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Gianandrea de Antonellis e Giambattista Vico

Posted by on Giu 28, 2022

Gianandrea de Antonellis e Giambattista Vico

Giambattista Vico (1668-1744), nato a Napoli in una modesta famiglia di librai, fu accolto nel 1680 presso il Collegio Massimo dei gesuiti di Napoli dove intraprese gli studi di grammatica e metafisica, per laurearsi più tardi in utroque iure (1694). Intanto, dal 1689 al 1695, svolge l’attività di precettore dei figli del marchese Domenico Rocca, nel castello di Vatolla, avendo così modo di accedere alla fornita biblioteca del nobiluomo dove può studiare la Scolastica, sant’Agostino, Platone, Tacito e vari altri autori, tra cui Botero e Bodin.

L’interesse principale di Vico è soprattutto di carattere filosofico: ai corsi universitari preferisce lo studio privato, concentrandosi principalmente sulla lettura e sull’analisi dei classici e dei filosofi.

Malato di tisi, nel 1695 torna a casa della famiglia a Napoli e si sostenta dando lezioni di grammatica e retorica. Nel 1699 assume la cattedra di retorica all’Università di Napoli: ciò non risolve i suoi problemi economici, tanto che continua a dare lezioni private. Nello stesso periodo legge Bacone e Grozio, la cui scoperta risulta fondamentale per dirigere i suoi interessi sulle materie giuridiche e storiche.

Con la maturità vedono la luce le opere più rilevanti del filosofo napoletano: il Diritto universale (1720) e il suo capolavoro, La scienza nuova1(1725, 17302 e 17443, postuma).

Il complesso del pensiero vichiano è caratterizzato da una certa critica a Cartesio, elemento che lo destina ad un rapido oblio e ad essere riscoperto ed apprezzato soltanto nel tardo Ottocento e nel Novecento: Vico contesta il pensiero scientifico cartesiano partendo dal presupposto che si può conoscere appieno solo ciò che è possibile fare e rifare. Gli uomini possono quindi comprendere pienamente la matematica e la geometria, astrazioni create dalla loro mente, ma non la realtà fisica o sé stessi, perché creazioni divine.

Il suo intento è quello di mettere in relazione filosofia (che si occupa della verità) e filologia (che si occupa della certezza, come metodo storico e documentale), alla ricerca della genesi ideale del mondo civile. Il punto di partenza della filosofia di Vico è la questione della verità, che per Cartesio era stata ritenuta accessibile alla conoscenza umana, sulla base di quelle idee chiare e distinte che risultano evidenti alla ragione. Vico si oppone fermamente a questa concezione razionalistica, che a suo avviso inaridisce la creatività che è la facoltà più propria dell’uomo. Secondo una sua celebre affermazione, «Verum et factum reciprocantur seu convertuntur»2, cioè il vero e il fatto si convertono l’uno nell’altro. È questo il principio della filosofia vichiana, secondo il quale l’unica verità che può essere conosciuta consiste nei risultati dell’azione storica. Solo Dio conosce il mondo in quanto lo crea continuamente, mentre all’uomo è riservato il posto di artefice della storia e la storia (e la matematica) sono gli unici oggetti della sua conoscenza in quanto da lui prodotti.

Lo studio della storia è una scienza nuova, per Vico, la quale, mediante la connessione di filosofia e filologia, deve occuparsi di individuare e documentare gli eventi della storia, i fatti, ma soprattutto deve pensarli ricercandone quelle ragioni ideali ed eterne, che sono destinate a presentarsi costantemente all’interno di tutti i momenti della storia. La scienza di Vico si baserà perciò su un metodo storicistico, basando la sua analisi su alcune premesse ovvero principi ritenuti intuitivamente certi, che Vico denomina “degnità”.

Secondo Vico la storia è dunque opera dell’uomo, cioè modificazione della mente dell’uomo, che lo porta a passare dal senso, alla fantasia, fino alla realizzazione della ragione: «Gli uomini prima sentono senz’avvertire, poi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura»3.

La prima fase è l’età in cui gli uomini erano come “bestioni” in una condizione di vita ferina, da cui, lentamente, sotto l’incombente e ostile realtà naturale, uscirono scoprendo la divinità, le leggi morali, e quindi istituendo i primi legami sociali. Inizia così il processo di incivilimento, fino all’età della dispiegata ragione, l’età degli uomini: processo che è guidato dalla provvidenza secondo disegni grandiosi che sovrastano i particolari fini perseguiti dagli uomini; da questo punto di vista la scienza nuova si vuole configurare come «teologia civile ragionata della provvidenza»4.

Vico dà valore e significato positivo anche alle prime fasi della storia umana, momenti aurorali, primitivi, barbari, che ricordano la fanciullezza dell’uomo: furono i tempi della nascita del linguaggio, della piena espressione della “fantasia”, della creazione dei grandi miti e della poesia. «I primi popoli furono poeti, i quali parlarono per caratteri poetici»5: il linguaggio, inteso come creazione ed espressione della fantasia (non dunque artificio), è essenzialmente poetico perché quegli antichi uomini si esprimevano con immagini e metafore. L’età eroica, cui soprattutto si riferiscono le considerazioni di Vico sulla fantasia, il linguaggio, la poesia, trovò la sua massima espressione in Omero: i suoi poemi sono l’espressione del popolo greco che narra la sua storia. All’età degli dèi e all’età degli eroi succede l’età degli uomini, «nella quale tutti si riconobbero essere uguali in natura umana»6 che si esprime nella «ragion umana tutta spiegata»7. Ma la storia umana non realizza un processo lineare: dalla “ragione perfettamente spiegata” gli uomini cadono nella «barbarie della riflessione»8 fino alla negazione di Dio: così gli uomini ritornano in una nuova barbarie da cui ricomincia un nuovo “corso” della storia. Esempio di questo ricorso è il Medioevo, con il suo lento riscoprire linguaggi, miti, organizzazioni civili: di quest’età è massima espressione Dante, il «toscano Omero»9, che la rispecchia nel suo poema. Si compie così in corsi e ricorsi, che non comportano ripetersi di accadimenti individuali ma ritorno di analoghe forme storiche, la storia delle nazioni in cui l’artefice è sempre è la Divina Provvidenza.

Il susseguirsi di corsi e ricorsi storici non significa, come comunemente si interpreta, che la storia si ripeta: significa, piuttosto, che l’uomo è sempre uguale a se stesso, pur nel cambiamento delle situazioni e dei comportamenti storici. Ciò che si presenta di nuovo nella storia è solo paragonabile per analogia a ciò che si è già manifestato.

Così, ad esempio, ad epoche di civiltà possono seguire epoche di «ritornata barbarie»10. La storia, dunque, è sempre uguale e sempre nuova. In tal modo è possibile comprendere il passato, che altrimenti ci rimarrebbe oscuro, perché Historia se repetit. Forte è il ruolo della Provvidenza, che agisce nella storia pur trascendendola e senza, quindi, confliggere con l’esercizio del libero arbitrio.

La dottrina della Provvidenza vichiana prende le mosse dal rifiuto dell’azione del caso e del fato, poiché il primo renderebbe impossibile l’esistenza di un ordine e il secondo sarebbe un ostacolo alla libertà. Ordine e libertà, nel percorso di costituzione del mondo delle nazioni, possono essere assicurati solamente dall’azione della Provvidenza, che orienta l’azione umana – in sé tendenzialmente distruttiva – in direzione della conservazione e miglioramento del mondo della storia.

Vico conosce, cita e soprattutto supera Hobbes11 e Pufendorf12, come pure “riprende” (cioè confuta) Cartesio, Spinoza e Locke13, stabilendo quindi un pensiero napolitano, autonomo e critico rispetto alla cultura generale europea.

1 Principi d’una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, per i quali si ritruovano altri princìpi del diritto naturale delle genti, Napoli 1725.

2 Giambattista Vico, L’antichissima sapienza degli italici, cap. i, in Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1971, p. 62.

3 G. Vico, La scienza nuova, lib. i, sez. ii, Degnità liii.

4 Ivi, Idea dell’opera e lib. i, cap. iv, Del Metodo. Particolare importanza assume, nel quadro storico tracciato da Vico, lo studio delle prime fasi della vita degli uomini, dalle quali resta escluso il popolo ebreo, in quanto il suo sviluppo non è autonomo, bensì guidato e sostenuto da Dio.

5 Ivi, Idea dell’opera.

6 Ibid.

7 Ivi, lib. ii, Degnità 114.

8 Ivi, Conchiusione dell’opera.

9 Ivi, lib. iii, cap. i, § 1.

10 Ibid.

11 Ivi, lib. i, sez. ii, Degnità xxxi, in cui dice: «Ove i popoli son infieriti con le armi, talché non vi abbiano più luogo l’umane leggi, l’unico potente mezzo di ridurgli è la religione». E in Conchiusione dell’opera: «Adunque, di fatto è confutato Epicuro, che dà il caso e i di lui seguaci Obbes e Macchiavello; di fatto è confutato Zenone, e con lui Spinosa, che dànno il fato».

12 Ivi, Degnità cv, in cui afferma: «Il Diritto natural delle genti è uscito coi costumi delle nazioni tra loro conformi in un senso comune umano, senza alcuna riflessione e senza prender essemplo l’una dall’altra. […] Questa stessa stabilisce la differenza del Diritto natural degli Ebrei, del Diritto natural delle genti e Diritto natural de’ filosofi: perché le genti n’ebbero i soli ordinari aiuti dalla Provvedenza; gli Ebrei n’ebbero anco aiuti estraordinari dal vero Dio […]. Per tutte le quali tre differenze non osservate, debbon cadere gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio».

13 Ivi, Libro ii, sez. i, cap. iv: «Riprensione delle metafisiche di Renato Delle Carte, di Benedetto Spinosa e di Giovanni Locke», a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Bari 1916, vol. i, p. 242-244.

tratto da

Gianandrea de Antonellis, Carlismo per Napolitani, Solfanelli, Chieti (in corso di pubblicazione)

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