo addirittura la copertura del vestibolo con un escavatore meccanico e riuscendo a trafugare il frontone con la raffigurazione della Medusa e i capitelli figurati.
La Tomba della Medusa e sito archeologico Arpi era ed è interrata a più di 5 metri dal piano di calpestio, era una tomba funeraria del tipo ipogeico, con un dromos a scivolo che permetteva l’ingresso ai familiari dei defunti. Una tomba abbellita da decorazioni pittoriche di notevole valore artistico. I primi lavori di scavo e di recupero iniziarono nel 1989, poi nel 1998 la Regione Puglia stanziò 3 miliardi di lire, cui si aggiunse un contributo di 555 milionidel Comune. Nonostante questi finanziamenti, i lavori restarono bloccati per anni a causa di una serie infinita di pratiche burocratiche. Si arrivò così alla sospensione dei lavori nel luglio 2002. Poi altri anni di stasi e altri finanziamenti di oltre un milione e mezzo di euro per Medusa, grazie ad un Accordo di Programma tra Regione Puglia e Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Ma nonostante tutto il sito ha continuato ad esistere nello squallore generale dell’ abbandono e dell’ incuria e soprattutto dell’ indifferenza. È vero, la Tomba di Medusa è stata ricostruita magistralmente nel Museo Civico di Foggia, e colpiscono molto i suoi colori, il pregio delle finiture, e quella testa di 2.400 anni fa che guarda accecando con la sua cultura preellenica. Però, il sito vero, oggi è ben visibile solo a chi percorre l’A14 a nord di Foggia, a metà strada con San Severo, dove spicca l’ ipogeo privo di copertura, diventato una specie di imbuto che raccoglie le acque piovane.
Lì ad Arpi sarebbe dovuto sorgere un parco con tanto di ristoro, ma nulla è stato consegnato. E oggi gli sciacalli rompono le recinzioni e le vetrate, le colonne di cemento vivono il loro lento disfacimento nell’ involucro di plastica, i mosaici e le decorazioni pittoriche sulle pareti sono quasi completamente compromessi. E come paradosso dei paradossi, la tomba è divenuta il suo stesso loculo.
Oggi, ciò che potrebbe raccontarci della ricca città di Arpi, non è fruibile a nessuno. Oltre che per il suo valore storico inestimabile, il sito archeologico potrebbe essere il futuro del posto, attraendo turismo e divenendo, dunque, vettore economico grazie all’ indotto e al potenziale occupazionale. La Capitanata può vantare il più ampio bacino archeologico di Puglia, ma si fa sfuggire l’occasione di sfruttarne appieno le potenzialità .
Eberhard Horst scrive
“Le Puglie e la Capitanata di oggi riescono a dare solo un’immagine molto sbiadita della bucolica bellezza di un tempo: disboscate le foreste, inariditi i fiumi, prosciugati i molti laghi, … la maggior parte delle turrite colline, una volta ricche di boschi, oggi sono squallide o ricoperte di arida sterpaglia. Laddove branchi di cervi e caprioli si alternavano a orsi e cinghiali, ora soltanto frugali pecore e capre trovano pastura. Foggia e Lucera erano circondate da fitte foreste di latifoglie, querce, faggi, frassini, olmi”.
Ma a noi ciò che fummo non importa. Agli olmi e alle querce preferiamo le sterpaglie. Quelle alte e fitte. Che vadano a ricoprire la vergogna dell’ abbandono permesso da noi stessi.
Daniela Alemanno
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