I Proverbi dell’antica Terra di Lavoro (III parte) Alimentazione
5. IL VINO
Tra le bevande esso occupava certamente il primo posto perché un buon bicchier di vino fa campare cent’anni; si dice infatti: «’U vino fa sangue», al che qualche malizioso sfaticato volle aggiungere: «E ‘a fatica fa jettà ‘u sangue!» (E la fatica fa buttare, gettare, il sangue).
Si vuole poi qui ricordare l’altro detto scherzoso, pronunciato quasi in forma di brindisi in nome di San Biagio, il quale potrebbe qui aver relazione con chi alza il gomito, perché protettore della gola, ma forse più semplicemente per una questione di rima: «A nomme ‘e Santu Biase, chisto é ‘u primmo ca ce trase!» (Si noti infatti, Biase/trase; e “chisto” é naturalmente il primo bicchier di vino che entra in gola). In nome di San Biagio, questo è il primo che ci entra (trasire dal lat. trans-ire).
Il vino era anche un ottimo medicinale contro il catarro. Si consigliava infatti, tra il serio e il faceto: «Vino c’u carro, palate cu ‘a varra» (Vino con il carro [molto]; percosse con nodoso bastone). Carro rima con varra.
Da ricordare infine anche che «’U vino ‘nt’a votte nun dice niente, ‘nt’a panza fa ammuìna» (Il vino nella botte non dice niente, nella pancia provoca disordine).
6. LA CARNE
Ai maccheroni e alla carne fa riferimento il seguente detto: «È ggiuta ‘a carne ‘a sotto e i maccaruni ‘ncopp’, che corrisponde all’altro: «I càuri fore e i friddi rénto», detto che si pronuncia quando, per esempio, si dà a qualcuno una cosa che non gli spetta e viceversa non si dà a chi spetta. I caldi fuori e i freddi dentro.
C’è un curioso detto assai stringato: «Cchiù carne ô monaco» (più carne al monaco). Quando a tavola, tra amici, qualcuno non vuole la sua porzione di cibo, questo detto è pronunciato da chi quella porzione desidera per sé. Quindi, letteralmente, il detto significa: più carne (si dia) al monaco; più carne, cioè la carne in più. Perché “al monaco”? Forse con riferimento al fatto che al monaco questuante o cercante, la gente dona il di più.
«’A carne triste, manco Cristo ‘a vô». La carne triste, nemmeno Cristo la vuole. Da notare la rima al mezzo tra “triste” e “Cristo”. Nemmeno Cristo che pure é l’esempio più nobile di moderazione nel mangiare, accetterebbe una carne “non buona”.
Alla base della alimentazione di una famiglia per una intera annata c’era il grano per il pane e il maiale che forniva vari pezzi di carne: prosciutto, ventresca, logna, salsiccia, oltre a sugna e lardo. Da ciò il detto augurale: «Pozz’esse’ acciso ‘nu puorco pe’ casa!» (Possa essere ucciso un porco per casa).
7. LA FRITTURA
Non manca qualche detto che si riferisce alla frittura di pesce: «Frivo ‘u pesce e guardo ô jatto», cioè: friggo il pesce e guardo il gatto nel timore che questo se lo mangi. E ancora: «Ô sfrive’ siénti addore»: dallo (letteralmente: allo) sfriggere, senti l’odore, che si pronuncia in tono piuttosto minaccioso a voler dire: “Adesso, te ne accorgerai!”.
8. GLI ORTAGGI
Riguardano gli ortaggi un paio di detti: in tono un po’ contrariato, si dice: «Ma mo’ vuléssemo mettere l’agIio cu ‘a cepolla?» (Ma ora vorremmo mettere l’aglio con la cipolla?), volendo significare che non si debbono mettere sullo stesso piano due cose diverse.
Si accenna poi a verdura “scaruta”, preparata cioè già da tempo e quindi non più buona da mangiare, nel detto: «Dio ne liberi ru pezzente resagliuto e ra menestra scaruta», dove “menestra” sta in generale per “verdura”: Dio ne liberi dal pezzente risalito e dalla minestra scaduta. (continua)
Antonio Martone
(da Il Sidicino – Anno XII 2015 – n. 03 Marzo)
fonte
http://www.erchempertoteano.it/Teano/Tradizioni/Detti_pop/Detti_pop013.htm