I Mille di Vittorio Messori
Per il capo dei socialisti, Bettino Craxi, è ormai una tradizione passare a Caprera la prima domenica di giugno, giorno in cui si celebra la festa della Repubblica. Caprera, si sa, vuoi dire Garibaldi: per un giorno, nei quindici chilometri quadrati di quell’isola, Craxi medita su colui che qualcuno ancora chiama “l’Eroe dei Due Mondi”.
In realtà, la polemica cattolica aveva storpiato quel nome, trasformandolo in “Eroe dei Due Milioni”, alludendo alla pingue rendita assegnatagli dallo Stato italiano. Non mancarono, in effetti, polemiche sulla “povertà” di colui che (stando a quanto si leggeva nei libri edificanti) “donò un Regno ai Savoia senza nulla chiedere per sé”. Ma, proprio adesso, nuove ricerche, con relativi documenti sinora sconosciuti, gettano una luce inquietante sul mito “francescano” del Nizzardo (o, meglio, fatta salva la sua personale integrità, su quello dei suoi collaboratori diretti), e possono aprire nuove prospettive sui retroscena dell’epopea risorgimentale. Ci sono brutte novità, insomma, per i superstiti devoti dell’Eroe in capelli biondi, camicia rossa e poncho bianco.
Prima di venire a quelle novità, vediamo ciò che già si sapeva: come se la passava, economicamente, Garibaldi? Era davvero così povero come vorrebbe il mito?
Va detto che sin dal 1854 aveva abbastanza denaro per comprare almeno parte di un’isola come, appunto, Caprera. Quando vi si ritirò, dopo la spedizione contro siciliani e napoletani, la sua azienda agricola contava una trentina di dipendenti e altre decine di persone (tra cui i membri della numerosa famiglia) ne vivevano. I capi di bestiame superavano i 500 e, in una rada, era ancorato un grande panfilo regalatogli da un ammiratore.
Poiché le abitudini di Garibaldi erano frugali (e poiché ciò che gli interessava era la “gloria” e non il denaro), avrebbe potuto vivere da benestante, non fosse stato per i figli – Ricciottì e Menotti – che si misero a speculare sul boom edilizio di Roma divenuta capitale italiana. Una storia poco edificante, anche dal punto di vista patriottico: i due, cioè, parteciparono a quel “sacco urbanistico” che, in pochi anni, distrusse la vecchia Roma, divenuta terra di conquista di speculatori che crearono orribili quartieri “da rendita” dove erano splendidi parchi, rovine antiche, palazzi medievali e rinascimentali. Già ne parlammo. Ricciotti e Menotti finirono però per lasciarci le penne e, disperati, ricorsero, per soccorso, al famoso padre.
Sparsasi la voce delle difficoltà in cui si trovava la famiglia Garibaldi, il Governo (sempre pronto a tenere buono un uomo dei cui colpi di testa diffidava: e non a torto) deliberò un “Dono di gratitudine nazionale” di ben 50.000 lire l’anno vita natural durante. Una somma enorme, pari alla rendita di due milioni di lire-oro. Da qui il beffardo nomignolo cattolico di “Eroe dei Due Milioni” inventato dall’implacabile Civiltà Cattolica.
Garibaldi cercò di salvare le forme: sulle prime respinse la rendita con sdegnate parole; poi ci ripensò e finì coll’accettarla, approfittando del fatto che al governo era salito Agostino Depretis, uno dei Mille. E pensare che, poco più di un anno prima, saputo che il Parlamento aveva votato la legge che lo faceva ricco rentier, aveva gridato: “Cotesto governo, la cui missione è impoverire il Paese per corromperlo, si cerchi dei complici altrove!”. Ma, si sa, si deve pur campare…
Anche se si tratta di un episodio che mal si inquadra con il mito, tra le tante riserve cui la storia quella “vera” – obbliga davanti a Garibaldi, non c’è più quella di avidità di denaro. Le grandi somme da lui dilapidate furono inghiottite da una torma di familiari, profittatori, parassiti, oltre che dalla sua nullità come amministratore di se stesso.
Adesso, ecco la sconcertante rivelazione. Viene dal convegno “La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria”, organizzato a Torino nel settembre del 1988 dal Collegio dei Maestri Venerabili del Piemonte, con l’appoggio di tutte le Logge italiane. Di recente sono stati pubblicati gli Atti, a cura dell’editrice ufficiosa dei massoni. Una fonte sicura dunque, visto il culto dei “fratelli” per quel Garibaldi che fu loro Gran Capo. Un breve intervento – poco più di due paginette, ma esplosive – a firma di uno studioso, Giulio Di Vita, porta il titolo Finanziamento della spedizione dei Mille. Già: chi pagò? Come riconosce lo stesso massone autore della ricerca: “Una certa ritrosia ha inibito indagini su questa materia, quasi temendo che potessero offuscare il Mito. Quanto viene solitamente riferito è un modesto versamento – circa 25.000 lire fatto da Nino Bixio a Garibaldi in persona all’atto dell’imbarco da Quarto”.
E invece, lavorando in archivi inglesi, l’insospettabile Di Vita ha scoperto che, in quei giorni, a Garibaldi fu segretamente versata l’enorme somma di tre milioni di franchi francesi, cioè (chiarisce lo studioso) “molti milioni di dollari di oggi”. Il versamento avvenne in piastre d’oro turche: una moneta molto apprezzata in tutto il Mediterraneo. A che servì quell’autentico tesoro? Sentiamo il nostro ricercatore: “È incontrovertibile che la marcia trionfale delle legioni garibaldine nel Sud venne immensamente agevolata dalla subitanea conversione di potenti dignitari borbonici alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa illuminazione sia stata catalizzata dall’oro”. Anche perché ai finanziamenti segreti se ne aggiunsero molti altri (e notevolissimi, palesi) frutto di collette tra tutti i “democratici” di Europa e America, del Nord come del Sud.
Sarebbero così confermate quelle che, sinora, erano semplici voci: come, ad esempio, che la resa di Palermo (inspiegabile sul piano militare) sia stata ottenuta non con le gesta delle camicie rosse ma con le “piastre d’oro” versate al generale napoletano, Ferdinando Lanza. Con la prova dei molti miliardi di cui disponeva Garibaldi si può forse valutare meglio un’impresa come quella dei Mille che mise in fuga un esercito di centomila uomini (tra i quali migliaia di solidi bavaresi e svizzeri), al prezzo di soli 78 morti tra i volontari iniziali.
Ma c’è di più: il poeta Ippolito Nievo se ne tornava da Palermo a Napoli al termine della spedizione. Il piroscafo su cui viaggiava, l”‘Ercole”, affondò per una esplosione nelle caldaie e tutti annegarono. Si sospettò subito un sabotaggio ma l’inchiesta fu sollecitamente insabbiata. Le cose possono ora chiarirsi, visto che il Nievo, come capo dell’intendenza, amministrava i fondi segreti e aveva dunque con sé la documentazione sull’impiego che nel Sud era stato fatto di quei fondi. Qualcuno evidentemente non gradiva che le prove del pagamento giungessero a Napoli: non si dimentichi che recenti esplorazioni subacquee hanno confermato che il naufragio della nave del poeta fu davvero dovuto a un atto doloso.
Si cominciava bene, dunque, con quella “Nuova Italia” che i garibaldini dicevano di volere portare anche laggiù: una bella storia di corruzioni e di attentati Ma Nievo portava, pare, solo ricevute: dove finirono i miliardi rimasti, e dei quali solo pochissimi capi dei Mille erano a conoscenza?
In ogni caso, era una somma che solo un governo poteva pagare. E, in effetti, la fonte del denaro era il governo inglese (non a caso lo sbarco avvenne a Marsala, allora una sorta di feudo britannico, e sotto la protezione di due navi inglesi; e proprio su una nave inglese nel porto di Palermo fu firmata la resa dell’isola).
Come riconosce il “fratello” Di Vita, lo scopo della Gran Bretagna era quello già ben noto: aiutare Garibaldi per “colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato protestante e laico”. Le monarchiche isole pagarono cioè il repubblicano Eroe perché distruggesse un Regno, quello millenario delle Due Sicilie, purché anche l’Italia, “tenebroso antro papista”, fosse liberata dal cattolicesimo.
© Pensare la storia, San Paolo, Milano 1992, p. 258.