Giovanna Bonanno, la vecchia dell’aceto
Il 30 aprile 1789 la Corte Capitaniale di Palermo emise una sentenza di condanna a morte: “Ista Joanna Bonanno suspendatur in furcis altioribus donec ejus anima a corpore separetur, et exsequtio justitiae fiat in quadrivio plateas Villen huius Urbis”.
Giovanna aveva più di ottant’anni, sebbene nessuna anima viva sapesse, realmente, la sua età. Gli abitanti della zona la conoscevano come mamma Anna e, forse, Bonanno non era nemmeno il suo vero cognome.
La vecchia viveva nel quartiere più popolare di Palermo, detto Zisa, ove tirava avanti preparando unguenti, pozioni e filtri d’amore.
Risulta da alcune fonti che un tale Vincenzo Bonanno nel 1744 sposò una donna di nome Anna Pantò: Giovanna Bonanno era il nome (probabilmente falsificato o trascritto male) che emerge dagli atti giudiziari del processo per veneficio e stregoneria.
Si narra che, nel periodo della rivoluzione francese, vagabondasse un’anziana e rugosa questuante che prometteva guarigioni immediate grazie ad una miracolosa acqua che sembrava si portasse dietro in una fiasca di vimini. La cosa più inquietante era che questo liquido servisse, soprattutto, alle donne che volevano morto il loro marito.
Anna, era un povero diavolo, come quasi tutti i palermitani d’allora.
Allo stesso tempo, non era ignorante, come i suoi concittadini, in quanto aveva imparato a leggere da sua nonna da cui aveva ricevuto in dono vari libri che avidamente aveva letto e imparato quasi a memoria.
Questo auto-indottrinamento le servì per ingannare più facilmente le persone analfabete e superstiziose che la circondavano.
E tale fu la sua vita per tanti anni, fino a quando ormai, vecchia, ebbe a scoprire, così per caso, una cosa che le avrebbe cambiato del tutto la vita.
Un giorno, girando per la città, entrò nella bottega d’un aromataio dove un gruppo di donne scarmigliate al seguito di una donna con una bambina in braccio, gridava: “Sua figlia muore! Ha bevuto l’aceto dei pidocchi! Don Saverio la salvi!”.
Don Saverio, prese da uno scaffale dell’olio, vi mescolò dell’aceto e lo fece ingurgitare alla piccola, poi con una penna di gallina le solleticò la gola per provocarle il vomito.
Dopo che ebbe vomitato, consegnò una pozione alla madre dicendo: “L’aceto dei pidocchi è un veleno potentissimo e non bisogna tenerlo alla portata di chiunque. Ringraziate Dio che l’avete scampata bella!”.
Anna, allora, avvicinò la madre della giovane e le chiese cosa mai avesse ingerito la piccola.
La donna le spiegò che inavvertitamente la figlia aveva portato alla bocca un liquido che serviva per ammazzare i pidocchi e le zecche.
Quando le donne uscirono, la vecchia Anna rimase, un’idea le era venuta in mente, acquistò una caraffa di quell’aceto e se lo portò in casa, non prima però di aver ricevuto spiegazioni sulla composizione.
Venne a sapere che la miscela era costituita da aceto e arsenico.
Bisognava provare su qualcuno l’effetto di quell’aceto. Prese una ciotola di creta, vi mise dell’acqua e vi ammollò un pezzo di pane che poi riempì di quell’aceto.
Visto un cane randagio, lo adescò e gli fece mangiare quel pane. Legatolo con una cordicella se lo portò in mezzo ai campi e lo legò ad un albero. L’indomani mattina, tornata sul posto, trovò il cane stecchito. L’esperimento era riuscito.
Dopo cinque giorni dall’accaduto, Anna volle provare quel liquido su un essere umano e, l’occasione le capitò quando venne raggiunta da Angelina, una sua vicina di casa, che voleva liberarsi una volta per tutte del marito geloso e assillante, così da coronare il suo sogno e accasarsi con l’amante.
La vecchia, le vendette una piccola fiasca contenente uno strano miscuglio e le suggerì di versarne due o tre gocce nella minestra del marito.
L’uomo morì il giorno stesso, misteriosamente.
Da allora una lunga sequela di morti improvvise fece tremare l’intero quartiere e mezza Palermo.
Anna era divenuta temuta e rispettata e da quel giorno iniziò la nuova carriera di avvelenatrice a pagamento.
Conosceva tanti segreti di tante famiglie: il suo secolo non ebbe certo buona fama come osservante della morale e del buon costume.
Clienti non ne mancavano, non soltanto nel popolino, ma anche nella borghesia e nella nobiltà, che anzi pagavano meglio e di più.
Faceva testo la famosa Peppa La Sarda che nel secolo precedente aveva avvelenato su mandato donna Luisa Albamonte, duchessa della Motta.
Ed Anna Bonanno procedeva sicura nel suo mestiere.
I suoi (loschi) lavoretti, come amava chiamarli, la resero ben presto benestante e lo stesso proprietario di due cimiteri la benediva ogni passo che faceva.
La prima cliente di Giovanna fu una sua vicina che desiderava “separarsi” dal marito per dedicarsi totalmente al suo amante. La “cliente” aveva però poco da spendere ed acquistò una dose poi rivelatasi sufficiente solo per procurare forti dolori di pancia al marito. Dovette acquistarne altre due dosi per vedere il marito, inutilmente ricoverato in ospedale, morto. Nessun medico riuscì ad accertare la causa della morte, e questo diede a Giovanna la certezza di non essere scoperta. Fu così che cominciò a chiamare la sua mistura “arcano liquore aceto“.
Nel quartiere popolare Zisa di Palermo, cominciano a verificarsi morti molto misteriose. Dapprima il fornaio, la cui moglie era diventata insofferente e pagò anche un premio extra, poi un nobile, colpevole di aver dilapidato il patrimonio familiare, poi ancora la moglie di un altro fornaio, che sospettava di essere tradito, poi ancora un tale che costituiva elemento di disturbo tra la propria moglie e il giardiniere.
La discutibile carriera di Giovanna Bonanno (ormai prossima agli 80 anni) fu stroncata da un errore:
Un giorno una certa signora Maria Costanzo, vide morire misteriosamente il giovane figlio Francesco. Il medico non aveva capito di quale male si trattasse. Ma la Costanzo sospettava che il figlio fosse stato avvelenato dalla moglie, Rosa Mangano.
Un’amica della Costanzo, Giovanna Lombardo si recò da Anna Bonanno, della quale sapeva per fama del suo sinistro mestiere, e si informò in confidenza.
Anna, in amicizia, le confidò che il veleno l’aveva consegnato a Maria Pitarra, una sua collaboratrice, aggiungendo:
“Se avessi saputo che doveva servire per il figlio di Maruzza Costanzo, che conosco, l’avrei avvisata”.
La Lombardo riferì tutto alla Costanzo. Lei, piena di dolore, corse dal suo confessore che le consigliò di denunziare alla giustizia ogni cosa. Così avvenne il clamoroso arresto di Anna Bonanno, delle sue collaboratrici Rosa Billotta e Maruzza Pitarra, e di altre dodici persone che avevano avuto rapporti con la Bonanno.
Mamma Anna si ritrovò, ventiquattro ore dopo, nel vano degli interrogatori, ove, svestita di ogni indumento personale le venne fatto indossare una lungo saio bianco, rasata a zero, e soggiogata alla tremenda tortura della corda.
Il reo veniva legato ad una trave del soffitto, da dove pendeva una corda. A questo punto il colpevole veniva fatto cadere, da due metri d’altezza e coi polsi legati dietro la schiena, così da produrgli delle profonde slogature o fratture alle spalle e alle braccia.
La Bonanno crollò subito e confessò i misfatti, cosicché la Giuria poté radunare i pochi sopravvissuti al terribile veleno, convocare il droghiere e i quattro testimoni della madre di Costanzo.
Nell’ottobre del 1788, davanti alla Regia Corte Capitaniale di Palermo, iniziò il processo a Giovanna Bonanno per stregoneria, dove furono chiamati a testimoniare i coniugi superstiti di sei venefici (quelli scoperti e denunciati) ed anche il droghiere che vendeva sistematicamente l’aceto per i pidocchi alla Bonanno. La condanna riportata in primo grado fu confermata dal Tribunale della Gran Corte. Il 30 luglio 1789 l’avvelenatrice pendeva dalla forca.
E’ interessante notare una fase dell’interrogatorio del commissario inquirente alla vecchia Anna. “Ditemi, facevate quello che avete compiuto per pura malvagità o soltanto per denaro?”.
La vecchia lo guardò fisso e rispose: “Vostra Eccellenza si sbaglia… tuttu chiddu ch’haiu fattu, lu fici a fin di bene (tutto quello che ho fatto fu a fin di bene)”.
Risate nell’aula.
“Non c’è niente da ridere”, continuò Anna, “Vosta Eccellenza mi ascolti. Io non davo l’acqua a fin di male, ma per levare di mezzo liti e dissapori, impedire mali maggiori e dar pace alle famiglie. Così fu. Mi dica Eccellenza, cos’è la vita d’una persona di fronte alla tranquillità e alla felicità di tante altre?”
“Un po’ troppo… umanitaria è la vostra tesi”, le disse il capitano di giustizia.
“Tutti di carne siamo fatti e possiamo peccare”, proseguì Anna Bonanno, “finchè mondo sarà mondo capiterà che una donna maritata contrae un’amicizia. Bene! Essa vive in peccato mortale; e così pericoloso che il marito ammazzi lei e l’innamorato. Due morti. Il marito è arrestato e impiccato: e son tre. Beh! Sacrificando il marito si salvano la moglie e l’amante, i quali si sposano e si liberano dal peccato; i figli restano con la madre e la pace ritorna in casa. Io ho fatto del bene”.
“Ma brava! Meritereste una medaglia, invece della forca, non è vero zia Anna?”, le rispose il capitano di Giustizia.
Le deposizioni precise e dettagliate permisero alla corte di emettere la condanna a morte mediante impiccagione.
Grande scalpore suscitò la sentenza e alla esecuzione capitale assistè tutta la città.
Il giorno 27 luglio 1789, un’anziana donna su una carretta procedeva a passo lento a causa dell’età avanzata dei tre cavalli, era circondata da due ali di folla urlanti, per le strade assolate di Palermo.
La stavano conducendo di fronte alla Compagnia dei Bianchi, una cerchia ristretta di aristocratici siciliani aventi la competenza, per 72 ore, di allestire e curare i condannati a morte.
Il tutto si svolgeva in quel di Piazza Vigliena dove, al centro esatto di detta, un boia attendeva l’anziana Giovanna Bonanno, detta anche la vecchia dell’aceto.
Dopo aver salito lentamente i gradini che la conducevano al patibolo; la Bonanno salì sullo sgabello, fra atroci dolori procuratigli dalla tortura, e introdusse la testa nel capestro, mentre il suo carnefice si stava preparando a dare la fatidica pedata al panchetto.
Un sordo rumore di corda, che si strinse e spezzò il collo, raggelò il pubblico: tutto si concluse, con il corpo di Anna che penzolava dalla forca.
La vecchia fu giustiziata di fronte ad una folla immensa, come racconta il Villabianca nel suo diario.
Dopo di lei toccò alla sua commare Pitarra che fece di tutto per divincolarsi dalla presa del boia. Dopo un attimo anch’ella non era più di quella terra.
Oggi, un busto in creta di Anna Bonanno è conservato presso il museo civico di Palermo. Il ricordo di questa megera delittuosa è rimasto ancora nel popolo palermitano che, quando vuole dare un giudizio sintetico su una persona cattiva e brutta, esclama:
E’ cchiù laria di la vecchia di l’acitu! (E’ più brutta della vecchia dell’aceto!).
fonte
blog. sicilia tra storia e mito