GLI ANNI DELLA RABBIA 1943-46… BANDITISMO E SEPARATISMO TRA NISCEMI E CALTAGIRONE III
16.10.1945 Uccisi tre carabinieri in contrada Apa (Niscemi)
In un primo tempo la Banda dei niscemesi aveva operato nel territorio di Niscemi, razziando ciò che poteva: centinaia di persone erano state rapinate, le fattorie saccheggiate e nessuno voleva più andare ad abitare in campagna. I ricchi non uscivano più dal paese e chi si metteva in viaggio era consapevole del rischio che correva.
Farsi scortare significava solo mettere a repentaglio la vita di altre persone, soprattutto lungo la strada che conduce a Caltagirone, particolarmente battuta dai banditi.
I rastrellamenti posti in essere dai Carabinieri davano pochi frutti. Solo in un’occasione conseguirono un risultato significativo: un bandito ferito, uno catturato e un altro si costituì ai militari (il calatino Angelo Vigoroso); il tutto dopo una sparatoria nella Piana di Gela.
Verso la fine del 1945 le azioni della banda si fecero sempre più intraprendenti e costituirono un assaggio di quello che sarebbe accaduto a gennaio dell’anno dopo: la strage di Feudo Nobile.
Il 16 ottobre del 1945, una decina di banditi si appostò lungo la stradella che si diparte da quella che i Niscemesi chiamano ancora oggi “curva ri l’Apa” e conduce alla fonte che prende lo stesso nome (“bbrivatura ri l’Apa”).
Si apprenderà di seguito dalla viva voce del figlio di Canaluni che a guidare quel drappello era Giuseppe Militello (che perderà la vita in un’altra occasione sparando a un fusto di benzina nell’atto di compiere un attentato all’ingegnere Iacona).
A raccontare l’episodio vent’anni dopo sarà anche uno dei carabinieri coinvolti nell’agguato: Santo Garufi. Raggiunto anche lui alla testa da colpi di mitra, sia pure di striscio, cadde ferito e il suo corpo ricoperto da un collega morto.
I banditi si avvicinarono e il Garufi implorò loro: cosa volete più! A quel punto il Militello gridò ai suoi basta! alzando contemporaneamente la mano per stroncare ogni tentativo di aprire il fuoco.
Poi ordinò al militare di alzarsi, ma non avendo la forza qualcuno lo aiutò a farlo, sollevando il cadavere dell’ucciso che lo copriva. Un bandito gli chiese con voce perentoria: dov’è il brigadiere Montesi? Rimasero delusi nell’apprendere che non era nel gruppo.
Spiegherà Garufi che il vicebrigadiere Montesi era in forza al nucleo mobile di Niscemi ed era un vero e proprio spauracchio per i banditi. Sarà il carabiniere che per primo giungerà sul posto dove era stato fatto trovare il corpo senza vita di Canaluni.
Da questa testimonianza è facile comprendere come l’agguato mirava in realtà a far fuori il coraggioso sottufficiale. Dopo un breve conciliabolo, i banditi decisero di lasciare in vita il superstite e dopo avergli sottratto pastrano, scarpe e armi gli ordinarono di andarsene.
Con un particolare sconcertane: imposero al carabiniere ferito di togliere le scarpe ai colleghi morti. Si saprà poi che le armi sottratte (moschetti mod. 1891) furono portate a monte San Mauro e consegnate a Concetto Gallo.
Qui vennero assegnati ai Separatisti per sorteggio. Pur temendo da un momento all’altro di essere fucilato alle spalle, il carabiniere Garufi si avviò verso il paese, mentre i malviventi depredavano quel che restava dei colleghi morti.
Sebbene ferito, riuscì ad arrivare in caserma intorno alla mezzanotte e da qui fu portato in ospedale. Anche gli altri superstiti arrivarono alla spicciolata, mentre uno si portò a Caltagirone per farsi medicare in ospedale. Ne seguì un’inchiesta e grazie alle testimonianze dei superstiti si seppe che a partecipare a quell’azione di fuoco erano stati Rizzo, Buccheri, Collura, Arcerito, Romano, Bottiglieri, Lombardo, Leonardi, Interlandi e Milazzo.
Oltre ad Avila junior, il già citato Militello che fungeva da capo, un certo Buscemi, che mai venne esattamente identificato e forse qualcun altro. Pare pure che fra i banditi ci fosse l’Avila padre, ma di ciò – per via dell’oscurità – non si ebbe mai certezza.
Il bandito indicato col cognome Milazzo avrà un ruolo decisivo nel ritrovamento dei corpi dei carabinieri sequestrati a Feudo Nobile. In un primo momento venne indiziato come mandante di quell’eccidio il capo dell’EVIS Concetto Gallo, perché aveva teorizzato l’attacco contro i Carabinieri, in quanto rappresentavano lo “Stato Italiano”.
Addirittura nel rapporto redatto dal generale Branca e inviato al capo del governo Alcide De Gasperi si parla di Gallo come colui che aveva capeggiato “personalmente” il drappello di banditi (rapporto del 16.2.1946).
Al processo venne però prosciolto, perché riuscì a dimostrare che quel giorno si trovava al campo di Monte San Mauro. Avila Saro, figlio di Canaluni, venne arrestato sei mesi dopo e fece alcuni nomi dei complici (compreso il padre) omettendo di citare sia Rizzo che Milazzo.
Gesualdo Collura invece – arrestato anche lui – ammise la sua presenza nel gruppo, ma negò di avere partecipato alla sparatoria, dichiarando che si era allontanato per andare a prendere il cavallo di un altro bandito, il Milazzo.
Quest’ultimo alla fine confesserà le malefatte e confermerà i nomi dei complici. In un primo tempo si era anche fatto il nome di un altro bandito, tale Salvatore Di Franco, ma alla fine non fu neanche processato; venne trovato morto il 9 agosto 1945.
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