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Gli intrighi, le menzogne ed il brigantaggio piemontese in Italia (V)

Posted by on Feb 3, 2023

Gli intrighi, le menzogne ed il brigantaggio piemontese in Italia (V)

CAPITOLO QUINTO
I partigiani della demagogia sovversiva

In questo frattempo il protocollo del trattato di Parigi1 dava come una prima soddisfazione all’ambizione pie­montese, biasimando i Governi della Penisola che resiste­vano alla rivoluzionaria politica sarda. È qui che bisogna cominciare a conoscere le risorse misteriose della politica, per capire come si sono potuti biasimare i piccoli stati d’Italia che certo sarebbero stati più rispettati se avessero potuto mettere 300.000 uomini nei rischi della battaglia. Ma si sa già che quelli che più hanno bisogno di consigli sono i primi “a darli ed a criticare gli altri.

Se il Conte Walewski trovava nel 1856 che “lo Stato pontificio era in una posizione anormale in causa d’avere le truppe francesi a Roma e le austriache nelle Legazioni” come poi può trovare regolare che i piemontesi occupino le Marche e l’Umbria e massacrino la piccola armata papale? Forse che la Francia come prima potenza europea e cattolica non ha il diritto di conservare nel 1860 il pote­re temporale del Papa come fece nel 1849?…

E se v’ha qualche cosa d’anormale nella situazione d’un sovrano che per mantenersi ha bisogno di truppe straniere, è questa una buona ragione per abbandonare una gran parte degli Stati pontificii in mano al Piemonte, mentre l’imperatore Napoleone dichiarava solennemente in molte circostanze, ed il Conte Walewski confermava nel suo protocollo che l’Imperatore non cesserebbe mai di prendere il più vivo interesse all’autorità del Governo pontificio?… La situazione degli Stati romani è essa meno anormale, e la questione italiana minaccia meno la tranquillità d’Europa?… Se qualche cosa v’ha d’anormale, è certo una politica in cui fatti e promesse sono sempre in contraddi­zione. Senza dubbio “è a desiderarsi che lo Stato pontifì­cio si consolidi in maniera da permettere alle truppe fran­cesi d’evacuare senza che si abbiano a temere inconve­nienti per lo Stato medesimo”. Ma non basta esprimere un desiderio più o meno sincero, bisogna sopra tutto par­lare al Piemonte il vero linguaggio della Francia, quel lin­guaggio che vale sempre una vittoria, ed una vittoria migliore di molte battaglie.

Dopo una serie di frasi sulla situazione anormale degli Stati pontificii e sulla necessità di prestare aiuto al Santo Padre, il Conte Walewski crede dover rendere un segnalato servigio a certi Governi della Penisola ed a quello delle due Sicilie in particolare, invitandoli ad abbandonare la falsa via nella quale si sono incamminati.

Ascoltando questo diplomatico, gli sforzi di questi Governi per mantenere l’ordine nei loro stati era direttamente contro lo scopo prefisso, non faceva che indebolire il governo ed accrescere i partigiani della demagogia. Ma cosa bisognava far dunque? Per contentare le esigenze di certuni bisognava forse dare a popolazioni essenzialmente monarchiche una di quelle costi­tuzioni che sembrano la malattia del nostro secolo?… “È faci­le”, diceva Massimo d’Azeglio, italiano le parole del quale non ponno essere sospette ai rivoluzionarii; “è facile procla­mare monarchia, repubblica, costituzione, ma non è concesso ad alcuno il rendere le popolazioni monarchiche, repubblicane, costituzionali, se esse non lo sono pe’ loro costumi e per le loro opinioni. Tutte le ferocie del Terrore non riuscirono a fare dei Francesi tanti repubblicani, perché essi non lo saranno mai. Le copie di costituzioni portate in Italia nel 1821 non hanno resa l’Italia costituzionale, questa non lo fu e non sarà mai costituzionale”. Esporremo in due parole quanto produssero in Europa dal 1789 in poi questi grandi cambiamenti nei governi delle nazioni.

Luigi XVI fu il primo che ne fece egli stesso l’esperien­za e che la fece fare al suo popolo diventato filosofo. Invece di proseguire prudentemente le grandi riforme che aveva intraprese nel principio del suo regno, e che sono tutte nominate nella celebre dichiarazione del 23 giugno 1789, questo monarca, rinunciando alle antiche tradizioni nazionali per secondare il trasporto irriflessivo degli spiriti, dopo aver imprudentemente tollerato che gli Stati generali si formassero di loro propria volontà in assemblea nazionale, e legalmente violassero la monarchia francese sotto pretesto di costituirla, Luigi XVI sanzionò tutte le leggi di demolizione fatte da questa assemblea, e stabilì in Francia un nuovo sistema di governo che tra­sportava di fatto e di diritto il potere reale nelle masse. Queste erano le teorie di Gian-Iacopo fatalmente messe in pratica. Si sa quello che ne venne: rivolte, massacri, proscrizioni come ai tempi di Mario e di Siila: la repubbli­ca e poi la barbarie con tutte le miserie che vengono die­tro.

Luigi XVIII, ch’era un re capace di governare da sé solo, credette far buona cosa dividendo ai suoi popoli i poteri ed i diritti della corona con uno statuto. Ma lo spi­rito rivoluzionario pronto ad abusare di tutte le libertà, si mise ad agitare nuovamente la Francia, a cospirare ed a fare rivoluzioni. Carlo X fu rovesciato dal trono in virtù dello statuto medesimo da un’assemblea di 221 faziosi, e questo statuto medesimo divenne poi una verità sotto Luigi Filippo, e non impedì le rivolte sanguinose, le cospi­razioni repubblicane, i regicidii e la caduta del re cittadi­no. Lo spirito rivoluzionario non cerca costituzioni o sta­tuti, egli vuole un pretesto per far rumore, per agitare le masse. Quale sarà la storia che dopo il 1789 oserà darci una mentita?…

La Repubblica del 1848 per mostrare che sapeva fare qualche cosa scriveva anche una bella costituzione alla Gian-Iacopo; ma come tutti, anche lo straccialo era allora un poco sovrano in Francia: lo spirito rivoluzionario s’im­padroniva di tutti i malcontenti degli ambiziosi, di tutti quelli che non hanno una posizione sociale, e di tutti quelli che vivono nelle bettole e nei conciliaboli della distruzione, e dopo aver riempita la Francia intiera di disordini diede quella formidabile battaglia che spaventò l’Europa, e lo scopo della quale sarà per lungo tempo ancora un mistero nella storia! Questa povera costituzione di giornalisti e di avvocati se ne andò poi vergognosamen­te a morire colla repubblica nell’angolo d’una strada fra un cannone ed un mercatante di vino.

Se noi passiamo ora rapidamente in rivista le altre nazioni alle quali i sovrani hanno avuta la debolezza o la disgrazia d’accordare intempestivamente costituzioni alla Gian-Iacopo, allorché avrebbero dovuto contentarsi di riformare gli abusi del loro governo, vedremo che queste funeste concessioni imprudentemente fatte allo spirito rivoluzionario del tempo non hanno servito, quasi da per tutto che ad affrettare la caduta dei troni. Diffatti in Austria la costituzione del 1848 fu come il segnale della rivoluzione di Vienna. Ferdinando I, Ferdinando II, e Francesco II, nel 1821, nel 1848 e nel 1860, nel regno delle Due Sicilie, si videro ugualmente minacciati da for­midabili rivolte ed obbligati a fuggire davanti alla costitu­zione che avevano concessa. Una cosa importante da notarsi è che la costituzione data da Francesco II, il 15 giugno 1860, precedette di due giorni soltanto il massacro degli agenti della polizia in tutto il regno. Certamente veri briganti pagati dalle sette, quoque ipse miserrima vidi, adempirono a Napoli l’ufficio di carnefici in una sola mat­tina. Era un sanguinoso preludio agli orribili scoppii dei Cialdini, dei Pinelli, dei Fantoni e dei Fumel. Leopoldo II, Granduca di Toscana, non fu più fortunato nel 1848. La sua costituzione è del 15 febbraio: la rivoluzione mise un anno a rovesciarlo dal suo trono. Federico Guglielmo re di Prussia accordò anch’egli una costituzione a’ suoi popoli, e poco tempo dopo abbandonò la sua capitale in causa d’un ammutinamento, dopo essere stato costretto dai faziosi a discendere nella strada per salutare i cadaveri dei ribelli. Pio IX in fine diede una costituzione a’ suoi stati, come per provare che non voleva rimanere indietro dal suo secolo, e per soddisfare anche a certe esigenze: e nel giorno stesso che s’aprivano a Roma le sedute delle Camere dei rappresentanti, sulla soglia della Camera stes­sa, il Conte Rossi suo primo ministro fu assassinato: ed egli stesso fu costretto a cercare un asilo sulla rocca di Gaeta.

Cosa bisogna conchiudere da tutto questo?… Che la rivo­luzione ha un’abilità fatale per agitare i popoli a rovesciar l’Europa. La libertà era in principio la sua parola d’ordine, o meglio il suo grido di disordine: una costituzione, nella quale il suddito diventi sovrano quasi tanto come il sovrano stesso, è oggi il suo mezzo legale di rivolta, e, se si potesse dire, la sua formula politica di disorganizzazione. E siccome questi due termini, libertà e costituzione, non sono nel suo pensiero che la manifestazione dell’astio che nutre contro la religione, la giustizia ed il diritto, tre cose che distinguono l’u­manità cristiana e civilizzata dalla barbara, così è giunta a rendere a tutti sospetta la sua libertà e la sua costituzione. E per la verità molti intriganti rivoluzionarii hanno già troppe volte ridotte a loro profitto queste parole, perché si possa ritenere che le medesime riescano ancora a sedurre uomini serii ed onesti.

In seguito è detto in questo famoso Protocollo che il plenipotenziario della Gran Brettagna, lord Clarendon, avrebbe creduto “mancare al suo dovere se avesse appro­vato col suo silenzio delle situazioni che nuocciono all’e­quilibrio europeo, e che sono molto lungi dall’assicurare la pace in un paese dei più interessanti d’Europa”. Questo rimprovero era diretto naturalmente al Papa ed al Re delle Due Sicilie, ma non agli intrighi del Piemonte né al suo spirito rivoluzionario, che mentre era la causa di tanti mali in Italia, era anche il solo motivo che per le incessan­ti rivolte, armate straniere discendessero così spesso nella Penisola. Lungi dal passar sotto silenzio le cause che ave­vano prodotto lo stato anormale, irregolare, di cui parla il nobile lord, ci sembra sarebbe stata saggia ed utile cosa l’informarsene, ed esporle imparzialmente al Congresso. Scoperte le vere cause, sarebbe stato più facile il porvi un rimedio. E d’altra parte quando la rivoluzione minaccia un trono è forse cosa prudente il coprirlo di biasimo?… Noi abbiamo già detto che questo è uno scusare le più audaci involte. E il Governo inglese è egli così puro e così perfetto da poter francamente tacciare di detestabile ogni altro governo?… Se l’amministrazione degli Stati Pontificii, fra le altre cose, è poco onorevole pel Governo del Papa, e rincrescevole ai popoli, l’amministrazione delle Indie inglesi, delle Isole Jonie e della Gran Brettagna è meno rincrescevole forse ai popoli?…

Il plenipotenziario della Gran Brettagna raccomanda fra le altre cose la secolarizzazione del Governo Pontificio e l’organizzazione del sistema amministrativo in armonia collo spi­rito del secolo. Ma forse il nobile lord ignora le ammirabili riforme amministrative intraprese con ardore e realizzate da Pio IX? Quanto alla secolarizzazione, noi lo preghiamo di leggere il rapporto ufficiale del signor Conte di Rayneval, inviato francese a Roma, e si convincerà che il numero degli ecclesiastici esercenti funzioni pubbliche negli Stati Romani è infinitamente piccolo. “Nel 1856, dice questo rapporto, nelle diciotto provincie pontifìcie il numero degli ecclesiastici impiegati dal Governo non ecce­deva il numero di quindici!!! Uno per provincia, e tre provin­cie non ne avevano alcuno. Erano delegati, o, come noi diciamo, prefetti. I tribunali, i consigli, ed in una parola gl’impieghi d’ogni sorta, erano coperti da laici, che ascen­devano fino al numero di 2933, cioè 2313 per le funzioni civili e 620 per le giudiziarie… Nella somma totale gli ecclesiastici impiegati nell’interno dello Stato arrivavano a 98, i laici a 5059. Diffalcando i funzionarii dei tribunali superiori della capitale, in mezzo ai quali qualcuno, come il tribunale del vescovo, non ha che una giurisdizione esclusivamente ecclesiastica, noi troviamo che in tutti quanti i rami dell’amministrazione dello Stato pontificio, il numero degli ecclesiastici impiegati non oltrepassa il numero di trentasei”. È veramente dispiacente il vedere dei diplomatici di grandi nazioni biasimare un Governo di cui mostrano conoscere l’amministrazione, e basare le loro asserzioni su dati e fatti che sanno di certo essere falsi.

Per quanto riguarda al Governo napoletano, il plenipo­tenziario della Gran Brettagna crede nel suo Protocollo che sia per lui un diritto ed un dovere di alzar la voce nel seno del Congresso contro un sistema che alimenta in seno alle masse in luogo di ammorzare l’effervescenza popolare. Ecco almeno un’accusa ben fondata: il Conte Cavour non avrebbe detto meglio; poi aggiunge: Noi dobbiamo far conoscere al re di Napoli questo voto del Congresso pel miglioramento del suo sistema di governo, voto che certo non rimarrà senza un risultato, e domandargli un’amnistia per le persone che in causa di delitti politici furono condannate o desti­tuite senza un processo. Raccomandiamo la lettura di questa frase all’ex re del Piemonte, ora, per la grazia dei tradi­menti, re d’Italia; questa frase sembra essergli particolar­mente diretta; noi siamo sempre pronti a dimostrarlo con fatti e con cifre innegabili, non con vane accuse.

Ci permetteremo di dire al nobile plenipotenziario della Gran Brettagna che se la storia volesse registrare il nome di tutte le vittime officialmente immolate dal fanatismo prote­stante in Inghilterra ed in Irlanda, sarebbero necessarii gros­si volumi per contenere questa sanguinosa nomenclatura. E se si potesse fare un paragone col regno di Vittorio Emmanuele re d’Italia, si stupirebbe della quantità innume­revole di esiliati e detenuti, non solo per delitti politici, ma ben anche per solo sospetto di Borbonismo e di Papismo. E che sarebbe poi se si avesse da aggiungere a questa lista di sangue l’elenco di tutti i pugnalati e fucilati delle Due Sicilie sotto lo stesso felicissimo governo del re galantuomo. Noi invi­tiamo lord Clarendon a leggere i giornali italianissimi di Napoli dal 7 settembre 1860, fino al giorno in cui cadrà dal capo a Vittorio Emmanuele la corona sulla cima del Campi­doglio: ei vi troverà particolari precisi ed interessanti per un futuro Congresso di sovrani. Quanto al detestabile sistema di governo che scuoteva tanto sensibilmente la suscettibilità ner­vosa di lord Clarendon, noi risponderemo che la legislazione napoletana è una delle più umane d’Europa, e che duran­te il suo regno Ferdinando II non ha mai segnata una sen­tenza di morte per causa politica. I luogotenenti del Piemonte, in contrario, hanno nelle Due Sicilie fatte fucila­re in due anni tante persone, che, quando si ristabilirà il governo regolare, sarà quasi impossibile di farne una esatta statistica.

Gli altri plenipotenziarii delle Potenze al Congresso di Parigi furono più miti riguardo ai piccoli sovrani della Penisola; in generale si contentarono d’esprimere il loro desiderio per lo stabilimento della pace, dichiarando che non avevano né potere né missione d’immischiarsi negli affari interni dei Governi rappresentati, o non rappresen­tati al Congresso. Il barone Hubner, con una franchezza tutta tedesca, aggiunse che egli non era né anche autoriz­zato ad esprimere voti. Ed il barone Manteuffel, dopo aver dichiarato che non aveva dal suo Governo alcuna istruzio­ne per trattare le gravi quistioni che preoccupavano qual­che membro del Congresso, diceva, che era in caso di domandare se avvisi della natura di quelli che erano stati propo­sti non fossero più in grado di suscitare nei paesi uno spirito d’opposizione e di movimento rivoluzionario, di quello che rispondere alle idee che si sarebbero volute realizzare con una intenzione certamente buona. Questo era il linguaggio della saggezza; poi soggiungeva con nobile energia: // gabinetto prussiano riconosce perfettamente la funesta influenza che eserci­ta la pressione sovversiva d’ogni ordine regolare, e i pericoli che sparge predicando il regicidio e la rivolta. La Prussia partecipe­rebbe volentieri all’esame delle misure che fossero giudicate conve­nienti per mettere un termine a questi intrighi. Dietro l’esem­pio del rappresentante della Prussia, sir Gladstone diceva più tardi al Parlamento inglese, parlando degli affari d’Italia: “La politica stabilita col protocollo del trattato di Parigi non è essa di tal natura da non rischiarare l’oriz­zonte politico, ma invece di offuscarlo?… E in una nota del 18 maggio 1856 il signor di Buoi si esprimeva così: “I distruttori non cesseranno d’adoperare le loro armi con­tro i governi legittimi d’Italia, finché vi saranno dei paesi che li appoggino e li proteggano, e degli uomini di stato che non temano di far appello alle passioni ed agli sforzi che hanno per iscopo lo sconvolgimento”.

Il Conte Cavour poco soddisfatto di queste osservazioni tanto saggie quanto giuste, fece allora notare con mala fede evidente, che l’occupazione delle Legazioni e del Ducato di Parma per parte delle truppe austriache distruggeva l’equili­brio politico in Italia e costituiva un vero pericolo per la Sardegna. Ma il signor Barone Hiibner, indovinando le intenzioni del plenipotenziario sardo, gli domandò con giusta ragione perché serbasse il silenzio sull’occupazione di Roma per parte delle truppe francesi, giacché le due occupazioni avevano avuto luogo alla medesima epoca e pel medesimo scopo; e ricordò ancora con una evidente astuzia “che non vi erano solamente gli Stati romani in Italia che fossero occupati da truppe straniere, che le comuni di Mentone e di Roccabruna facienti parte del principato di Monaco erano da otto anni occupate dalle truppe sarde, e che la sola differenza che esisteva fra le due occupazioni era che gli austriaci ed i francesi erano stati chiamati dal sovrano del paese, mentre le truppe sarde erano penetrate sul territorio del principe di Monaco contro i suoi desiderii, e che vi si mantenevano, malgrado i reclami del sovrano del paese medesimo.

Queste discussioni in seno del Congresso non avrebbe­ro avuto alcun inconveniente se fossero state segrete, come è necessario nelle grandi questioni che interessano la pace degli stati, e che trattano dei loro affari interni; ma si sa come il Conte Cavour se ne servì perfidamente alla Camera di Torino (sedute del 7 e del 10 maggio) e in tutti i suoi giornali per agitare l’Italia. Così il signor Conte Walewski potè rallegrarsi, dice il Protocollo, d’aver impegna­to i plenipotenziarii a scambiare le loro idee su tali questioni, pensando che questo cambio d’idee non sarebbe senza utilità per i progetti della sua politica in Italia. E la Camera dei Deputati di Torino potè votare con soddisfazione la pro­posta seguente: “// senato, convinto delle buone conseguenze che potrà produrre il trattato dì Parigi, sia per la civilizzazione, sia per il ristabilimento delle vere basi dell’ordine e della tran­quillità della Penisola, e riconoscendo la parte onorevole che hanno avuta per questi desiderati risultati la politica del Governo del Re, e la condotta dei plenipotenziarii del Congresso di Parigi, esprime un voto d’intiera soddisfa­zione”.

“Il Protocollo dell’otto aprile sarà la scintilla d’un irre­sistibile incendio”, diceva nel suo esaltamento di gioia il Risorgimento, giornale del Conte Cavour. Questo era parlar chiaro. – “Per la prima volta, diceva L’Opinione di Torino, un Congresso diplomatico ha riconosciuto i torti dei Governi e giustificati i fremiti delle popolazioni”. -“Camminiamo di nuovo davanti alla rivoluzione”, escla­mava applaudendo il Cittadino d’Asti, giornale ministeriale. – “L’Italia non deve più attendere dalla politica e dai Governi europei i soccorsi per sollevarsi”, aggiungeva il Tempo di Casale, altro giornale ministeriale. – “Se gli Italiani pensano di riconciliarsi, che lo facciano, altrimenti si rivoltino” gridava il Diritto di Torino, num. 98. – “Che si sollevino e sappiano non transigere col potere contro il quale si saranno rivoltati, non importa sotto qual forma si presenti” diceva l’Italia e il Popolo di Genova nel suo nume­ro 113. – “II Memorandum (le note verbali) del Conte Cavour, scriveva ancora il Cittadino d’Asti, ha dato un impulso gagliardo all’agitazione: a noi tocca metter in opera ogni mezzo per fare che questa agitazione si man­tenga viva finché giunga il giorno decisivo”.

E quando il Conte Cavour il giorno 6 maggio nel Parlamento di Torino espose la sua condotta al Congresso di Parigi, pronunziò queste parole degne di nota, che sono una intera rivelazione, e che secondo l’espressione pittoresca d’un giornale italiano, furono come una semenza di denti di drago: “Noi abbiamo presentata una Nota sulla situazione degli Stati del Papa che l’Inghilterra ha ben accolta, e che la Francia ha accettata. Ma la Francia deve usare di molta circospezione, perché il Papa non è sola­mente sovrano temporale d’uno stato di 3 milioni d’uomi­ni, ma è ancora capo religioso di trentatre milioni di Francesi”. E l’effetto di queste parole fu tale che il deputa­to Lorenzo Valerio concludeva il suo discorso così: “Le nostre parole, le parole dette dal signor presidente del Consiglio non resteranno certamente rinchiuse in questo recinto e neanche entro i confini segnati dal Ticino. Né le frontiere, né le baionette, né i commissarii di polizia che legano le altre provincie d’Italia separate da noi, potran­no impedire l’effetto di queste parole”.

E così allorquando la notte dal 25 al 26 luglio 1856 una banda d’insorgenti partiva da Sarzana per sollevare il duca­to di Modena, la Maga di Genova difendeva il 29 luglio que­sto attentato colle parole medesime del Conte Cavour: “II signor Cavour non ha detto in Parlamento nel suo Memorandum e nelle sue Note verbali, che se lo stato delle cose proseguiva così, il governo si vedrebbe costretto a stender la mano alla rivoluzione per salvar l’Italia ?…” E il giornale mazziniano Italia e Popolo del 30 luglio 1856 prendendo la difesa dei con­giurati di Sarzana scriveva: “Si ricorda che all’epoca della memorabile discussione parlamentare (dal 6 al 10 maggio) il Governo sardo per riaccendere il fuoco sopito nelle altre provincie d’Italia fece stampare i discorsi di Cavour e di Buffa e li sparse a migliaia nei Ducati, nelle Romagne, nella Lombardia, a Napoli ed in Sicilia. Ma questo non bastava: si incoraggiavano gli abitanti di questi stati diversi col mezzo di emissarii, e si sa che le parole: Viva Vittorio Emmanuele! erano scritte dai partigiani piemontesi sulle pareti e sulle porte delle case a Carrara. Speranze ancora più lusinghiere ed esplicite furono date ai regnicoli venuti espressamente a Torino.

Il Risorgimento del Conte Cavour pubblicava nelle sue colonne: “La Rivoluzione non si farà in Italia finché le popolazioni non saranno ben sicure del concorso del Piemonte. È dunque molto importante di tenerli nella persuasione che dietro i popoli sollevati si trova l’armata pie­montese”. E un poco più avanti dice: “Verrà il momento nel quale la rivoluzione si svilupperà in un qualche punto della Penisola, non importa sapere quale: questa sarà la prima scintilla d’un grande incendio. L’Austria vorrà intervenire, ed il Piemonte si presenterà alla sua volta anche col diritto d’intervenire per scemare la preponde­ranza austriaca, e non interverrà solo. Tale, secondo noi, è l’unica soluzione possibile della questione italiana”.

Ecco come il Conte Cavour di ritorno dal Congresso pacificatore, calmava gli spiriti ed ammansava i popoli, migliorava la situazione anormale dello Stato pontificio, assicurava il Governo temporale della Santa Sede, senza che vi fosse bisogno di soccorso straniero, e rimediava i disordini dell’anarchia di cui accusava essere il Potere tem­porale la causa permanente. Ecco come egli preparava la sicurezza, la tranquillità necessaria ad un governo al quale dimandava riforme.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/borbone/brigantaggio_piemontese.html#terzo

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