Alta Terra di Lavoro

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Gli intrighi, le menzogne ed il brigantaggio piemontese in Italia (VII)

Posted by on Feb 5, 2023

Gli intrighi, le menzogne ed il brigantaggio piemontese in Italia (VII)

CAPITOLO SETTIMO
La Chiesa schiava nello Stato in rivoluzione

“La Chiesa libera in libero stato”. – Così parlava tempo ; fa il Conte Cavour pei disegni ed i bisogni della sua politica. Sarebbe stato più esatto dire: la Chiesa schiava nello stato in rivoluzione. Diffatti da un secolo lo spirito rivolu­zionario non è sempre stato il nemico accanito della Chiesa? Dappertutto ove ha regnato, anche un sol giorno, non ha dichiarata la guerra, e una guerra implacabile al Cattolicismo?…

Non è sempre stato, e dappertutto, tiran­no, persecutore ed empio? E quando per impotenza o tat­tica non è stato né despota né oppressore, ha per questo cessato un sol giorno d’essere calunniatore?… Sta nello spirito rivoluzionario, come nella natura della sua missio­ne, l’odiare ed il tormentare la Chiesa. Tutta la sua storia da un secolo in qua non è che un secolo di persecuzioni, ora col sarcasmo e la calunnia, ora coi furori sanguinarii, o filosofici, sempre però odiosi: potrebbe essere diversa­mente?… Lo spirito rivoluzionario dei tempi moderni non è il genio del male partorito dall’orgoglio?… Non è sempre Voltaire che si beffa di Dio, ed il ’93 che proscrive il cattolicismo in nome della nazione, e manda i preti al patibolo in nome della libertà?… Non è ancora il libe­ralismo che calunnia ed insulta la Chiesa sotto la Ristaurazione, e nel 1850 aizza il popolaccio contro i Gesuiti ed abbatte la Croce, quest’Albero d’amore divino e di libertà? In fine non è ora come pel passato che si ante­pone il rozzo appetito alla Religione, e la ragione a Dio?…

Così si vede lo spirito rivoluzionario nelle sue opere! Cosa ha egli prodotto dopo Voltaire e Gian Jacopo? Cosa produce ai nostri giorni? Disordini e ruine, il dispotismo nello Stato, l’anarchia nella società, la licenza e l’empietà dappertutto, la libertà in nessun luogo. Quanto alle sue dottrine, queste non sono che i mostruosi errori de’ tempi antichi, vestiti con un’arte detestabile di nuove forme e parole cento volte già confutate e vinte dal buon senso e dalla scienza, cento volte già condannate co’ giudizii più severi della Chiesa.

Non è dunque senza ragione che l’augusto Pio IX ha potuto dire nella sua allocuzione del 9 giugno scorso: “Mentre noi percorriamo rapidamente e con dolore gli errori del nostro disgraziato secolo, lasciamo di ricordare, venerabili Fratelli, tant’altre falsità quasi innumerevoli, che voi conoscete perfettamente, e coll’aiuto delle quali i nemici di Dio e degli uomini si sforzano di turbare e distruggere la società sacra e la civile. Noi passiamo sotto silenzio le ingiurie, le calunnie, gli oltraggi gravi e molti-plicati coi quali non cessano di perseguitare i Ministri della Chiesa e questa Sede Apostolica. Non parliamo del­l’odiosa ipocrisia colla quale i capi ed i satelliti di questa ribellione e di questo disordine, sopra tutto in Italia, affrettano dire che vogliono che la Chiesa goda della sua libertà, mentre con un audace sacrilegio calpestano ogni giorno i diritti e le leggi della Chiesa, la spogliano de’ suoi beni, perseguitano prelati ed ecclesiastici nobilmente dediti al loro ministero, li imprigionano, scacciano violen-temente dai loro asili i seguaci degli ordini religiosi e le vergini consacrate a Dio, e non indietreggiano davanti ad alcuna impresa per ridurre la Chiesa ad una vergognosa servitù ed oppressione… Omettiamo di ricordare i tristi errori che compiono i seguaci di queste perverse dottrine, per non cagionare una crudele desolazione al nostro cuore, al vostro, ed a quello della gente dabbene. Non parliamo di quell’empia cospirazione, di quei maneggi colpevoli e fallaci coi quali vogliono rovesciare e distrug­gere la sovranità temporale della Santa Sede… Lo spirito si rifiuta con orrore al sol toccare i principali di questi errori pestilenziali, coi quali gli uomini dei nostri infelici tempi turbano tutte le cose divine ed umane… E chi non vede infatti che tanti empii dogmi, che tante macchinazio­ni e follie depravate corrompono ogni giorno più misera­mente il popolo Cristiano, lo spingono alla rovina, attac­cano la Chiesa Cattolica, la sua dottrina salutare, i suoi diritti e le sue leggi venerabili, i suoi sacri ministri, propa­gano i vizii ed i delitti, e rovesciano la società stessa…?.

Perciò noi vi esortiamo e vi scongiuriamo, voi che siete il sale della terra, i guardiani ed i pastori del gregge del Signore… di allontanare con sicura e con estrema vigilan­za i fedeli che sono affidati alle vostre cure da questi cibi avvelenati, di combattere e di confutare la perversità mostruosa di queste opinioni, tanto colla parola che cogli scritti… Non cessate mai per quanto dipende da voi d’al­lontanare dai fedeli il contagio di questo flagello, cioè di togliere dalle loro mani e dai loro occhi i libri ed i giornali perni­ciosi, d’istruire i fedeli dei precetti della nostra santa Religione, di esortarli ed avvertirli a fuggire queste dottri­ne d’iniquità come Sfugge l’incontro d’un serpente… Vegliate con estrema diligenza affinché nelle lettere e negli studii elevati non penetri cosa che sia contraria alla Fede, alla Religione ed ai buoni costumi. Agite con ener­gia virile, e in questa grande perturbazione di tempi non lasciate abbattere il vostro coraggio… e non cessate di opporvi agli sforzi di tutti i nemici della Cattolica Religione e di questa Sede Apostolica…”.

E i Vescovi nel loro ammirabile indirizzo hanno potuto rispondere al Santo Padre: “Noi non possiamo a meno di volgere i nostri sguardi a sì tristi spettacoli. Da ogni parte infatti si presentano all’animo nostro i delitti spaventevoli che hanno devastato miseramente questa bella terra d’Italia, di cui Voi, beatissimo Padre, siete l’onore e l’appoggio, e che si sforzano di rovesciare la vostra Sovranità e quella di que­sta Santa Sede dalla quale è scaturito come da sorgente ori­ginaria quanto v’è di bello nella società civile. Né i diritti permanenti dei secoli, né il lungo e pacifico possesso del potere, né i trattati sanzionati e garantiti dall’autorità dell’Europa intera hanno potuto impedire che tutto fosse rovesciato col disprezzo delle leggi sulle quali fin qui s’ap­poggiava l’esistenza e la durata degli Stati. Noi Vi vediamo, Santissimo Padre, pel delitto di questi usurpatori, che non prendono la libertà che come velo alla loro malizia, spoglia­to delle vostre provincie… che la Vostra voce simile alla trom­ba sacerdotale ha difese con invincibile coraggio contro ini­que violenze… Tutto ciò che Voi soffrite lo soffriamo noi pure, e supplichiamo Dio che ponga un termine a sì ingiuste perturbazioni.

Ma non ci stupiamo che i diritti della Santa Sede siano così accanitamente attaccati. Sono già parecchi anni che la follìa di alcuni uomini è arrivata al punto non solo di sfor­zarsi di respingere le dottrine tutte della Chiesa, e di met­terle in dubbio, ma di proporsi di rovesciare da cima a fondo le verità cristiane. Di qui gli empii tentativi d’una vana scienza e d’una falsa erudizione contro le nostre sante dottrine e la loro divina ispirazione: di qui la perfi­da cura di togliere la gioventù alla tutela materna della Chiesa per imbeverla degli errori del secolo, e spesso anche sottraendola ad ogni educazione religiosa: – di qui le nuove e perniciose teorie sull’ordine sociale politico e religioso che si spargono impunemente da per tutto; di qui l’abitudine troppo famigliare in parecchi uomini di queste contrade di disprezzare l’autorità della Chiesa, d’u­surpare i suoi diritti, di disconoscere i suoi precetti, d’in-sultare i suoi ministri, di deridere il suo culto, di avere in onore e di esaltare tutti gli uomini (soprattutto ecclesiasti­ci), che si scostano dalla via della religione e camminano in quella della perdizione. I venerabili Prelati, ed i sacer­doti del Signore sono spogliati del loro potere, costretti ad esulare, e gettati in carcere, sono strascinati avanti ai tri­bunali civili con affronto per essere stati fedeli al loro santo ministero. Le spose di Cristo gemono, scacciate dai loro asili, consunte di tristezza, vicine a morire di miseria; i religiosi sono forzati a rientrare, loro malgrado, nel mondo; mani violente si stendono sul sacro patrimonio della Chiesa; con libri detestabili, con giornali, con imma­gini, viene dichiarata una guerra terribile e continua ai costumi, alla verità ed al pudore.

Quelli che si abbandonano a tali aggressioni sanno benissimo che nella Santa Sede, come in una fortezza ine­spugnabile, risiedono la forza e la virtù d’ogni giustizia e d’ogni verità, e che gli sforzi del nemico si rompono con­tro questa cittadella; che la Santa Sede è una sentinella per mezzo della quale gli occhi chiaroveggenti del guar­diano supremo scorgono da lontano le imboscate prepara­te e le annunciano ai suoi compagni. Di qui l’odio impla­cabile, l’invidia incurabile, lo zelo appassionato degli uomini perversi che vorrebbero deprimere la Chiesa romana e la Santa Sede apostolica, e distruggerla se que­sto fosse possibile…”.

Vediamo ora come il conte Cavour e la rivoluzione hanno fatto nelle provincie italiane sottomesse al loro giogo la Chiesa libera nello Stato libero. Noi ci limiteremo qui al semplice assunto di storico; senza discorso e senza frasi, citeremo i fatti, le date, le parole; diremo ciò che la politica rivoluzionaria del Piemonte ha fatto da 14 anni in qua contro la Chiesa, contro Roma, contro la giustizia ed il diritto, contro tutti i sentimenti di cui si onora un cuore cristiano, e se poi i fatti che allegheremo saranno capaci di provare all’evidenza la trama nascosta d’un profondo ed iniquo disegno, allora saremo in grado di concludere col Messaggio del Principe Luigi Napoleone nel 1849, che tutti gli atti d’aggressione commessi contro Pio IX non sono il movimento di un popolo, ma sibbene l’opera d’una congiura.

E diciamo da principio che l’opera della libertà piemon­tese fu il cominciamento della schiavitù e della persecuzio­ne religiosa in Piemonte, come se fosse stato necessario di preludiare con vessazioni d’ogni sorta, e colla spogliazione del clero all’invasione ed all’usurpazione delle provincie pontifìcie. Frattanto allorquando Carlo Alberto diede la sua costituzione, l’Episcopato del regno sardo accolse con sod­disfazione la concessione delle riforme e lo Statuto costitu­zionale. Questo è anche affermato dal signor Chiala, uno dei più grandi ammiratori del conte Cavour. Mazzini mede­simo scriveva nel 1859: “II Clero non è niente nemico delle istituzioni liberali… Non attaccate il Clero, promettetegli la libertà e lo vedrete unirsi a voi”. Ecco come si sono ricom­pensate queste simpatie del Clero per la monarchia costitu­zionale.

Nell’ottobre del 1847, quando la libertà della stampa era proclamata in Piemonte, gli scritti dei Vescovi veniva­no sottomessi ad una censura preventiva.

Era appena passato un anno ed usciva una legge nell’ottobre 1848 per sorvegliare le scuole e tutti gli istituti della gioventù, e consiglieri laici avevano attribuzioni sulla sorve­glianza dell’insegnamento religioso, sui catechismi, e sulla scelta dei direttori spirituali. In conseguenza di questa legge il 23 ottobre il signor Buoncompagni ministro della pubbli­ca istruzione, e poi governatore dell’Italia centrale, nomi­nava dei direttori di spirito all’insaputa dei Vescovi, ed ai loro lagni rispondeva con queste insolenti parole: “Se ho contro di me l’Episcopato, avrò per me altre approvazioni”.

Nel dicembre del 1848 si proibì che la tesi per l’esame pubblico nell’Università di Torino fosse per l’avvenire sog­getta ai Vescovi.

Si andava così solleciti su questa via che nel maggio del 1851 si tentava di fondare una teologia di Stato, preten­dendo di sottomettere le scuole diocesane di teologia all’i­spezione d’un delegato del Governo, ed obbligare i pro­fessori di teologia nei seminari ad uniformarsi al pro­gramma dell’Università di Torino. Ora da questa Università di Torino, il cui insegnamento si voleva rende­re obbligatorio ai vescovi, un professore di diritto canoni­co sosteneva, fra gli altri errori, l’onnipotenza dello Stato sulla Chiesa, l’impossibilità di mostrare che il matrimonio è un sacramento, e la mancanza di diritto nella Chiesa per stabilire impedimenti dirimenti al matrimonio. Il medesi­mo professore accusava la Chiesa cattolica, e particolar­mente la Santa Sede, d’esser la causa dello scisma d’Oriente, poi come per preludiare sullo spogliamento della sovranità pontificia, tentava provare l’incompatibi­lità del poter temporale collo spirituale. Il Santo Padre, guardiano dei diritti e della fede della Chiesa, dovette condannare questo professore con un decreto del 22 ago­sto 1851; ma questa condanna ed i reclami dei vescovi non ebbero per conseguenza che di far passare il professore colpevole dalla cattedra di diritto canonico alla cattedra di diritto romano.

E siccome le dottrine proibite seguitavano ad essere insegnate all’Università, i vescovi ne avvertirono il loro clero; ma il ministero rispose alle loro rimostranze con una circolare del mese d’ottobre dell’anno stesso, nella quale si diceva che nessuno poteva esser messo al possesso dei benefizii che dopo aver frequentata l’Università.

La rivoluzione piemontese preparava così gli spiriti ad imprese più gravi ed a leggi più ardite ancora. Il 20 aprile 1850 una legge, la famosa legge Siccardi, aboliva tutte le immunità ecclesiastiche e riduceva le feste legali. A questa notizia fu grande la gioia nella città e nei fogli rivoluzionarii. Si gridò Viva Siccardi! Abbasso i preti! Il 12 giugno 1862 com­parve il progetto di legge sul matrimonio civile presentato dal signor Buoncompagni. La Camera dei deputati votò que­sta legge il 5 luglio seguente. Il 22 maggio 1852 si decreta­va la soppressione degli Ordini religiosi, l’incameramento dei loro beni, e nel medesimo tempo la violazione d’ogni concordato, tre cose che erano proibite dalla legge del 25 agosto 1848. Lassemblea costituente aveva già preceduto in Francia nella medesima maniera: tanto è vero che la libertà degli empii e dei rivoluzionarii non sarà mai la libertà della coscienza e della Chiesa. Ma quello che v’ha qui di dispre­gevole per l’onore della politica piemontese si è che si face­vano simili atti contro la Chiesa senza dichiarare una guerra aperta alla religione, senza romperla colla Santa Sede, anzi mentre duravano le trattative con Roma1.

Ecco come i vescovi della Savoia e del Piemonte s’espri­mevano a questo riguardo nel loro indirizzo al re Vittorio Emmanuele: “Rompere i concordati fatti colla Santa Sede, dicevano essi, non tenere alcun conto dei trattati più solen­ni segnati con lei da predecessori augusti di Sua Maestà, e particolarmente dal suo piissimo padre di gloriosa memoria nel 1841 (articolo 8 del Concordato del 27 marzo), turbare la coscienza ed affliggere in tal modo tutti quelli che vogliono vivere e morire nel grembo della santa Chiesa cattolica!… E qual momento scelgono essi per questa violazione, per que­sto dispregio formale della Chiesa, per questa rottura for­male colla Santa Sede, per questo principio di scisma? Quando il Padre della Cristianità, il Papa Pio IX è esule da Roma, e beve in terra straniera il calice dell’amarezza!… Forse, aggiungono con coraggio i vescovi della Savoia, se si trattasse di trattati conclusi con una grande Potenza si agi­rebbe con più riserva… Le alte Potenze hanno mezzi di farsi rispettare, ma Pio IX non ha armata. Pio IX è un esule”.

Il 24 marzo 1853 una legge toglieva ai vescovi e limita­va ad un decreto reale il diritto di fissare il numero dei giovani chierici esenti dalla coscrizione. Un altro decreto del 23 maggio 1853 non meno dannoso in seguito, obbli­gava alla coscrizione i fratelli della Dottrina cristiana, di questi premurosi istitutori dei figli del popolo. – Nove anni più tardi, nell’agosto 1862, il Governo piemontese chiudeva le scuole dei Fratelli della Dottrina cristiana a Parma e Piacenza e li rimandava col pretesto che davano un’istruzione dannosa alla gioventù. – II 10 marzo 1854 i beni del gran seminario di Torino venivano sequestrati, ed invano l’arcivescovo ha dal suo esiglio reclamato più volte contro questa ributtante iniquità. Con un decreto reale del 26 settembre 1860, firmato dal Ministro dei culti e della giustizia Cassinis, si prese possesso a vantaggio dello Stato di tutti i benefìcii vacanti senza eccezione o distinzione.

Ma passiamo rapidamente su questi fatti deplorabili, e su altri ancora, e tocchiamo delle violenze esercitate con­tro i vescovi e gli ecclesiastici del nuovo regno d’Italia.

Il 18 aprile 1850 monsignor Fransoni arcivescovo di Torino indirizzava al suo Clero una circolare per tracciar­gli, secondo le leggi della Chiesa, la linea di condotta che doveva tenere. Questa circolare essendo dispiaciuta all’au­torità, il prelato fu condotto avanti ai tribunali e condan­nato a 500 franchi di multa. Qualche giorno dopo con questa sentenza alla mano, un capitano ed un brigadiere dei carabinieri si presentarono all’arcivescovo ed intimaro­no a monsignor Fransoni l’ordine di seguirlo alla cittadel­la di Torino. E subito questo venerabile arcivescovo, col suo breviario sotto il braccio, venne condotto in prigione dalla forza pubblica come se fosse uno dei più grandi mal­fattori2.

Il 9 agosto 1850 monsignor Fransoni fu di nuovo tolto di carcere dai carabinieri e gettato in quella prigione di Fenestrelle ove viveva ancora immortale la memoria del Cardinale Pacca, e d’altri confessori della fede di cui la Chiesa si glorifica. Il virtuoso arcivescovo è messo alle segrete; viene proibito al suo vicario generale di scrivere, ed egli, l’arcivescovo stesso, non può parlare col suo vica­rio, né col suo domestico che alla presenza d’un carabi­niere che lo guarda a vista. Un elemosiniere delle carce­ri per aver raccomandato ai fedeli di pregare pel virtuo­so prelato, fu tosto destituito senza nessun avviso pre­ventivo. E finalmente il 27 settembre seguente monsi­gnor Fransoni fu condannato all’esigilo, e tutti i beni dell’arcivescovado al sequestro, e non fu neanche permesso ai cattolici d’inviare all’illustre esule una testimonianza della loro simpatia e del loro dolore. Il 18 aprile 1851 alcuni agenti di Polizia a Genova fecero una perquisizio­ne a bordo del battello a vapore il Castore, e vi seque­strarono un calice ed una mitra che la pietà dei fedeli spediva all’esule arcivescovo.

Monsignor Varesini, arcivescovo di Sassari, colpevole come l’arcivescovo di Torino, subì eguai trattamento. “Gli si imputò a delitto, dice S. E. il Cardinal Antonelli, in una nota del 26 giugno 1850 all’incaricato d’affari di S. M. Sarda, d’aver tracciato al suo Clero la condotta che doveva seguire per la sicurezza delle coscienze, relativamente alle leggi anticanoniche, e giudiziariamente gli si intimò di comparire avanti al tribunale di Sassari. Poi si staccò con­tro di lui un ordine d’arreso che doveva eseguirsi dalla forza pubblica”.

I vescovi di Saluzzo e di Cuneo avendo scritto nel medesimo senso degli arcivescovi di Torino e di Sassari, ebbero dal governo sardo l’intimazione di ritrattarsi, per­ché altrimenti i tribunali andrebbero al possesso dei beni delle loro mense vescovili3.

Nel 1851 monsignor Marondini arcivescovo di Cagliari in Sardegna, fu arrestato, spogliato de’ suoi beni e con­dannato all’esiglio, ov’è tuttora.

In questo tempo le persecuzioni dei rivoluzionarii con­tro il Clero raddoppiavano in mille modi. Le circolari dei ministri e degli intendenti piemontesi ponevano il Clero sotto la sorveglianza della polizia, e non si stava dall’aiz-zargli contro l’odio popolare, facendo credere ch’esso fosse la causa dell’incarimento dei grani, e veniva racco­mandato caldamente ai sindaci d’invigilare sopra di lui4. Il Conte Cavour stesso portò alla tribuna delle Camere odiose denuncie contro il Clero. In tal modo s’arrestò gran numero di preti che poi furono lasciati in libertà dopo parecchi mesi di carcere. L’abbate Gagliardi, quare-simalista a Mondovì, fu tenuto prigione due mesi, e poi dichiarato innocente il 17 marzo 1850. Il predicatore Luigi Piola fu arrestato il 13 settembre e poi messo in libertà dopo quaranta giorni d’ingiusta detenzione. Il prete amministratore della parrocchia di Malanghero fu tenuto in arresto dal mese di maggio fino al mese di set­tembre, e poi fu dichiarato innocente. Poco dopo i 15 curati della vallata di Aosta furono accusati d’aver fomen­tato un ammutinamento in quelle parti; più tardi il pro­cesso dimostrò invece che essi non erano intervenuti che per ammansare il popolo.

Si può leggere nell’Armonia del 20 dicembre 1859 la lunghissima lista di tutti gli ecclesiastici ingiustamente esigliati ed imprigionati per ordine d’un potere empio e rivoluzionario che in quel tempo poi permetteva audacie senza limite, ed insulti senza nome contro il Clero, contro il Papa, e contro la religione, contro quella religione medesima che lo statuto chiama la religione dello Stato.

Fischi sacrileghi interrompevano a Torino i predicatori nelle chiese; parodie della Via Crucis e dello Stabat Mater mettevano in derisione i nostri più augusti misteri; si stampavano le opere complete dei più cattivi autori con immonde stampe; si raffigurava il Papa al ballo ed al tea­tro in compagnia di donne di cattiva vita; si metteva una testa d’asino sotto la tiara e mille altre indegnità. Ed era in quel tempo in cui i giornali rivoluzionarii attaccavano in tal guisa colle più ignobili parole e colle più oscene caricature la morale e la religione; era in quel tempo che si condannava un giornale cattolico la Campana, e che si sospendevano i giornali L’Armonìa, il Corriere delle Alpi, il Cattolico ài Genova ecc. Non è dunque senza ragione che il signor Sauzet nel suo celebre scritto sul matrimonio pub­blicato nel 1853, indirizzava al Piemonte queste severe parole: “Io non so quale spirito fatale domini in Piemonte. L’incisione e la stampa sembrano fare a gara a corrompere il popolo”.

Inutilmente il Santo Padre in una lettera del 19 settem­bre 1852 indicava questi scandalosi disordini; il Governo continuò per la sua via, e si guardò bene dal dare al Papa la più piccola soddisfazione; la guerra irreligiosa e l’osti­lità con Roma convenivano troppo alla sua ambiziosa poli­tica. E come se non bastassero gli oltraggi della piazza e del teatro, s’intese Brofferio, più tardi candidato del I governo, approvare l’ammutinamento del popolaccio di Nizza contro il vescovo, e gridare un giorno alla Camera lei deputati: “Proviamo a questi vescovi orgogliosi che anche il popolo ha i suoi fulmini ed i suoi anatemi!”.

Nel mese di ottobre 1852, i Certosini di Colegno ave­vano ceduto provvisoriamente la parte disponibile della [loro casa; ma nel 10 agosto 1854 il signor Rattazzi, allora ministro, li mise improvvisamente alla porta del convento, |e senza la carità d’un buon cristiano, sarebbero rimasti sul selciato della strada. Si espulsero poi successivamente i religiosi della Consolata e di san Domenico, i preti della missione di san Vincenzo de Paoli stabiliti a Casale, i reli­giosi Oblati di Pinerolo, i padri Serviti d’Alessandria, che tanto si prestarono a Genova al tempo del choléra, ed ove quattro d’essi rimasero vittime.

Né anco le donne furono risparmiate. In principio del 1853 un antico e pacifico istituto di beneficenza veniva sciolto con decreto ministeriale: era l’associazione delle Suore di carità dette Dame della Compassione, che s’occupa­vano nelle montagne della Savoia ad istruire le fìglie dei poveri ed a curare gli infermi. Di nottetempo vennero parimente cacciate il 18 agosto 1854, col mezzo dei cara­binieri, le religiose di Santa Croce. “Io ringrazio Dio, scri­veva l’abbadessa, che nessuna delle mie fìglie è morta nella strada”. Già qualche anno prima, il 25 agosto 1848, erano state proscritte da tutto il regno sardo le Dame del Sacro Cuore: tutte le loro case furono disciolte, le allieve disperse, ed i loro beni mobili annessi al pubblico tesoro.

Finalmente nel maggio del 1855 si legalizzarono tutte queste iniquità e questi arbitrii, o meglio si sanzionarono con una legge incostituzionale e spogliatrice, sulla sop­pressione delle comunità e delle corporazioni religiose, e sull’incameramento dei loro beni; il progetto fu presenta­to alla Camera dei deputati il 25 novembre 1854. Così la politica piemontese poneva il suggello ad un lungo segui­to d’imprese ingiuste e violenti, negando alla Chiesa il diritto di possedere, diritto che i governi pagani medesi­mi hanno riconosciuto. Trentacinque ordini religiosi cad­dero sotto la proscrizione; 7850 religiosi furono espulsi. Né gli ordini nobili, né gli umili, trovarono grazia presso l’odio dei rivoluzionarii. Il Piemonte possedeva una nobile istituzione, l’accademia di Superga, antica casa di studio ecclesiastico pel regno, fondata dall’intelligente liberalità dei re. La custodia delle tombe della casa reale di Savoia era affidata ai religiosi d’Altacomba (Hautecombe); era un posto sacro, ma neanche questo fu rispettato.

In tal guisa la gioia degli anarchisti era grande, l’Avvenire di Nizza del 10 febbraio 1855 poteva esprimersi in questi spaventevoli termini: “II Piemonte dopo che fa la guerra alla roba nera comincia a guadagnare il mio cuore. Lo schiacciamento dell’infame fatto da Voltaire fu molto incompleto. Occorre terminare la bisogna. E deve essere di gran gioia per noi il vedere teste coronate incaricarsi di questa faccenda. In questo momento il Piemonte da un esempio eccellente”. Mazzini aveva dunque ragione di scrivere nel 1846: “II Piemonte entrerà nella via per la prospettiva della corona d’Italia?”. Ma proseguiamo rapi­damente questi odiosi dettagli della persecuzione religio­sa dal 1859 e dalle annessioni fin dopo la conquista delle Due Sicilie. I fatti sono tanti che noi non possiamo che prenderli in sorte senza ordine e senza scelta. Però non proveranno meno l’ipocrisia di quelle famose parole: Chiesa libera in libero Stato.

Nel mese di marzo scorso monsignor Giuseppe Tibaldi, vicario di S. E. il cardinal arcivescovo di Napoli, fu condannato a tre mesi di prigionia e 300 ducati di multa per aver insinuato, dice l’accusa, alle allieve dell’Educandato dei Miracoli, celebre convento e collegio di Napoli, di non cantare il Te Deum il 14 marzo, in onore della nascita del re spogliatore. Con un’altra sentenza questo prelato fu condannato a 13 mesi d’esiglio e 1500 franchi di multa, per aver consigliato, dicesi, alle religiose di questo convento di non prestare giuramento al governo di Vittorio Emmanuele.

Nella stessa epoca, pretendendo i giornali della rivolu­zione che 700 o 728 preti avessero segnato a Lecce, nelle Due Sicilie, un indirizzo al Papa per esortarlo a rinunciare al suo poter temporale, l’arcivescovo d’Otranto e tredici preti della sua cattedrale inviarono al Santo Padre una energica protesta contro questo fatto. Denunziati come segnatarii di questo indirizzo, furono tradotti avanti ai tri­bunali e condannati ad una forte multa.

Il Giovedì Santo, appena cominciato l’ufficio divino nella cattedrale di Fano presso Ancona, il vescovo fu circondato da parecchi distaccamenti di carabinieri e di guardie nazio­nali, mentre altri distaccamenti circondavano quel santo luogo. Poco dopo giunse il regio procuratore di Pesaro accompagnato da molti impiegati ed uffiziali di giustizia. Terminato l’uffizio, il capitano dei carabinieri arrestò il vesco­vo nella sacrestia e lo condusse al suo palazzo, ove l’attende­va il procuratore fiscale che gli comunicava l’ordine d’arre­sto e di partire subito per Torino: questo ordine fu imme­diatamente eseguito sotto la scorta dei carabinieri. Quale fu il delitto di questo vescovo condotto in prigione come un ladro?… Si saprà certamente a Torino, ove egli attende anco­ra la sua condanna.

Il 5 aprile scorso si cominciarono a fare delle visite domiciliari presso tutti i curati di Bologna; s’è perquisito l’arcivescovado, si sono fatte visite domiciliari ad arcipreti e curati di campagna, e si finì per metter prigione monsi-gnor Canzi vicario capitolare di Bologna, presso il quale furono trovate delle istruzioni stampate due anni prima e spedite dalla sacra Penitenzìerìa per determinare le facoltà concesse ai confessori per assolvere quelli che sono com­presi nella scomunica maggiore scagliata dal Santo Padre contro gli spogliatori ed i violatori dei dominii della Chiesa. Ora in questa carta si lesse il motto latino deserere: i nostri sapienti italianissimi lo tradussero per disertare. In conseguenza monsignor Canzi fu condannato all’arresto per essere accusato d’aver eccitato i soldati a disertare lalle loro bandiere. Oh stupidità umana! Per arrestare un vescovo senza difesa, si bloccò letteralmente il palazzo vescovile, si perquisirono le parrocchie e le case dei curati, Li cambiò Bologna in un vero campo di armata. Il 26 giu-10 seguente monsignor Canzi fu condannato a tre anni li carcere e 2000 franchi di multa. Si condannò nel medesimo tempo il curato di s. Procolo di Bologna, Don itonio Mazzoni, ad un anno di prigione e 1000 franchi li multa. Frattanto monsignor Canzi fu posto in libertà, ìa siccome non s’era costituito prigioniero, il giudizio ìon si poteva dire terminato: diffatti il 5 passato agosto, senza ch’egli avesse avuto nessun ordine preventivo di scarsi alle carceri, fu arrestato nel suo palazzo dai carabinieri, e condotto prigione, senza che si avesse alcun Sguardo al suo carattere: non si sarebbe fatto di più con in famoso malfattore5.

Il 25 marzo di quest’anno, dice il Pungolo di Napoli, giornale semi-ufficiale, il curato di Portici avendo rifiutato li cantare il Te Deum in onore della nascita del re scomunicato, il tribunale di questa città lo condannò a quattro lesi di prigionia e 100 franchi di multa. La sentenza è stata data da Don Pietro Alamari Nicoletti, ed il curato di Portici si chiama Don Gennaro Formicola.

Monsignor Luigi Velta vescovo di Nardo, nella terra l’Otranto, è stato espulso dalla sua diocesi dai soldati piemontesi il 21 aprile scorso. Egli uscì dalla sua città vescovile accompagnato dal prefetto e dal capo della polizia, e F scortato da un picchetto di carabinieri. Questo prelato era I stato denunciato come colpevole di due gravissimi delitti: i 1° d’aver firmato un Indirizzo in favore del poter temporale; 2° d’aver permesso a 21 seminaristi di portare a Roma il prodotto d’una colletta a vantaggio del Danaro di san Pietro. Questo vescovo era anche accusato d’un altro delitto non meno abbominevole: il Sabbato Santo s’era rifiutato di cantare le preghiere pel re scomunicato, come lo provano due processi verbali del 13 e 20 aprile 1862 del comitato degli operai di Nardo. Questi processi verba­li sono stati pubblicati nel Pungolo di Napoli, e sono segnati dal signor Bonaventura Pignatelli vicepresidente, Gregorio Nocara segretario, e Nicola Inguisci decano. Il giornale non dice se i denunciatori hanno ricevuta la croce dei santi Maurizio e Lazzaro, ma certo questa gente merita bene d’essere compensata.

Nei primi mesi dell’anno 1862, a Mirabella, provincia d’Avellino, il superiore di quel convento di francescani e molti altri monaci sono stati arrestati e condotti, colla catena al collo, in carcere, scortati dai carabinieri: il loro delitto non si conosce.

Il 27 aprile scorso, per ordine giunto da Torino, ed eseguito dal signor Enidrie, prefetto di Foggia, un distac­camento di 300 piemontesi si diresse, verso le quattro pomeridiane, ad Andria, ove mise in istato d’assedio il castello e la famiglia Frascolla. Le porte erano aperte, e gli ufficiali si precipitarono negli appartamenti per cer­carvi Monsignor Frascolla. Ma il prelato con un’amenità che lo caratterizza, si presentò agli sgherri del Piemonte e domandò loro quale poteva essere il motivo di quel­l’invasione   importuna   e   scandalosa.   “Monsignore,   gli rispose un ufficiale, voi siete arrestato e dovete subito venir prigioniero a Foggia”. – Passando per Cerignola ed arrivando a Foggia, Monsignore fu fatto l’oggetto delle più commoventi prove di simpatia per parte del popolo. Dopo breve interrogatorio, fu rinchiuso nel suo palazzo vescovile,mentre la polizia ne guardava vigorosamente tutte le uscite. È l’Osservatore Napoletano dello scorso mese di maggio che ci fornisce tutti questi dettagli e ce ne garantisce l’autenticità. Giudicato dal tribunale di Trani il 5 giugno, Monsignor Frascolla fu riposto in libertà, ma alla fine del mese di luglio egli era ancora nelle prigio­ni di Lucera.

Nel mese di novembre 1860, il Marchese Pepoli mini­stro, non sapendo più come fare a riempire il vuoto che si trovava nelle pubbliche casse, ordinò con un decreto l’a­bolizione dell’Ordine di Malta, e confidò ad una commis­sione secolare la liquidazione ed amministrazione dei numerosi beni di quest’Ordine. Nel medesimo tempo questo ministro confiscò con altro decreto i beni che i gesuiti avevano nel territorio della Città di Castello. E poiché parliamo dei Gesuiti diremo qui come furono trat­tati negli stati annessi e conquistati. Ma lasciamo la parola al R. P. Beckx superiore generale dell’illustre Compagnia. È un’energica protesta diretta il 24 ottobre 1860 al Governo sardo.

“Dal principio della guerra d’Italia fino ad oggigiorno, dice il R. P. generale, la Compagnia ha perduti tre collegi e case nella Lombardia, sei nel ducato di Modena, dieci­nove nel regno di Napoli, undici nello Stato Pontifìcio, quindici nella Sicilia. Ovunque la Compagnia è stata lette­ralmente spogliata di tutti i suoi beni mobili ed immobili. I suoi membri in numero di 1500 circa cacciati dagli stabi­limenti e dalle città sono stati condotti di paese in paese dalla pubblica forza come malfattori, gettati nelle pubbli­che carceri, maltrattati ed oltraggiati in modo atroce; si è fin loro proibito di cercare un asilo presso qualche pia famiglia, ed in molti luoghi non s’ebbe alcun riguardo né all’età avanzata, né alla malattia, né alla debolezza d’alcuni individui. Tutti questi atti furono compiuti, senza che si potessero accusare quelli che ne furono le vittime, d’al-cun’azione colpevole in faccia alla legge, senz’alcuna forma giudiziaria; infine si è proceduto nel modo più dispotico e selvaggio.

Se questi fatti si fossero compiuti durante un ammuti­namento popolare, da una plebaglia cieca e furiosa, noi forse dovremmo sopportarceli in silenzio; ma siccome si sono voluti legittimare questi atti colla legge sarda, sicco­me i Governi provvisori stabiliti a Modena e nello Stato Pontificio, ed il Dittatore medesimo, si sono appoggiati all’autorità del Governo sardo; siccome infine per dar forza a questi iniqui decreti, e legittimarne l’esecuzione, s’è invocato e s’invoca ancora il nome di Vostra Maestà, non m’è più permesso di restare semplice spettatore di tanta iniquità ed ingiustizia, e nella mia qualità di capo supremo dell’Ordine, io sono rigorosamente obbligato di domandar giustizia e soddisfazione, di protestare dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, onde la rassegnazione, la dol­cezza, la pazienza religiosa non sembri poi una debolezza che potrebbe interpretarsi o come un atto colpevole, o come un abbandono dei nostri diritti.

Io protesto dunque solennemente, e nei modi che credo migliori, contro la soppressione delle nostre case e collegi, contro la proscrizione, l’esiglio, la prigionia, la violenza e gli oltraggi che si sono fatti soffrire ai miei fra­telli in religione… Io protesto in nome del diritto della proprietà calpestato dalla forza brutale. Io protesto in nome dei diritti dell’umanità sì vilmente oltraggiati in tanti vecchi, infermi, deboli, cacciati dal loro pacifico asilo, privati di ogni assistenza, messi su una pubblica via senza alcun mezzo per poter vivere… Io dirigo questa protesta alla coscienza di Vostra Maestà. Io la depongo sulla tomba di Carlo Emmanuele IV, illustre predecessore della Maestà J Vostra, che, quarantacinque anni or sono, discese volontariamente dal trono per venire a morire in mezzo di noi, vestito dell’abito, legato coi voti della Compagnia di Gesù, e professando nel nostro noviziato di Roma quel genere di I vita che Vostra Maestà biasima e perseguita col suo odio calunnioso ed accanito…”.

Quando Vittorio Emmanuele andò a visitare la sua buona città di Napoli, nello scorso mese di maggio, si cacciarono alla vigilia dall’ospedale degli Incurabili tutti i preti per aver rifiutato il giuramento al re spogliatore e scomunicato: fu ci pare il 28 aprile. Inutilmente essi cer­carono la grazia di continuare il loro santo uffizio sino all’arrivo di chi doveva rimpiazzarli: due infelici dovette­ro morire senza che un prete li assistesse in quegli estre­mi momenti. L’indomani Monsignor Caputo, questo ve­scovo d’Ariano che s’è fatto cacciare dalla sua diocesi dal popolo per la sua cattiva riputazione, mandò all’ospeda­le dei preti unitarii, vale a dire degli scomunicati ed interdetti.

Fu verso il mese di maggio del 1861 che il re di Sardegna s’arrogò il potere di nominare e togliere i vesco­vi nel regno delle Due Sicilie, come si toglie una guardia campestre, un commesso scritturale, ed un domestico di piazza. Mai un potere protestante o scismatico, od anche infedele osò commettere una simile usurpazione, una empietà sì manifesta. Bisogna rimontare fino ai cattivi tempi del medio evo per trovare un esempio di simile tirannia, una così odiosa pretesa, sotto il Governo di qual­che imperatore di Germania. E questa tirannia si chiama a Torino libertà della Chiesa! Trista libertà che ci ricon­duce agli infelici tempi d’Enrico Vili re d’Inghilterra e della regina Elisabetta! Enrico Vili imprigionava, o faceva decapitare i vescovi cattolici o troppo devoti al Papa; ma almeno per pudore loro non parlava di libertà.

Il 17 maggio 1861, monsignor Caccia, vicario capitola­re di Milano, scriveva alla Giunta municipale di quella città per fare le sue scuse se non poteva, per dovere di coscienza, cantare il Te Deum nella solennità del 2 giugno, volgarmente chiamata la festa dello Statuto e dell’unità italiana. Da parte loro i canonici ordinarii del Capitolo della metropolitana informarono parimenti il Municipio che loro era stato formalmente proibito dall’arcivescovo di concorrere a simile festa. Subito gli italianissimi organiz­zano una dimostrazione fatta dal popolaccio contro mon­signor Caccia, che deve abbandonare la sua chiesa metro­politana accompagnato dalle guardie di pubblica sicurez­za. La sera si fa una nuova dimostrazione sotto le finestre del palazzo arcivescovile e se ne rompono gli stemmi gentilizii. La guardia nazionale impedì che il disordine pigliasse più ampie proporzioni. Conviene aggiungere che il Capitolo mancò a’ suoi obblighi più sacri ed alle leggi sue fondamentali, protestando l’indomani contro il proprio arcivescovo, il quale ebbe il dolore di vedere il suo Clero disobbedirgli, mentre il popolaccio era ammutinato contro di lui; ed il 2 giugno si celebrò la festa della spo­gliazione della Chiesa, la festa dell’iniquità. I canonici della metropolitana di Milano potrebbero dirci dove hanno veduto che sia permesso, non di pregare con uno scomunicato, ma di far preci pubbliche per lui? Noi li invitiamo a leggere i canoni del Concilio di Trento e la bolla di scomunica del 26 marzo 1860.

L’Italia del 20 giugno 1861 pubblicava una lettera da Caprera indirizzata dal capo delle camicie rosse al Padre Giovanni Pantaleo, monaco scandaloso ed unitario: ecco-ne i brani principali: “Noi siamo della religione di Cristo e non della religione del Papa e dei cardinali, perché sono i nemici dell’Italia… combatteteli dunque a tutto potere… dovete attaccare il mostro che divora il cuore della nostra disgraziata madre…”. In altri scritti del suddetto capo delle camicie rosse, il mostro è trattato come peste, cancro, e vampiro sacerdotale. Che degno stile dell’eroe ridicolo di Varese, Marsalla e Aspromonte! Ammettiamo ora che l’amico di Vittorio Emmanuele, che il capo delle camicie rosse s’impadronisca di Roma, si capisce subito ciò che avver­rebbe del mostro, e come la Chiesa sarebbe libera in uno stato governato da tali uomini! In altri tempi questo furi­bondo sarebbe stato cacciato dalle nazioni civilizzate; oggi una stampa, che si dice civilizzata, l’acclama, ne fa un eroe, diremo quasi un semidio. Si direbbe quasi che siamo arrivati a quel momento predetto da Leibnitz, nel quale deve levarsi una razza d’uomini risoluti di mettere il mondo in fuoco per esperimentare le loro utopie.

Con ordine del ministro sardo dei culti, diretto a Mon­signor arcivescovo di Saluzzo il 29 maggio passato, il Governo decise di non accordare passaporti ai prelati che si disponevano a portarsi a Roma per la canonizzazione dei martiri del Giappone. Questa circolare fu mandata a tutti i vescovi del circondario ecclesiastico di Torino. È firmata Barbarossa.

Dietro un ordine emanato dal signor Rafaele Conforti, guardasigilli piemontese6, si sono perseguitati avanti ai tribunali di Napoli i canonici di san Gennaro accusati d’essersi mostrati ostili all’unità italiana ricusando di rice­vere Vittorio Emmanuele nella loro chiesa, il 3 del mese di maggio scorso, facendo poi ribenedire, dopo la partenza del re, il santo luogo come prescrivono i canoni. Noi non conosciamo ancora la sentenza che si pronunciò contro i canonici.

Il 26 aprile ultimo scorso il giudice del mandamento dì Staiti, in Calabria, ha condannato a due anni di prigionia ed a 1500 franchi di multa Don Antonio Minuici arciprete di Stignano per aver ricusato il 20 dello stesso mese, men­tre predicava, dicono ingenuamente i giornali unitarii di Napoli, di benedire in nome del Re Vittorio Emmanuele.

Nel mese di dicembre 1861 il Tribunale di prima istan­za di Pistoia condannò in contumacia Monsignor Antonio Carli vescovo in partibus d’Almira ed illustre missionario, a 50 giorni di prigionia, alla multa ed alle spese per aver fatto manifestazioni sediziose. Queste pretese manifestazioni sediziose, testualmente riportate nei Considerando del giudizio, e stampate sotto il titolo di Avvertimenti ai cattolici, sono così concepite:

– 1°. La Chiesa insegnante alla quale appartengono in virtù dell’istituzione divina, il Sovrano Pontefice come capo, maestro e pastore, e i vesco­vi che gli sono uniti per la comunione, è infallibile nelle sue definizioni in ciò che riguarda la fede ed i costumi: e questo è un dogma.

– 2°. La Chiesa è dunque infallibile, allorché definisce se un atto è giusto od ingiusto, vergo­gnoso od onesto, poiché questo concerne i costumi: que­sto pure è un dogma.

– 3°. La Chiesa ha stabilito che l’u­surpazione dei beni e dei territorii che le appartengono è ingiusta, condannabile e sacrilega: ed in questo la Chiesa è infallibile.

– 4°. La Chiesa ha ricevuto da Gesù Cristo il pieno potere di giudicare gli atti peccaminosi de’ suoi figli, e qualunque dicesse il contrario sarebbe eretico.

– 5° La Chiesa appoggiandosi all’autorità che ha ricevuta da Gesù Cristo, ha fulminata la pena della scomunica contro gli usurpatori dei beni ecclesiastici, e bisognerà tenere per eretico chi vorrà dire che in questo la Chiesa ha errato, o passati i limiti del proprio potere (Concilio di Trento, Sess. XXII de Reformat. capo XI).

– 6°. Anche presso i Gallicani più severi il giudizio del Pontefice romano è irreformabile, che è quanto dire infallibile, quando vi sia unito il voto della Chiesa insegnante. Ora nel caso attuale, vale a dire in quanto riguarda alla condanna scagliata contro gli usurpatori del dominio temporale della Santa Sede, tutti i vescovi del mondo hanno aderito esplicita­mente al giudizio ed alla sentenza data dal Capo Supremo”.

Ecco queste pretese manifestazioni sediziose con­dannate da un Governo il cui Statuto proclama la religio­ne cattolica apostolica romana la sola religione dello stato, e che di più ha l’insolenza di parlare di libertà alla Chiesa, mentre egli ne  è il più  implacabile persecutore. Monsignor Carli ha subita la sua prigionia a Livorno nelle carceri di San Domenico.

La Gazzetta officiale della Sicilia del 22 giugno 1860 pubblicava un decreto di Garibaldi concepito in questi ter­mini: “Considerando che i Gesuiti ed i Liguorini sono stati, durante il triste periodo dell’occupazione borbonica, i più ardenti fautori del dispotismo; in virtù del potere conferitoci, noi decretiamo che le corporazioni di monaci regolari che esistono in Sicilia sotto il nome di Compagnia o di Casa di Gesù e del Santo Redentore, sono sciolte. Gli individui che le compongono sono espul­si dall’Isola. I loro beni sono riuniti al dominio dello Stato”. – Segnati Garibaldi. – Crispi.

Il 24 giugno 1860 si scriveva da Forlì all’Armonia che il R- R Reginaldo Barbiani dell’ordine di san Domenico era stato condannato il 20 dello stesso mese ad un anno di Prigione e 2000 franchi di multa. Il suo delitto era di non aver voluto cantare il Te Deum per la festa dello Statuto7. Lo si era arrestato il 28 maggio precedente.

Il 18 maggio del medesimo anno S. E. il Cardinal Corsi arcivescovo di Pisa fu arrestato e condotto prigioniero a Torino, ed il Monitore toscano di Firenze diceva in questo pro­posito che il paese aveva applaudito a quest’atto energico. Sarebbe stato più giusto dire che tutto il paese aveva disapprovato questo atto di violenza, e lo prova l’indirizzo mandato dal Clero e dai cattolici di Pisa al loro vescovo prigioniero8. L’Opinione del 4 luglio seguente diceva che S. E. non era stato arrestato e condotto a Torino che per evitargli delle dispiacevoli dimostrazioni, e che il Governo non aveva l’intenzione di far­gli un processo. Che sollecitudine per parte del Conte Cavour! Ma non si può proteggere un principe della Chiesa senza metterlo prigione?… Finalmente il 6 luglio il Governo fece mettere in libertà Sua Eminenza, dopo due mesi di detenzione arbitraria. Il medesimo giorno si ponevano pure in libertà quattro padri Gesuiti arrestati il 25 e 26 maggio precedente parte a Genova e parte a Torino; furono ricono­sciuti innocenti. Erano stati accusati di cospirazione, di detenzione d’armi; si erano trovati loro dei tesori, e mille altre prove terribili… Et nascitur ridiculus musi

Nella notte dal 16 al 17 giugno 1860 il governo piemon­tese faceva arrestare a Cento, nelle Romagne, monsignor Antonio Maria Amadei, arciprete di quella città. Una com­pagnia di carabinieri aveva circondata la casa del venerabi­le ecclesiastico come se si trattasse dell’arresto di qualche famoso colpevole. Gli si diede solo il tempo di vestirsi, dipoi un tenente e due carabinieri lo condussero nelle prigioni di san Paolo a Ferrara. Poco prima avevano arrestato un altro prete nella medesima città di Cento.

Il 4 luglio 1860 monsignor Giovanni Benedetto dei conti Folicaldi, vescovo di Faenza, fu condannato a tre anni di pri­gione e 4000 franchi di multa per aver rifiutato di cantare il Te Deum. E siccome egli era ammalato nel momento del delitto, ci si limitò a farlo guardare nel suo palazzo vescovi­le; 16 gendarmi per due mesi furono incaricati della sua custodia.

Il 5 luglio del medesimo anno monsignor Antonio Ranza vescovo di Piacenza, il suo vicario generale don Angelo Testi, ed otto canonici della cattedrale, sono stati condannati in contumacia, il primo a quattordici mesi di prigionia e 1300 franchi di multa, il secondo ad un anno di prigionia ed a 1000 franchi pure di multa, e gli altri otto a sei mesi di car­cere ed a 500 franchi di multa. Gli otto canonici sono: i Molto Reverendi don Francesco Ostacchini, don Francesco Maretti, don Francesco Torre, don Gaetano Tirotti, conte don Girolamo Gemmi, conte don Idelfonso Morandi, don Carlo Rocci, don Agostino Ferrari. Avevano ancora chiamato avan­ti ai tribunali il rettore del seminario don Francesco Botti, ma fu assolto. Il solo delitto dei condannati fu d’essersi rifiu­tati di cantare il Te Deum in onore dello Statuto nazionale e dell’annessione al Piemonte. L’Armonia aggiunge che dal 26 giugno al 7 di luglio solamente, i tribunali avevano pronun­ciato dodici sentenze di condanna contro alcuni ecclesiasti­ci, che rifiutarono di cantare il Te Deum, con 158 mesi di prigione e 14.500 franchi di multa9.

Il 7 luglio 1860, soldati piemontesi arrestarono ad Argenta, piccolo borgo nella provincia di Ferrara, sette preti per aver egualmente rifiutato di cantare il Te Deum: qualche giorno dopo furono condotti nelle carceri di san Paolo a Ferrara col loro arciprete e vicario monsignor Liverani.

L’Unitario di Modena diceva nei primi giorni del luglio 1860, che un processo per simile rifiuto fu fatto a monsi­gnor Vescovo di Carpi ed a dieci altri preti suoi complici.

Il 24 giugno 1860 s’arrestò in Genova don Luigi Ferrari, che riconosciuto innocente fu posto in libertà dopo 15 giorni di prigionia arbitraria, e gli si concessero 24 ore per abbandonare gli stati del Piemonte. Ecco un innocente condannato all’esiglio. In Turchia forse per isbaglio gli avrebbero tagliata la testa, ma nel nuovo regno d’Italia, men­tre si riconosce un innocente, si condanna all’esigilo.

Il 13 luglio seguente, dietro inchiesta del tribunale di Ferrara, s’arrestava monsignor Serafino Ruffini arciprete mitrato della parrocchia di Bagnacavallo, don Vincenzo Errani arciprete di Villanova, ed il padre Zanassi dell’ordi­ne dei Minori conventuali, per l’imputazione ridicola d’a­ver inquietate le coscienze nell’esercizio del loro santo ministero. Qualche giorno innanzi, dice il Corriere mercan­tile del 13 luglio, s’arrestò a Cortona, in Toscana, don Bartolini nel momento che veniva dall’aver celebrata la messa. Era il terzo prete arrestato in meno d’un mese nella piccola città di Cortona.

Il 19 aprile precedente venivano espulsi per ordine superiore i monaci benedettini dal loro monastero di san Giovanni nel ducato di Parma. Il 10 maggio un decreto del signor Terenzio Mamiani, ministro della pubblica istruzione, ordinava la chiusura del seminario di Piacenza per vendetta contro il vescovo di quella città. In quel tempo monsignor Baluffi cardinale e vescovo d’Imola veniva custodito militarmente nel suo palazzo già da cin­quanta giorni, per non aver voluto andare a Torino a can­tare il Te Deum, e l’arcivescovo di Ferrara era perseguitato in mille maniere.

Nel mese d’aprile scorso il curato di Russi fu condan­nato a 18 mesi di carcere e 1500 franchi di multa per aver rifiutati i sacramenti al sindaco della sua comune.

Verso la metà del mese di luglio 1860 s’arrestava mon­signor Vincenzo Moretti vescovo di Comacchio, il suo vicario era anche imprigionato, ed i seminaristi messi sulla pubblica via: il delitto è quasi sempre lo stesso: per non aver cantato il Te Deum in onore del potere sacrilego e spogliatore.

Diciamo ancora due parole del Te Deum del 1862! L’arcivescovo di Saluzzo e quello di Mondovì furono chia­mati avanti ai tribunali per aver proibito al loro clero ogni sorta di cerimonie religiose per la festa dello Statuto.

Verso la fine del mese di maggio dello stesso anno i religiosi osservanti di Teramo nelle Due Sicilie furono espulsi dal loro convento. Si voleva anche espellere dal loro convento le religiose di Aversa, ma la supcriora si rifiutò di cedere le chiavi al fisco, e non si trovò in tutta la città un solo operaio che volesse atterrarne le porte. In quell’epoca le prigioni di Rossano erano piene di frati e di preti.

Verso la fine del 1860 monsignor Alessandro Angeloni, arcivescovo d’Urbino, fu condannato ad un mese di pri­gionia per aver difesi i diritti della Chiesa. La sua corag­giosa condotta fu lodata dal Papa in un concistoro tenuto il 1° dicembre del medesimo anno. Nello scorso mese di giugno questo prelato era scopo di nuove persecuzioni. L’odio della rivoluzione piemontese è come la vita nel rospo, non si estingue che coll’intera dissoluzione del corpo.

Il 25 del passato maggio a Ruvo nella Basilicata il dele­gato della questura piemontese fece arrestare i due cano­nici Pietro e Paolo Chicco, don Domenico Cassuco e don Pietro Caputo domenicani, don Raffaele Pellegrini prete, e Domenico Tosca. Le cause di questi arresti non sono conosciute. Mentre i prigionieri venivano condotti verso Barletta, i rivoluzionarii di Corato riunitisi sul loro pas­saggio li colmarono d’ingiurie e di minaccie: furono anche battuti in un modo odioso, e don Pellegrini, uno di loro, ne ricevette una ferita grave.

Il 18 giugno successivo il venerabile vescovo d’Orvieto fu arrestato e messo in carcere malgrado il cattivo stato di sua salute, per aver fatto pubblicare l’ordine che regola la solennità della processione del Corpus Domini.

Il generale La Marmora, nello scorso mese di giugno, s’impadronì a viva forza del convento di santa Brigida a Napoli, e di suo moto proprio ha stabilito nella chiesa un prete garibaldino, violando odiosamente i diritti dell’am­ministrazione diocesana. – Nel medesimo mese le Agostiniane di Salerno sono state egualmente espulse dal loro convento; però s’era presa la precauzione di scioglie­re la guardia nazionale che s’era già opposta a questa bru­tale esecuzione. – In quest’epoca il deputato Musolino diceva in Parlamento a Torino: “Noi daremo la libertà alla Chiesa come si da ai Valdesi od ai Turchi, ma l’indipen­denza mai! L’indipendenza del Clero! Questa è una eresia politica, ed il Papa non la può pretendere”. L’ultimo motto dunque della rivoluzione è sempre tirannia e schia­vitù!

Il 24 luglio 1862 il tribunale di Bologna condannò il T. R. Carlo Bignardi cappellano di san Giovanni di Persiceto, a 6 mesi di carcere e 500 franchi di multa, per non aver voluto amministrare i sacramenti al delegato di pubblica sicurezza morto recetemente in quella città.

Don Rocco Sabbatini curato d’Abbata-Mozzo, dice L’Unione del 12 agosto 1862, fu condannato dai tribunali di Teramo a 17 anni di lavori forzati per aver volontaria­mente dato asilo a bande armate, e per avere con pubblici discorsi eccitati gli spiriti contro il Governo italiano. Un assassino, in favore del quale si cercherebbero le circostanze più attenuanti, non sarebbe stato condannato a pena più forte. Ma sotto il regno del re galantuomo un prete è considerato molto meno d’un ladro o d’un assassi­no. Felice civilizzazione che fiorisce ora in tutta l’Italia!

Un decreto dell’Uomo dalla camicia rossa, in data di Napoli 22 settembre 1860, ordina che tutti i beni dell’arci­vescovo di quella città siano considerati come beni nazio­nali. Questa è una trista reminiscenza del 1789.

Ecco intanto una lista, ben incompleta, di alcuni fra i vescovi italiani che sono stati espulsi dalle loro diocesi ed obbligati a fuggire le persecuzioni. Monsignori i vescovi di Salerno, di Noia, d’Aversa, d’Acerra, d’Ischia, di Bovino, di Lacedonia, di Castellamare, di Sorrento, di Reggio, d’Aquila, di Sora, d’Amalfi, d’Acerenza e Matera, di Bari, di Taranto, di Rossano, d’Isernia, di Calvi e Teano, di Sessa, di Caserta, di Capaccio Vallo, di Anglona e Tursi, di Sant’Angelo de’ Lombardi, di Muro, di Cereto, di Sant’Angelo de’ Goti, di Ruvo e di Bitonto, d’Oria, di Andria, d’Ugento e di Cajazzo, di Monopoli, di Melfi e di Rapolla, di Foggia hanno dovuto fuggire dalle loro sedi episcopali. Un decreto del signor Farini dell’8 gennaio 1861 ha messi tutti i loro beni sotto sequestro, cosa che equivale ad una confisca. Molti vescovi toscani sono minacciati ed inquietati. S. E. il cardinale Riario Sforza arcivescovo di Napoli e Capo brigante, per parlare il linguaggio dell’Opinione del 7 agosto 1860, è stato due volte espulso dalla sua diocesi, così monsignor Felice Cantimorri vescovo di Parma10. L’arcivescovo d’Avellino è pure da molto tempo in esiglio; egli fu arrestato a Napoli il 21 febbraio 1861. S. E. il cardinale de Angelis arcivescovo di Fermo, arre­stato il 28 settembre 1860 e condotto a Torino, è in prigione da due anni, senza processo, né condanna, ma non senza calunnie. Monsignor l’arcivescovo di Torino è morto in esi­glio. Questa lista di proscrizione è stata pubblicata dal gior­nale il Piemonte di Torino, nel passato mese di maggio, e nell’Armonia del 18 gennaio 1860. Il gran delitto dei colpe­voli è di non aver cantato: come si dovrebbe dire, volendo parlare il gergo di questo felice regno d’Italia.

L’Adriatico di Ravenna del 21 giugno 1860 annunciava l’arresto di due arcipreti di Gatteo e di Longiano don Pietro Pedrelli e don Cristoforo Andreucci per non aver voluto can­tare il Te Deum. Il 20 luglio 1860 si arrestava per la medesi­ma causa don Savore, curato di Casale, nella diocesi di Lodi. Qualche giorno dopo lo si condannò a sei mesi di carcere e 300 franchi di multa per aver turbato l’ordine pubblico.

Nei primi giorni di novembre del medesimo anno, monsignor Pietro Cilento arcivescovo di Rossano, nella Calabria citeriore, fu assalito nel suo palazzo da 200 uomi­ni con alla testa un commissario di polizia per aver difesi i diritti temporali della Santa Sede in una circolare del 17 ottobre precedente, pubblicata nellVlrmoma del 28 novem­bre. Fu condotto a Cosenza ove fu tenuto in carcere senza che potesse comunicare con alcun diocesano.

Nello stesso mese di novembre fu arrestato ancora l’arcivescovo d’Urbino per aver pubblicato nella sua diocesi la Bolla di scomunica maggiore contro gli invasori dei beni della Chiesa: fu condotto a Pesaro nel convento di sant’Agostino e vi fu guardato dai soldati.

Dopo la conquista delle Due Sicilie fatta dalle bande garibaldine pei tradimenti dei generali napoletani, si fece in tutto il regno una odiosa persecuzione a tutti i preti ed i vescovi rimasti fedeli al loro re ed alla patria. Citeremo qui qualche fatto solamente. In Sicilia il padre de Cesare, abbate del celebre convento di Monte Vergine, fu assalito da Garibaldi che gli tirò molti colpi di fucile e lo ferì nella testa: è quasi un miracolo che non sia morto. Monsignor Papardo, coadiutore dell’Arcivescovo di Messina, avendo rifiutato di sottomettersi alle esigenze di Garibaldi, fu giu­dicato da un consiglio di guerra e condannato al bando. Negli Abruzzi molti preti furono consegnati ai consigli di guerra che ne fucilarono alcuni, ed altri fecero custodire in carcere. – Monsignor Filippi vescovo d’Aquila fu obbli­gato a sottrarsi colla fuga alle continue persecuzioni degli unitarii. – Monsignor d’Avanzo vescovo di Castellaneta fu minacciato nella sua città vescovile da rivoluzionarii stra­nieri; ma siccome gli abitanti gli erano tutti affezionati, i garibaldini non osarono molestarlo, ed attesero una occa­sione favorevole che non tardò a presentarsi. Un giorno che il prelato s’era posto in viaggio per andare a visitare due altre città della sua diocesi, Calvi e Teano, alcuni gari­baldini si nascosero a 16 miglia da Castellaneta, vicino ad un villaggio chiamato Gioja, e gli tirarono quattro colpi di fucile a quindici passi di distanza. Due palle gli traversaro­no il corpo a mezzo del petto, un’altra gli venne nella direzione del cuore, la quarta fallì ed egli deve la sua salu­te alla croce vescovile che portava nel petto. Ferito grave­mente il vescovo si recò fino al villaggio di Gioja per avervi un qualche soccorso, ma i briganti anche lì vennero ad assalirlo, ed egli fu costretto di rifugiarsi ad Avella presso l’arciprete di quella città.

Qui chiudiamo le nostre citazioni. Noi potremmo riem­pirne molti volumi, ma non è il numero che faccia le ini­quità; ci basta d’aver citato qualche fatto ed attendiamo i prossimi avvenimenti che ci prepara la rivoluzione. Il Re d’Italia a Roma portando una mano sacrilega sul Pontefice supremo, e salendo in Campidoglio, ci mostrerà in un modo anche più evidente l’odiosa ipocrisia di quelle paro­le Chiesa libera in libero stato. Ma abbiamo fiducia, la Chiesa è la lotta poiché è la Croce, e la Croce è la libertà. Si può ben soggiogarla per un poco, ma schiacciarla non mai: Dio non si schiaccia!

fonte

https://www.eleaml.org/sud/borbone/brigantaggio_piemontese.html#sesto

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