I pionieri dell’emigrazione siciliana negli Stati Uniti: gli esuli del Risorgimento
La rivoluzione delle tredici colonie inglesi nel 1776 e l’instaurazione di liberi ordinamenti nella nuova repubblica suscitarono profondo interesse e viva ammirazione negli intellettuali italiani (Mangio 1976; Procacci 1954; Visconti 1940).
Su impulso di Benjamin Franklin negli anni della sua missione a Parigi, le logge massoniche svolsero un’intensa propaganda a favore dei ribelli e tra gli affiliati si diffuse una concezione mistica dell’America come il luogo dove si stava costruendo quello Stato-modello che avrebbe portato gli uomini alla completa felicità (Pace 1958, Mannori 2005). La Restaurazione infuse un ulteriore vigore all’immagine dell’America come faro di libertà e patria della democrazia per antonomasia, di contro suscitando i sospetti nei governi europei in quanto fonte di diffusione di quei principi politici che facevano «tremare i troni sotto ogni sovrano come le scosse di un terremoto»[1]. D’altra parte, soprattutto a partire dal Quarantotto, il processo di unificazione italiano trovò ampio consenso negli ambienti dell’intellighenzia americana (Fiorentino 2008; Marraro 1932; Spini 1969) e l’Italia divenne il luogo simbolo di quella battaglia globale contro tutte le forme di dispotismo e per l’affermazione dell’indipendenza e dell’autogoverno di cui gli Stati Uniti si sentivano, in un certo senso, iniziatori e fonte di ispirazione (Gemme 2005).
In questo clima ideale, non stupisce che alcuni esuli risorgimentali scegliessero come destinazione gli Stati Uniti d’America, facilitati anche dallo sviluppo dei trasporti navali transatlantici (Luconi 2014). Nondimeno, è stato calcolato (Gabaccia 2000, 46-47) che non più del 10% degli esuli italiani si recò oltreoceano in quanto la maggior parte di loro preferì stabilirsi in regioni più vicine per poter rientrare in tempi rapidi in caso di sviluppi politici favorevoli. Come per l’esodo risorgimentale nel suo complesso (Bistarelli 2011; Galante Garrone 1954), fu il fallimento dei moti carbonari del biennio 1820-1821, delle insurrezioni del 1831 e delle rivoluzioni del 1848-1849 a produrre le principali ondate emigratorie politiche transoceaniche. Esse furono una componente, non sempre facilmente distinguibile, della più generale emigrazione italiana verso gli Stati Uniti che si mantenne molto contenuta, non superando le 13.000 unità nei tre decenni che precedettero l’Unità (Porcella 2001; Sanfilippo 2008). Fondatori di giornali, scuole e società di mutuo soccorso, organizzatori di adunate e raccolte di fondi, gli esuli, nonostante le continue controversie che opponevano i monarchici ai mazziniano-repubblicani, contribuirono a mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di chi stava combattendo in Europa e per la comunità immigrata, probabilmente più di quanto erano riusciti a farlo in Italia, essi furono «agenti vivi della costruzione di un’identità nazionale» (Franzina 1995, 15; Gabaccia 2000, 34-35). Tuttavia il solco tra le due componenti dell’emigrazione, separate anche da aspetti sociali e di classe, rimase e gli esuli lamentarono spesso la freddezza se non l’indifferenza mostrata dai connazionali per le loro iniziative patriottiche (“The New York Times”, 9 novembre 1859).
Anche in Sicilia, la storia e le istituzioni degli Stati Uniti suscitarono un notevole interesse. Il federalismo, che nel corso dell’Ottocento trovò nell’isola spazi sempre più consistenti all’interno del dibattito politico, rese gli USA un costante modello di riferimento, pur se più su di un piano ideale che su quello della concreta esperienza costituzionale (Mannori 2005, 365). I patrioti siciliani (Villareale 1848, 187) consideravano gli Stati Uniti un esempio mirabile di «sviluppo di commerci, di studi e d’ogni maniera di social progredimento», il cui successo era dovuto soprattutto al modello di federazione «felice e prosperevole». Ruggero Settimo fu pubblicamente acclamato come un nuovo Washington e lo Statuto fondamentale del regno di Sicilia, approvato dopo un lungo dibattito il 10 luglio del 1848, superando in senso democratico il progetto stesso, segnò il passaggio da una costituzione aristocratica di stampo inglese a una che riecheggiava largamente, se pur superficialmente, quella americana (Spagnoletti 1995, 297)[2].
Qui si intende ricostruire le biografie e seguire i percorsi di alcuni esuli siciliani negli Stati Uniti, di solito poco ricordati (Bistarelli 2011). Per alcuni di loro la scelta della destinazione fu casuale, ad esempio per i fratelli Minnelli che ricercati dalla polizia trovarono un passaggio su di uno dei mercantili americani che con regolarità collegavano l’isola con l’altra sponda dell’Atlantico. Per altri, come Pietro D’Alessandro o Luigi Monti che volontariamente decisero di abbandonare il soffocante clima della monarchia autoritaria, fu una scelta consapevole e dettata dalla sincera ammirazione nei confronti della libertà americana. La maggior parte di loro, alla prima occasione, rientrò in Italia per riprendere la lotta, qualcuno decise invece di stabilirsi in modo permanente nel paese d’adozione, ma non smise mai di sostenere con ogni mezzo la patria lontana. Come si vedrà, in America gli esuli risorgimentali condivisero con gli emigranti non politici, che a decine di migliaia arrivarono dopo di loro, molti aspetti esistenziali: le difficoltà economiche, le delusioni, i sentimenti di solitudine e nostalgia. Anch’essi ebbero la necessità di entrare in relazione con la società ospite – che nei loro confronti provava una generale ma a volte superficiale simpatia – in particolare con un mercato del lavoro che raramente richiedeva le loro competenze di professionisti e uomini di studio (Sanfilippo 2005; Audenino 2014).
Ignazio Batolo (alias Pietro Bachi, FOTO 1) nacque a Palermo nel 1787 da una famiglia originaria della provincia di Messina, il padre Salvatore era procuratore del re presso la Gran corte civile e giudice della Corte suprema di giustizia del regno di Sicilia. Laureato in legge e avvocato, Ignazio fu identificato come aderente alla “vendita” carbonara dei Seguaci di Muzio Scevola e, accusato di far parte della cospirazione per rovesciare il governo dell’isola scoperta nel gennaio del 1822, per evitare l’arresto, insieme ai compagni Carlo Serretta, l’abate Giuseppe Attinelli e il napoletano Ferdinando Massa, fuggì in America. I quattro, sui quali fu messa una taglia di 80 onze, furono condannati in contumacia a 24 anni di prigione e a una multa di 500 ducati (Labate 1904, 109-205). Serretta e Attinelli si stabilirono a Salem e si impiegarono nell’insegnamento della lingua italiana, un ripiego comune per molti esuli che in origine non svolgevano questa professione e che servì anche per superare la paura della perdita di identità e rimanere in qualche modo ancorati al proprio mondo (Bistarelli 2011, 29). Massa visse a New York e negli anni Quaranta fu tra i finanziatori della Biblioteca pubblica italiana fondata da Lorenzo da Ponte e vice presidente della società di mutuo soccorso Italian Benevolent Society, di cui era presidente il console napoletano Luca Palmieri (“The New York City e Co-Partnership Directory for 1843 & 1844”, p. 423).
Batolo arrivò a Boston nell’aprile del 1823 e, intenzionato a rientrare presto in Italia ed «essendo in America un nome buono come un altro», assunse lo pseudonimo di Pietro Bachi. Chiamato dal direttore del dipartimento di Lingue moderne di Harvard George Ticknor, che aveva deciso di assumere docenti stranieri per l’insegnamento delle lingue moderne, dal 1826 Bachi fu instructor di lingua e letteratura italiana e, dal 1831, di lingua spagnola e portoghese e mantenne l’incarico fino al 1846, quando fu destituito per motivi che non sono stati chiariti (Scalia 1965, 322). Altamente apprezzato dagli studenti e dai superiori e premiato con il titolo di Master of Arts onorario, Bachi dovette però integrare con l’insegnamento privato la modestia del compenso di cinquecento dollari annuali che lo costrinse a risiedere in uno dei quartieri più popolari della città. Le difficoltà economiche di Bachi furono condivise da molti esuli negli Stati Uniti, come infatti risulta dalle loro testimonianze la principale preoccupazione era quella di procurarsi i mezzi di sostentamento: «L’immagine di Garibaldi intento a lavorare nell’opificio di Antonio Meucci a Staten Island è parte integrante dell’epopea risorgimentale ed emblematica delle condizioni di molti fuorusciti» (Luconi 2014, 7). Bachi difese sempre lo studio dell’italiano come indispensabile per un’educazione colta e raffinata e, per supplire a una mancanza lamentata da Ticknor, pubblicò lavori di carattere grammaticale, manuali di conversazione e antologie per uso degli studenti che continuarono a essere adoperati con successo anche dopo il suo ritiro (Marraro 1944, 569-572). Henry Wadsworth Longfellow (FOTO 2), successore di Ticknor alla guida del dipartimento, ammirò la sua A Grammar of the Italian Language (Boston 1838) come un’opera di «immenso lavoro […] insieme esaustiva e chiara e di gran lunga superiore a tutti i manuali già in uso nelle scuole». I suoi libri sullo spagnolo e il portoghese furono segnalati come i primi studi di filologia comparata prodotti ad Harvard (Russo 2011, p. 69).
L’esilio non interruppe la militanza politica di Bachi che diresse la sezione di Boston della Congrega della Giovine Italia, l’associazione che Felice Foresti, uno dei reduci del carcere dello Spielberg e professore di italiano alla Columbia Univeristy, su incarico di Mazzini aveva fondato a New York nel 1841 con il proposito di diffondere gli ideali repubblicani tra gli immigrati italiani. La Congrega, che a New York contava una sessantina di iscritti, aveva sezioni anche a Philadelphia, Richmond, Charleston, New Haven e New Orleans e operò fino alla primavera del 1848 quando fu trasformata nell’Associazione nazionale italiana, un’organizzazione che negli intenti di Mazzini, attenuando l’intransigenza repubblicana, avrebbe dovuto superare le divisioni e coinvolgere un maggior numero di italiani (Candido 1978). Bachi fondò nel 1842 una scuola serale gratuita per gli italiani poveri sul modello di quella aperta da Mazzini a Londra, dove il patriottismo veniva trasmesso insieme a nozioni di storia, letteratura e lingua inglese (Finelli 1999). Segnalato dalla polizia borbonica a Malta nell’estate del 1844 per partecipare al fallito tentativo di sbarco in Sicilia organizzato da Nicola Fabrizi, Bachi, a novembre del 1847, tornava nell’isola natale per prendere parte alla rivoluzione. Sconfitta l’insurrezione, fu di nuovo costretto alla via dell’esilio e tornò a Boston, dove morì in ristrettezze economiche nel 1853.
Dopo l’allontanamento di Bachi, la cattedra di italiano ad Harvard fu tenuta da Longfellow fino al 1854 quando, su suo stesso suggerimento, fu assunto un altro esule siciliano, Luigi Monti. Nato a Palermo nel 1830, figlio di un ufficiale della marina e comandante dell’arsenale, Monti all’età di 14 anni fu mandato in un collegio di Cape Cod, Mass. per «essere educato all’inglese». Venuto a conoscenza dello scoppio dell’insurrezione, rientrò in Sicilia arruolandosi nell’esercito rivoluzionario, quindi tornò in America stabilendosi prima a Hyannis e poi a Boston. Il presidente di Harvard Jared Sparks, che lo aveva ricevuto per un colloquio, lo inviò da Longfellow e da allora i due si frequentarono spesso e Monti ne divenne uno degli amici più cari al punto che il grande scrittore, ammirandone l’humour e la schiettezza dei modi, lo utilizzò come modello per il giovane siciliano protagonista della raccolta di poesie del 1863 Tales of a Wayside Inn. Monti pubblicò la traduzione di alcuni romanzi storici di Domenico Guerrazzi, una grammatica e un libro di lettura italiana che dedicò a William H. Parsons, il poeta traduttore di Dante che lo aveva aiutato a trovare una casa e la cui sorella Frances aveva sposato, divenendo cittadino americano (Fucilla 1975, 94). Nonostante che la qualità del suo insegnamento fosse riconosciuta molto soddisfacente, al punto da essere premiato con il titolo di Master of Arts onorario, nel 1859 – come lamentò in un lungo memoriale inviato al collegio dei supervisori – senza ricevere spiegazioni, Monti fu licenziato, gli istruttori di lingue straniere furono ridotti a due e l’insegnamento dell’italiano e dello spagnolo fu riaffidato in modo esclusivo al direttore del dipartimento (Harris 1970, 188).
Per interessamento di Longfellow e con il sostegno dei due politici bostoniani Charles Sumner, presidente del Senate Foreign Relations Commitee, e John Andrew, Monti, il 3 agosto del 1861, fu nominato dal presidente Lincoln console americano a Palermo (Basler 1974, 62). Grazie alla simpatia di cui godeva presso le autorità italiane per i suoi trascorsi patriottici e le idee moderate, Monti riuscì al meglio ad assistere i viaggiatori e proteggere gli interessi mercantili della nazione, risolvendo in modo amichevole alcune delicate questioni. Gli sforzi per incrementare il commercio nell’area su cui si estendeva la sua giurisdizione furono fruttuosi, aumentando il valore delle esportazioni verso gli Stati Uniti di oltre il quadruplo in dieci anni (Rogers 1874, 333-334). Monti rimase in carica fino al 1873 quando, nonostante il nuovo intervento di Longfellow per tramite del deputato Samuel Hooper, il presidente Grant lo rimosse dall’incarico (Simon 2000, 373). Scrivendo all’amico, Monti affermava che aveva perso il posto a causa della «perentoria richiesta di uffici da parte del Sud» (Hilen 1982, 689) e difatti il consolato fu affidato a William S. Pearson del North Carolina. Monti accettò temporaneamente il ruolo di vice console nella speranza di riottenere la carica avendo Pearson rinunciato a causa del basso salario. Venuta meno questa possibilità, nel 1874 rientrò negli Stati Uniti. Il palermitano raccontò la propria esperienza nel volumetto Adventures of a Consul Abroad, pubblicato a Boston nel 1878 con lo pseudonimo di Samuel Sampleton, in cui con ironia ricordava la gran quantità lavoro, le sviste, il salario da impiegato di terzo livello e insufficiente per la sopravvivenza quotidiana, affermando con chiarezza la necessità di buon senso nella nomina dei rappresentanti del paese all’estero e mostrando ai lettori «il come e perché il loro sistema consolare è il più miserabile del mondo» (“The Publishers’ Weekly” 18 maggio 1878, 488-489). Monti riprese a dare lezioni private, tenne cicli di conferenze su Dante e sulla letteratura italiana moderna, scrisse il romanzo Leone e articoli per giornali e riviste, tra cui Italy and the Pope (“Scribner’s Monthly” luglio 1878, 357-369) in cui, ripercorrendo le vicende del Risorgimento, difese la politica religiosa del governo italiano e la fine del potere temporale del papato contro l’idea diffusa tra alcuni cattolici europei di una sua restaurazione con le armi. Convinto che non avrebbe riottenuto l’incarico ad Harvard, si trasferì a New York con la moglie, dove morì nel 1914.
Grazie agli sforzi nel migliorare la qualità dell’insegnamento dell’italiano di Bachi, Monti e di altri apprezzati insegnanti come Carlo Bellini, Vincenzo Botta e Carlo Speranza, nel corso del XIX secolo esso fu introdotto in 43 università degli Stati Uniti e ottenne l’appoggio di illustri personalità accademiche del tempo, quali Ticknor, Longfellow, Parson, Bryant e Norton, il cui ruolo fu fondamentale nella diffusione della cultura italiana in America (Marraro 1944, 572-579).
L’esilio fu invece una scelta volontaria per il ventenne palermitano Pietro D’Alessandro. Laureato in lettere, poeta romantico e fervente ammiratore di Ugo Foscolo, D’Alessandro era membro della società segreta conosciuta come L’Ardita falange, presieduta da Benedetto Castiglia e formata da alcuni giovani destinati a diventare protagonisti di primissimo piano della vita politica e culturale dell’isola, come Francesco Paolo Perez, Mariano Stabile, Emerico Amari, Francesco Ferrara e il pittore Andrea D’Antoni (Scalia 1964, 325). Castiglia, che su “La Ruota”, il periodico da lui diretto, pubblicò una traduzione di D’Alessandro della poesia Love di Samuel T. Coleridge, scrisse che era stato «il ribollire precoce di passioni a cui i tempi si ricusano, il chiudersi di ogni speranza che non si nutra di avvilimento» (“La Ruota” 15 febbraio 1841, 30) a spingere l’amico fraterno a lasciare la terra natale. Impressionato dalla lettura della Storia della guerra di indipendenza degli Stati Uniti di Carlo Botta, il poeta giunse in America carico di aspettative, immaginando un paese nel quale «il pensiero può espandersi libero da ogni servile catena. [Appena sbarcato] mi sono chinato con reverenza a baciare la terra consacrata alla libertà e per la prima volta ho sentito che anche io ero un uomo» (Tuckerman 1864, 343). Stabilitosi a Boston nel 1833, pur avendo una buona conoscenza della lingua inglese, D’Alessandro dovette però attendere un anno prima di riuscire a trovare lavoro come insegnante di italiano e fu costretto a vivere con i soldi che gli venivano inviati da casa. L’amicizia di Pietro Bachi gli permise di superare lo spaesamento e lo sconforto. Come scrisse in alcune lettere inviate agli amici in Italia, tradotte e pubblicate da Henry Tuckerman, per lui i bostoniani erano civili, ma freddi ed estremamente diffidenti degli stranieri. Anche se lo sorprendevano certe stravaganze nella moda soprattutto femminile, tuttavia ne ammirava il senso dell’ordine, il rispetto per l’istruzione, la generale efficienza del commercio e dell’industria non ostacolata da «restrizioni e tiranniche estorsioni» (Tuckerman 1864, 353).
Bachi e D’Alessandro a Boston ebbero un’assidua frequentazione con un altro esule italiano il parmigiano Antonio Gallenga che, coinvolto nell’insurrezione contro il governo di Maria Luigia del 1831, era prima fuggito prima a Marsiglia, dove aderì alla Giovine Italia, unendosi poi, nascosto dietro lo pseudonimo di Luigi Mariotti, al seguito di un diplomatico napoletano a Malta e Tangeri. Gallenga visse a Boston dal 1836 al 1839 e, introdotto a Bachi da una lettera di presentazione del governatore del Massachusetts Edward Everett, grazie al sostegno del connazionale trovò lavoro come insegnante di italiano nel collegio femminile di Cambridge, tenne letture dantesche e conferenze sulla situazione italiana e scrisse alcuni articoli di critica letteraria sulla “North American Review”. Gallenga sintetizzava le proprie impressioni sui due amici italiani affermando (1884, 68): «D’Alessandro in ogni commedia sarebbe perfetto per il ruolo del Pensieroso, mentre Bachi per quello dell’Allegro». In amicizia con alcuni illustri esponenti della cultura cittadina, come Ticknor e lo storico William H. Pescott, Gallenga ne osservava la crescente italofilia e, convinto che Bachi e D’Alessandro avessero ormai fatto il loro tempo, sperava che essa fosse rivolta verso di lui, permettendogli di ottenere una sistemazione migliore (Gallenga 1884, 184; Dionigi 2006)
Nel 1835, D’Alessandro pubblicò la sua opera più famosa Monte Auburno un poemetto in versi sciolti in italiano modellato sui Sepolcri, indirizzato a Benedetto Castiglia e ambientato a Mount Aburn, il luogo di recente consacrato dove era sorto il primo cimitero rurale d’America (FOTO 3). Il carme ricevette una buona accoglienza dalla critica per la delicata sensibilità e la dolce melodia dei suoi versi (Scalia 1964, 353). La situazione economica dell’esule siciliano non dovette però migliorare, se fu costretto a inviare una supplica all’odiato sovrano borbonico per chiedere di essere nominato vice console delle Due Sicilie nel porto di Boston. D’Alessandro asserì di aver lasciato la patria solo per affari e fece riferimento a due lettere inviate al ministro degli Esteri da alcuni negozianti e capitani di nave siciliani che chiedevano la sua nomina in quanto l’attuale vice console, pur essendo una persona molto stimata, non parlava l’italiano e non conosceva le leggi e gli usi del regno e ciò era causa di ritardi e aggravio di costi per la necessità di assumere un interprete. Richiesto dal ministro, il console Morelli espresse parere negativo sulla nomina di D’Alessandro, sostenendo il fatto che non risiedesse a Boston ma a Cambridge e soprattutto che, pur avendo egli avuto sempre una condotta pacifica e tranquilla, ci fosse qualche ombra sul reale motivo della suo arrivo in America. Dopo ulteriori indagini, il console diede alla fine un parere favorevole[3] e nel 1840, il palermitano assunse la carica di vice console a Boston anche per il regno di Sardegna (“The Evening Post”, 21 aprile 1840).
Vivissima fu in Pietro D’Alessandro l’ammirazione per il popolo americano che, rispetto ai corrotti europei, era «meglio educato, e più morale ad un tempo e liberissimo» e gli appariva come una «grande e unita famiglia, se non tenuta insieme da affetto e amore reciproci, almeno alleata in un comune interesse e dall’esperienza che il bene di tutti coincide con il bene dell’individuo» (Tuckerman 1864, 357). Ma quello della terra natale rimase sempre per lui un ricordo caro e struggente che non poteva né voleva dimenticare. Il poeta, osservando le tombe degli uomini illustri che riposavano all’ombra di un fogliame autunnale, incluse quelle degli esuli a cui la città, universalmente conosciuta come la “Culla della libertà”, aveva aperto le sue braccia materne, con animo infiammato esclamava (1835, 14):
Tu pur così, da la tua polve illustre,
Italia mia, risorgerai! Né ‘l ferro
Che ti vendea; né la iattanza stolta
Di popoli fratelli, o le malnate
Ipocrite lusinghe, onde ti pasce
Cui sol tradirti ed avvilirti giova,
T’avran redenta mai. Solo ne’ figli
Rabbia di tue sventure, odio virile
A lo straniero tiranno, e quelle polvi
Che gloriose nel tuo seno accolte
Fremono amor di patria, uniche queste
Da l’ozio vil t’evocheranno a vita
Nei dieci anni che visse negli Stati Uniti, Pietro D’Alessandro tornò in Sicilia varie volte e definitivamente nel 1843, quando si sposò e divenne proprietario terriero ma continuò a dedicarsi agli studi di letteratura. Durante il Quarantotto, come capo ripartimento del ministero degli Esteri diretto dall’amico Mariano Stabile, si guadagnò la stima dei leader della rivolta. Tornato sul trono Ferdinando II, pur non essendo nella lista dei proscritti, scelse di nuovo di andare volontariamente in esilio, approdando a Malta al seguito di Ruggero Settimo di cui divenne segretario e confidente. Gli verrà riconosciuto il merito di aver raccolto e preservato la corrispondenza del ministero degli Esteri successivamente pubblicata (Sicilia e Piemonte nel 1848-49, Roma 1940). Morì nel 1855.
Sconfitta la rivoluzione, dopo un breve soggiorno a Malta e deluso dal comportamento degli esuli in quell’isola, trovò rifugio in America anche Antonio Lanzetta, un commerciante nativo di Palermo che aveva combattuto prima a Messina, guadagnandosi l’elogio solenne del Parlamento e il grado di capitano di artiglieria, e poi aveva partecipato alla difesa di Palermo e Trapani. Lanzetta si stabilì a New Orleans, dove allora risiedeva la comunità italiana più numerosa e meglio organizzata, composta anche da molti meridionali che erano cominciati ad arrivare nel periodo del possesso spagnolo. Lanzetta trovò impiego in un faticoso e non precisato lavoro manuale che lo costringeva a svegliarsi ogni giorno prima dell’alba, ma che gli consentì di inviare un sostegno ai familiari rimasti in indigenza e persino di aiutare qualche compagno in difficoltà. Nel 1854 allo scoppio della guerra di Crimea, si trasferì a Marsiglia in attesa del momento propizio per rientrare in Sicilia, ma morì a causa del colera (Guardione 1869, 96-97).
Espatri e deportazioni proseguirono anche negli anni successivi alla restaurazione dei Borbone sul trono di Napoli. Domenico Minnelli nato a Palermo nel 1812, era figlio di Pietro uno dei nove carbonari fucilati nel gennaio del 1823, laureato in legge e cancelliere della Gran corte civile. Durante il Quarantotto, fu membro del Primo comitato di guerra e marina e segretario della sezione amministrativa del Comitato generale. Per i preziosi servigi svolti prima della rivoluzione, ottenne da Ferdinando non solo il perdono ma anche la possibilità di riprendere l’incarico presso la corte civile. Successivamente fu uno degli organizzatori dell’infelice tentativo insurrezionale alla Fieravecchia del 27 gennaio 1850 e, condannato a morte, trovò un passaggio gratuito su un mercantile americano. Qualche tempo dopo, lo raggiunse in America il fratello minore Vincenzo, anch’egli coinvolto nella congiura della Fieravecchia e che si dice si fosse nascosto per diciotto mesi nella catacombe. Nonno del grande regista Vincente (FOTO 4), Vincenzo Minnelli fu insegnante di musica e compositore e si stabilì prima a Delaware in Ohio, dove conobbe la moglie Nina Picket e divenne cittadino americano, e poi a Chicago[4]. La Library of Congress conserva alcune sue composizioni tra cui l’inno Thou, Oh! Glorious Queen of Nations (Chicago 1863) dedicato a Garibaldi e alla ritrovata libertà italiana. Domenico a New York si affiliò alla massoneria, esercitò la professione di maestro di scuola e fu segretario e tesoriere del Garibaldi Fund Commitee, presieduto dall’esule piemontese naturalizzato americano Giuseppe Avezzana, e di cui facevano parte anche P. Piatti, M. Nanni, A. Magni, G.B. Sanguinetti, G. Gandolfo e R. Ancara. Il comitato organizzò conferenze e adunate e aprì liste di sottoscrizioni presso i maggiori quotidiani cittadini per sostenere la campagna del milione di fucili richiesti da Garibaldi. Minnelli ricevette personalmente i ringraziamenti del generale per l’opera svolta a favore della causa italiana con l’invito a continuare perché l’impresa dell’Unità non era stata ancora completata (“The New York Times” 13 dicembre 1860). Il palermitano fu membro anche del Commitee of the Fraternity of all Nations, un’organizzazione che riuniva esuli e patrioti di tutte le nazioni. Nonostante le richieste di assumere incarichi nel nuovo governo italiano, Domenico Minnelli, che si era sposato e aveva stabilito solidi legami nella terra d’adozione, scelse di non rientrare in Italia. Vittorio Emanuele II lo insignì del titolo di Cavaliere, morì nel 1873 (“The Buffalo Commercial”, 18 febbraio 1873).
La proclamazione del regno d’Italia non mise fine all’emigrazione politica negli Stati Uniti ma, rispetto al passato, non si trattò più di un esodo in prevalenza forzoso bensì di un esilio volontario da parte dei delusi, per vari motivi, dall’esito che stava avendo il processo di unificazione nazionale. Il generale virginiano Chatham R. Wheat, che aveva combattuto con le camice rosse in Campania, chiese e ottenne da Garibaldi il permesso di reclutare i prigionieri dell’esercito borbonico ritenendo ormai inevitabile, dopo l’elezione di Lincoln, l’inizio delle ostilità nel suo paese. Tra dicembre e i primi mesi del 1861, circa 1800 persone per sfuggire l’internamento o non sopportando di subire discriminazioni per essere inseriti tra le truppe sabaude, preferirono emigrare e furono trasportate a New Orleans e avviate alle formazioni militari in allestimento nella Louisiana. Successivamente, nell’ambito della riorganizzazione delle truppe confederate, la maggior parte di essi fu raggruppata in un’unità di effettivi quasi tutti italiani che, a ulteriore conferma dell’immensa fortuna di cui il generale nizzardo godeva oltreoceano, fu denominata Garibaldi Guard – Italian Battalion Louisiana Militia ma poi, a causa delle comprensibili proteste degli ex militari borbonici, fu rinominata Sixth Regiment European Brigade. Sin dall’inizio della guerra civile, il ministro plenipotenziario in Italia George Marsh e i consoli americani furono tempestati di richieste di arruolamento nelle truppe nordiste da parte dei reduci delle guerre risorgimentali, tra cui molti dei picciotti siciliani che avevano seguito Garibaldi fino in Aspromonte. Il governo dell’Unione, pur desideroso di accogliere aiuti dall’estero, non ritenne però opportuno aprire liste di arruolamento ufficiali o pagare le spese di viaggio ai volontari; tuttavia, attraverso sussidi e passaggi gratuiti su navi mercantili, i consolati facilitarono l’emigrazione oltreoceano degli ex garibaldini certi che si trattava di persone non troppo gradite al governo italiano. Gli italiani furono arruolati nella Garibaldi Guard facente parte del 39th New York Volunteer Infantry Regiment, che comprendeva altre dieci divisioni di volontari stranieri. La Garibaldi Guard, che esibiva la bandiera italiana usata da Garibaldi a Roma nel 1849, rimase in servizio dal 28 maggio 1861 al primo luglio 1865 (Marraro 1945; Rebagliati con Cicliot 2008)..
Tra i volontari italiani dell’esercito unionista si distinse il nobile trapanese Enrico Fardella di Torrearsa. Nato nel 1821, aderì insieme al fratello maggiore Vincenzo alla rivoluzione del 1848, partecipando a Messina all’assalto della fortezza di Real Basso. Arrestato per aver sostenuto gli insorti in Calabria, in cambio della grazia fu costretto a lasciare il paese. Vagò esule tra Genova, Nizza e Londra, combatté nella guerra di Crimea al comando di un reggimento della cavalleria ottomana sotto il controllo inglese e, dopo lo sbarco dei Mille, tornò in Sicilia unendosi alla divisione del generale Enrico Cosenz, con il grado di colonnello. Fece infine parte per un breve periodo del governo sotto la dittatura di Garibaldi. Anch’egli si mostrava deluso di come stava avvenendo l’unificazione del paese, della rinuncia a Roma e della dissoluzione delle milizie garibaldine: «Egli disdegna la nuova vita e rimpiange il ‘giorno del fuoco’ che ormai era spento quasi del tutto, perché non si parla di stati e di statini, non si osservano situazioni di forza, non si parla di rapporti e di castighi» (De Stefano 1934, 1330). Nell’aprile del 1861, Torrearsa rassegnò le dimissioni dall’esercito italiano e, qualche mese dopo in compagnia della moglie, dei figli e di un altro garibaldino siciliano Giovanni Polizzi, approdò in America. Esibendo le lettere di referenze di re Vittorio Emanuele, dell’ambasciatore italiano e del generale Avezzana, il nobile siciliano si presentò per arruolarsi nell’esercito regolare dell’Unione ma, non essendoci disponibili incarichi per ufficiali di alto rango, il generale Winfield Scott gli consigliò di unirsi ai volontari di New York. Torreasa, assistito da alcuni connazionali, si occupò del reclutamento, dell’organizzazione e dell’addestramento del 101th New York Infantry Regiment (FOTO 5), conosciuto come il reggimento dei “Lost Children”, per la varietà della sua composizione etnica, che entrò in servizio attivo nel febbraio del 1862 e fu assegnato all’armata del Potomac del generale McClellan. Successivamente, gli fu affidato il comando dell’85th New York Infantry Regiment. Fardella, catturato durante la battaglia di Plymouth, per quattro mesi restò prigioniero nel carcere di Andersonville e, dopo tre anni di servizio, il 13 marzo del 1865 fu congedato e ricevette da Lincoln il grado onorario di generale di brigata. Dopo la guerra visse a New York impiegandosi nel commercio e nel 1872 tornò nella nativa Trapani, di cui fu sindaco per sei anni; morì nel 1892 (Alduino, Coles 2007, 229-247). In occasione del 60° anniversario della morte, la Italo-American Association of Sicily, per mano del suo presidente l’on. Gianfranco Alliata di Montereale e alla presenza del sindaco Vincent Impelliitteri, originario della provincia di Palermo, donò un busto del generale Fardella di Torrearsa alla città di New York (FOTO 6).
L’”eroe dei tre mondi” Enrico Fardella moriva alla vigilia dell’esplosione della protesta dei Fasci (1893-94) che infiammò l’isola e la cui sconfitta è generalmente considerata (Renda 1989; Sanfilippo 2007) uno degli eventi chiave che hanno trasformato l’emigrazione siciliana in un fenomeno di massa. Se negli anni Ottanta la media annuale degli espatri isolani superava di poco le quattromila unità, alla fine del decennio successivo essa aveva superato le 25.000 unità per raggiungere le 50.000 all’inizio del nuovo secolo. Nel 1881, trecentotrenta siciliani sbarcarono negli Stati Uniti, vent’anni dopo ne arrivarono oltre 30.000, in grande maggioranza provenienti dalle campagne (SVIMEZ 1954, 45-55). Lavoratori ed esuli siciliani misero il ritorno in patria come la fine ideale del loro progetto migratorio. Se per i primi l’emigrazione non fu quasi mai una fuga disperata da un destino avverso, ma piuttosto una risorsa, pur dolorosa, per integrare gli scarsi guadagni e superare i momenti di crisi (Cicciò 2009), anche per i secondi l’espatrio non deve considerarsi un fallimento o una vicenda rinunciataria, ma «una categoria operosa e vitale e addirittura una delle figure del canone letterario che crea la nazione, attraverso la memoria degli avvenimenti che si innestano nel processo di consolidamento delle componenti dell’identità nazionale […] La nostra ipotesi è che l’esilio ne costituisca uno degli strumenti di produzione simbolica e gli esuli uno dei veicoli attivi» (Bistarelli 2011, 39).
[1] Lettera di John Quincy Adams al governatore del New Hampshire W. Plumer, Londra 17-01-1817, Gilder Laherman Collecion, consultabile online in www.gilderlehrman.org/
[2] Puntuali e accurate analisi della storia e dell’attualità degli Stati Uniti espressero Pietro Lanza di Scordia (1836; 1842, 185-190), Vito D’Ondes Reggio (1857), Francesco Ferrara (Lazzarino del Grosso 1990) e Michele Amari, autore della prefazione all’edizione del 1856 della Storia dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America di Carlo Botta. Solo la questione della schiavitù adombrava la generale ammirazione che gli intellettuali siciliani mostravano nei confronti della giovane repubblica (Ventura 1860, 133-138).
[3] D’Alessandro a Cassaro, Boston 11-06-1835, Morelli a Cassaro, Philadelphia 24-09-1835 e Morelli a Cassaro, Washington 6-12-1835, in Archivio di Stato di Napoli, Ministero degli Esteri, 1806-1860, b. 2412.
[4] World Heritage Encyclopedia, consultabile online in www.nationalpubliclibrary.info.
Sebastiano Marco Cicciò
fonte
I pionieri dell’emigrazione siciliana negli Stati Uniti: gli esuli del Risorgimento.