Gaetano Salvemini di Francesco Antonio Cefalì
Gaetano Salvemini nacque a Molfetta l’8 settembre del 1873 da Ilarione e da Emanuela Turtur. Secondo di dodici figli, dei quali solo nove sopravvissuti, ebbe in regalo da suo zio Don Mauro Giuseppe, vedendo nel nipote un futuro vescovo, una cesta piena di libri di stampo religioso.
Gaetano ereditò proprio dallo zio la caparbietà, il carattere forte e il profondo senso morale. Nell’autunno del 1890, dopo il conseguimento del diploma di maturità classica, lasciò il suo paese natio per scriversi all’Università di Firenze, dove fu allievo del grande storico Pasquale Villari che, oltre a insegnargli il valore della storia, lo incitò a essere sempre positivo; una lezione che Salvemini cercò sempre di onorare per tutta la sua vita. Dopo aver conseguito la laurea in lettere nel 1896 si dedicò con successo allo studio della storia medioevale frequentando l’Istituto di Studi Superiori e di Perfezionamento dove, nel 1899, pubblicò il saggio Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295. Nello stesso periodo, approfondì la dottrina marxista e si dedicò con passione all’insegnamento. Durante gli studi universitari si avvicinò al socialismo, sperando in una rivoluzione capace di modificare le condizioni economiche e sociali del meridione. Aderì, quindi, al Partito Socialista Italiano, collocandosi da subito nella corrente meridionalista. Dal 1897 collaborò alla rivista Critica Sociale, sostenendo fermamente il voto a suffragio universale e il federalismo, unica via, secondo lui, per risolvere la questione meridionale. Cercò, inoltre: di condurre il Partito su posizioni meridionaliste, riflettendo sul nesso tra socialismo e questione meridionale; fu critico verso il protezionismo operaio del nord, insistendo sulla necessità dell’abolizione delle tariffe doganali di Stato che proteggevano l’industria a danno dei consumatori; propose la formazione di piccole proprietà contadine con la liquidazione del latifondo; ricordò più volte che il socialismo italiano nacque a Napoli nel 1869, con la prima sezione e con i primi due deputati meridionali: Giuseppe Fanelli di Napoli e Saverio Friscia di Sciacca. Eppure il Partito Socialista si disinteressò, poco dopo, del Meridione, abbandonandolo alle clientele mafiose del giolittismo. Era nel sud, secondo Salvemini, che il socialismo era più necessario. Il Partito, quindi, avrebbe dovuto assumersi la responsabilità storica del proletariato meridionale, che restò alla fame più nera, inerme ed impossibilitato a reagire a qualsiasi forma di sopruso e violenza, stretto com’era nella morsa della sottomissione e dell’ignoranza. Per questi motivi si scontrò nel partito, con la corrente maggioritaria di Filippo Turati.
Dopo aver insegnato latino in una scuola media di Palermo, divenne professore di Storia e Geografia nel Liceo Torricelli di Faenza e poi nel liceo classico di Lodi. Quindi, a soli ventotto anni, ottenne la cattedra di Storia moderna all’Università di Messina.
Due tragedie segnarono fortemente la sua vita privata: la morte della figlia neonata e il violento terremoto del 28 dicembre del 1908 che colpì Messina e che fece crollare l’intera casa di Gaetano. Durante il forte sisma perse la moglie Giulia Maria Minervini, la sorella e quattro figli (Ilario Corrado, Leonida, Filippo ed Elena; il corpo del minore, Ugo, non fu mai trovato); solo lui riuscì a salvarsi aggrappandosi ad un muro maestro.
Nel 1910 insegnò all’Università di Pisa e poi nel 1916 a quella di Firenze.
Nel 1910 fu protagonista di una forte polemica contro il governo di Giovanni Giolitti. Infatti denunciò, con il libro Il ministro della mala vita, il malcostume politico e gli affari sporchi del primo ministro, la complicità di quest’ultimo con i potentati finanziari ed ecclesiastici nello scandalo della Banca Romana. Tra il 1910 e il 1015 scrisse due saggi d’impostazione positivista sulla figura di Giuseppe Mazzini: La formazione del pensiero mazziniano e Mazzini e infine La rivoluzione francese (1788-1792). Nel 1911, dopo una mancata manifestazione dei suoi amici di partito, contro lo scoppio della guerra italo – turca, uscì dal Partito Socialista, ma portò ugualmente avanti la sua battaglia federalista fondando, nel dicembre 1911, il settimanale L’Unità che diresse con l’economista e politico Antonio De Viti De Marco fino al 1920. Nello stesso periodo lavorò al progetto di un nuovo partito, meridionalista e socialista: la Lega Democratica.
Nel 1914 fu uno dei capofila del cosiddetto interventismo democratico,contro la politica degli imperi austro-ungarico e tedesco. Nel 1916 si sposò, in seconde nozze, con Fernande Dauriac, figlia del filosofo e storico Lionel Dauriac, ed ex moglie di Julien Luchaire, fondatore dell’Istituto francese di Firenze, madre di Jean Luchaire e di Marguerite Luchaire. Con Jean ebbe un rapporto difficile dopo la scelta dell’esuberante figlio di sposare la causa del nazismo.
Durante la prima guerra mondiale, nonostante i suoi quarantadue anni, si arruolò volontario e fu spedito sul Carso. Una breve esperienza necessaria per fargli sperare, inutilmente, che gli ex combattenti potessero diventare i fondatori dell’Italia del futuro.
Eletto deputato nel 1919, con l’avvento del fascismo si schierò subito contro Mussolini e contro coloro che non accettavano compromessi in nome della difesa della propria posizione ideologica. Strinse un profondo legame ideale e politico con i fratelli Carlo e Nello Rosselli e con Ernesto Rossi, che videro in lui un comune maestro. Nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce e con i due Fratelli Rosselli e con Nello Traquandi fondò a Firenze un giornale antifascista clandestino, il Non Mollare.
Arrestato a Roma dalla polizia fascista l’8 giugno del 1925, processato insieme a Ernesto Rossi, amnistiato si rifugiò, clandestinamente nell’agosto dello stesso anno, in Francia.
A Parigi fondò con i fratelli Rosselli e con altri intellettuali democratici, tra cui Emilio Lussu, Alberto Tarchiani, Francesco Fausto Nitti e Alberto Cianca il movimento Giustizia e Libertà. Lo stesso movimento nacque pure in Italia, soprattutto tra gli studenti universitari. Molti degli aderenti (tra cui Ernesto Rossi, Ferruccio Parri, Leone Ginzburg), però, furono arrestati e condannati a lunghe pene detentive. Salvemini si trasferì, poi, in Gran Bretagna dove fu protagonista, come socialista, di una dura polemica con l’irlandese George Bernard Shaw, scrittore, drammaturgo, linguista, critico musicale e forte estimatore di Mussolini.
Nel 1929, fu invitato dal presidente del dipartimento di storia dell’Università di Harvard degli Stati Uniti d’America, Arthur Meier Schlesinger Sr. per fare l’insegnante in quella Università. Dal 1933 fu membro, a pieno titolo, con una cattedra di storia della civiltà italiana del dipartimento, dove tenne una serie di lezioni, Le lezioni di Harvard sulle Origini del fascismo in Italia, che pubblicò successivamente per i suoi studenti americani e che costituirono il pensiero salveminiano più maturo sul fascismo; in quel periodo divenne, pure, amico di Arthur Schlesinger Jr., redattore dei discorsi elettorali di John F. Kennedy e di un altro grande esule antifascista: don Luigi Sturzo, fondatore del Ppi. Fu inoltre in rapporti di reciproca stima con Arturo Toscanini.
Durante la seconda guerra mondiale Salvemini, con diverse conferenze e lezioni universitarie, negli USA, in Gran Bretagna e in Francia, si batté per una politica contro fascismo, comunismo, clericalismo e monarchia italiana. Nel 1939 fondò, insieme a un gruppo di aderenti al movimento Giustizia e Libertà, di repubblicani e di antifascisti democratici, tra cui Lionello Venturi, Giuseppe Antonio Borgese, Randolfo Pacciardi, Michele Cantarella, Aldo Garosci, Carlo Sforza, Alberto Tarchiani e Max Ascoli, la Mazzini Society e il giornale Nazioni Unite; tutti i componenti era contrari alla monarchia e all’accordo stipulato a Tolosa fra comunisti, socialisti e alcuni aderenti a al movimento Giustizia e Libertà. Salvemini, nel periodo d’esilio, pubblicò diversi volumi in lingua inglese, tra i quali The Fascist Dictatorship in Italy, Under the Axe of Fascism e Prelude to World War II.
Nel 1949, con il suo ritorno in Italia, riprese l’insegnamento all’Università di Firenze, senza però trascurare la lotta politica: fu fautore di un riformismo democratico, fondato sulla laicità, in contrapposizione al dogmatismo clericale e statalista che, soprattutto al Sud, generò superstizione che mantenne la popolazione nell’ignoranza e si oppose al governo democristiano e al Fronte Democratico Popolare, sostenendo la necessità di abrogare il Concordato e i Patti Lateranensi.
Nel 1955 ottenne dall’Accademia dei Lincei il premio internazionale Feltrinelli per la storia e la laurea honoris causa dall’Università di Oxford.
Gaetano Salvemini morì a Sorrento il 6 settembre 1957 e, poi, fu sepolto a Firenze, nel prato d’onore del cimitero di San Miniato.
Salvemini sostenne fortemente, per tutta la sua vita, la centralità della Questione Meridionale in contrapposizione al liberismo imperante che aveva determinato in Italia il distacco civile ed economico tra il Nord e il Sud. Difese il progettato principio del voto a suffragio universale, esteso anche alle donne, per collegare le lotte operaie del Settentrione con il riscatto dei contadini meridionali, succubi dei clericali e dei latifondisti. Cosi si espresse nei confronti del clero:“Tutti in Italia sembrano aver dimenticato che la libertà non è la mia libertà ma è la libertà di chi non la pensa come me. Un clericale non capirà mai questo punto né in Italia né in nessun altro paese del mondo. Un clericale non arriverà mai a capire la distinzione fra peccato, quello che lui crede peccato, e delitto, quello che la legge secolare ha il compito di condannare come delitto. Il clericale punisce il peccato come fosse delitto e perdona il delitto come se fosse peccato. Perciò è necessario tener lontano i clericali dai governi dei paesi civili”. Per Salvemini la causa principale dell’impoverimento dei meno abbienti derivava dall’imposizione dei dazi sulle mercanzie, poiché fecero aumentare in maniera fraudolenta i prezzi dei beni di più largo consumo, provocando la recessione. Gli aiuti di Stato ai potentati economici, poi, favorirono le speculazioni e il protezionismo impedendo la ridistribuzione di risorse verso i ceti più poveri. Egli combatté contro il razzismo antimeridionale camuffato da pseudo-federalismo e contro il centralismo burocratico a cui contrappose l’idea di un decentramento fondato sui valori del socialismo e della democrazia partecipativa, in contrapposizione alle derive etno regionaliste ed autoritarie, più avide di spartizioni dei poteri che attente alla partecipazione democratica delle masse popolari. Il mito del federalismo fu utilizzato allo scopo di trattenere le risorse nazionali laddove la politica della Destra le aveva concentrate all’indomani dell’Unità d’Italia, cioè al nord. Partecipò attivamente alla Resistenza contro l’occupazione nazista dell’Europa promuovendo la formazione di una legione di volontari italiani. Difese la scuola pubblica dalle “riforme”, da lui giudicate reazionarie: “La politica scolastica del partito clericale non può essere in Italia che una sola: deprimere la scuola pubblica, non far nulla per migliorarla e più largamente dotarla; favorire le scuole private confessionali con sussidi pubblici, e con sedi d’esami, con pareggiamenti; rafforzata a poco a poco la scuola privata confessionale e disorganizzata la scuola pubblica, sopprimere al momento opportuno questa e presentare come unica salvatrice della gioventù quella. Programma terribilmente pericoloso perché non richiede nessuno sforzo di lotta attenta ed attiva ma solo di una tranquilla e costante inerzia, troppo comoda per i nostri burocrati e per i nostri politicanti, troppo facile per l’oligarchia opportunista che ci sgoverna”. Per Salvemini la democrazia si doveva fondava sul relativismo relazionale: la maggioranza ha il diritto di governare e, in ugual misura, la minoranza ha il diritto di opporsi.
Per il meridionalista pugliese le cause dell’arretratezza del Sud erano storico-politiche e derivavano dal periodo delle guerre tra Angioini ed Aragonesi, durate complessivamente due secoli e mezzo; a cui seguirono altri due secoli di sfruttamento spagnolo. Il risultato fu deleterio: la prevalenza della nobiltà feudale non seppe mai andare al di là della difesa delle rendite, si ebbe lo spopolamento delle campagne, il sovraffollamento di Napoli e la riduzione delle classi sociali più umili a favore del parassitismo della nobiltà; i contadini delle campagne furono trattati come degli schiavi; la classe intermedia, furba e arroccata e allo stesso tempo servile e cinica, sognava a sua volta l’aumento della propria rendita e un qualsiasi titolo. Il clero, infine, che deteneva la cultura amministrava le credenze popolari, usò queste prerogative principalmente per il mantenimento dello status quo. Per Salvemini le destre fondarono il potere sull’alleanza di fatto tra borghesia industriale del Nord e latifondisti del Sud, che furono premiati con posti di potere nelle istituzioni nazionali; i latifondisti a loro volta favorivano la piccola borghesia elargendo posti nelle istituzioni locali; lo Stato, poi, in questo sistema di destra non poteva svolgere alcuna funzione riformatrice: garantiva semplicemente alle classi dominanti una fiscalità vantaggiosa e la repressione di ogni ribellione delle classi subalterne. Per Salvemini i meridionali non dovevano più guardare alla politica come fonte di guai o, a seconda del vento, di favori, bensì appropriarsi della cittadinanza e comprendere che l’uguaglianza, il socialismo ed il benessere comune erano gli unici valori di riferimento per cominciare il cammino del riscatto del Sud. Il Meridione, a parere dello storico pugliese, soffriva di tre malattie: lo Stato accentratore, l’oppressione economica del Nord ed una struttura sociale semifeudale; le prime due malattie furono generate da politiche protezionistiche ed autoritarie che permisero al Nord di opprimere il Mezzogiorno. Con l’Unità d’Italia si ebbe l’effetto di obbligare i meridionali a pagare gli interessi dei forti debiti contratti dai settentrionali; le tasse ed i dazi sui prodotti agricoli, che furono ben dieci volte superiori a quelli dei prodotti manifatturieri, impedivano il commercio dei prodotti meridionali, esclusivamente agricoli, nel resto del paese. Per Salemini la società meridionale era distinta in tre classi sociali: la grande proprietà, la piccola borghesia e il proletariato agricolo. La grande proprietà, antichissima nelle sue dinastie, era riuscita a superare indenne tutti i vari cambiamenti di regime restando sempre in sella e aveva fatto sì che il Risorgimento risultasse nel Mezzogiorno non una rivoluzione, ma una beffa. Con l’Unità d’Italia, poi, i latifondi al sud aumentarono anziché diminuire a causa dalla miope e frettolosa maniera con cui vennero venduti i terreni demaniali ed ecclesiastici dell’ex Regno delle Due Sicilie. A parere di Salvemini, il potere della grande proprietà rimase forte perché coordinato, oltre che appoggiato, dalla piccola borghesia con cui si era creato un solido legame di cooperazione. Dunque, i latifondisti si adoperarono perché nulla cambiasse; ogni loro azione era volta al mantenimento di quei vecchi privilegi ormai perduti in ogni altra parte dell’Italia. La piccola borghesia, che formava la gran parte del corpo elettorale, delusa, non fu capace di migliorare la propria condizione economica; avveniva così che la grande proprietà se ne serviva per poter controllare le elezioni, mantenendo sempre intatti i suoi poteri ed i suoi privilegi, impedendo così la nascita di una borghesia moderna. Gli uffici dei deputati meridionali servivano solo nel fare raccomandazioni e procurar favori agli elettori. Così, il patto sciagurato fra latifondisti e piccoli borghesi permetteva una vera e propria spartizione dei seggi, ovvero: i latifondisti si facevano eleggere in parlamento e la piccola borghesia nei consigli comunali.
Francesco Antonio Cefalì