IL 30 SETTEMBRE, FINALMENTE, ISERNIA SI SOLLEVA
RICERCA EFFETTUATA DAL LIBRO “ISERNIA AL CADERE DEI BORBONI- Fatti di rivoluzione e reazione nell’autunno ddel 1860 ” di Gabriele Venditti
Da pag.41 A 52
TANTO TUONÒ CHE PIOVVE. ISERNIA,
30 SETTEMBRE 1860 Il 30 settembre, finalmente, Isernia si solleva. È ancora presto quando si diffonde per la Piazza la notizia dell’arrivo della gendarmeria di De Liguori a Venafro; tuttavia nessuna febbrile agitazione prende, al momento, la città ancora immersa nel torpore della domenica mattina. La consegna, per tutti, e di non muoversi senza che sia dato l‘ordine (La narrazione degli eventi del giorno 30 settembre viene compiuta avendo riferimento alle risultanze processuali che si leggono in ANONIMO, La quistione di Isernia sui movimenti popolari (30 settembre e 5 ottobre 1860) confutata – Epitome desunto dall‘intero Processo, Torino 1864.). Provando a mostrare i muscoli, Venditti riunisce la Guardia Nazionale, per una rivista che, transitando lungo lo stretto budello cittadino, faccia vedere quanto poco convenga ai reazionari un’azione di forza. Ma i muscoli esibiti risultano atrofici: si è già avuto modo di dire che, davanti ad un perplesso Ghirelli, sfilano in pochi, alle spalle del facente funzioni Francesco Cimone. Dietro la sfilata, ghigna invece il guardia nazionale don Antonino Melogli; è in abiti borghesi, e segue il corteo degli armati a breve distanza, deridendone platealmente numero e peso. Suo fratello Gabriele, capitano della Guardia, sotto pretesto di malattia si è dimesso dal suo ufficio, pur presenziando in buona salute agli appuntamenti pubblici. Quella stessa mattina, il cavaliere De Lellis, accompagnato da suo figlio Vincenzo, va da Giacomo Venditti a prefigurargli, a mezze parole, il dramma prossimo venturo e a offrirgli la propria carrozza per un commodus discessus verso il feudo di Macchiagodena, insieme al maggiore Ghirelli. Il sottointendente, dietro i toni melliflui del cavaliere, subodora l’insidia e rifiuta; invita poi don Gennaro ad essere davvero utile alla città: che piuttosto vada da monsignore a spingere perché mantenga, colla sua autorità ed influenza, il popolo nella tranquillità. Intanto, piano, cresce il fermento in città. Il cameriere personale del vescovo Saladino, Giuseppe Di Pasquale, viene visto uscire ai Cappuccini a bordo di un galesso, in direzione Venafro (Processo verbale dell‘interrogatorio di Ferdinando Boccia reso al giudice istruttore Moschitti, Napoli 24 luglio 1861. ASCE, processi politici, b. 8, f. 75, c. 60v.). Si assiste a un movimento di contadini che dalle campagne risalgono verso l’abitato. Don Vincenzo Cimorelli inizia ad allertare i suoi: chiama il colono Cosmo Gentile, Nazzaro, e gli dà uno dei suoi fucili; gli dice di armarsi e di mobilitare tutti gli uomini di cui ha il controllo. Lo stesso fa con Felice Corrado, Mussone, che viene bruscamente richiamato al suo dovere: «Ahi féssa! Accuscì te sta’? Mó è tiembe, nen te vuò armà? Mó vìre che succere!»(Deposizione del canonico Silvestro Pettine, in Epitome cit., p. 79. Il verbalizzante riporta un dialetto solo accennato: «Fessa, così ti stai! Mo‘ è tempo, non ti vuoi armare? Mo’ vedete che succede».) A sera, più volte i contadini vanno sotto il palazzo del cavaliere De Lellis chiamando Don Gennaro a gran voce, perché si affacci, dia armi e munizioni; soprattutto faccia di nuovo calare le colonne dove tiene la catena di ferro per privilegio concessogli dal re (La richiesta, apparentemente incongrua, merita un chiarimento. Il privilegio, che trovava rappresentazione nella pesante catena sospesa tra due semicolonne ogivate, poste ai lati del portone d’ingresso, veniva concesso alle famiglie proprietarie di palazzi in cui era accaduto che il re e il suo seguito avessero dimorato facendo sosta nei loro viaggi attraverso il regno. La famiglia ospite, attraverso il privilegio concesso, dispensava, per proiezione del potere regio di concedere grazia, l’immunità per quanti, perseguitati dalla giustizia, fossero riusciti – oltrepassata la catena – a rifugiarsi nel palazzo. Fortemente simbolica, pertanto, è la richiesta, dei contadini che si apprestano a dare ferro e fuoco alla città, di ripristinare la catena: al pari delle carte bianche concesse dal sovrano, l‘immunità rappresentata dalla catena è il segno visibile della possibilità di essere scriminati pur compiendo delitti.). Sono questi i contadini che Cosmo Criscuoli, che ha lo spaccio di maccheroni poco distante da palazzo De Lellis sente gridare Viva Don Gennaro! (Deposizione di Raffaele Criscuoli, in Epitome cit., p. 64). Emergerà nel processo di Santa Maria, per corale testimonianza, che i cafoni vengono pagati due carlini al giorno e che il denaro viene tratto, con sottile ironia, da un fondo costituito, per fini di patria sicurezza, a metà settembre dai maggiorenti cittadini e amministrato dal signor Achille Belfiore. Sono segnali che vanno in un’unica direzione, e dovrebbero spingere all’allarme, ma Francesco Cimone contravviene alle parole di Ghirelli, che quella mattina, finita la rivista, gli aveva dato consegna di mantenere mobilitato per tutto il giorno un intero plotone della Guardia Nazionale, oltre ai preposti ai due posti fissi di guardia, a capo e piedi della città. Il facente funzioni di capitano, infatti, davanti agli uomini del 3° plotone della Guardia che, nel pomeriggio, va formandosi in esecuzione dell’ordine del maggiore garibaldino, non soltanto nega le munizioni a quei pochi che, temendo dover mettere presto mano alle armi, le chiedono(Deposizione del canonico Silvestro Pettine. Ivi. p. 90.), ma comanda di sciogliere l’adunata senza ammettere contraddittorio: «Non c’è bisogno dell’intero terzo plotone:rimangono solo le guardie che hanno il turno ai presidi. Gli altri si possono ritirare a casa»; alla guardia Vincenzo Pettine che gli chiede più volte il perché comandi il ritiro, risponde piccato: «Vi dovete ritirare perché così comando io.»(Processo verbale dell‘interrogatorio di Vincenzo Pettine davanti al giudice istruttore Carbone, Isernia,3 maggio 1861. ASCE, Processi politici, b. 8, f. 74, c. 9r.) Più tardi Cimone si presenta al posto di guardia in compagnia del primo tenente Belfiore e del redivivo Melogli, in abiti borghesi. Quando vengono visti, il nazionale Antonio Milanese fa rapporto circa il fatto che contadini armati vogliono prendere d’assalto il posto di guardia per disarmarne i piantoni; al che Francesco Cimone se ne esce con un «Non v’incaricate, perché il popolo d’Isernia non è capace di fare ciò che dice»(Deposizione di Felice Antonio Carfagna, in Epitome cit., p. 89.). Di fronte alle insistenze del milite, perché si tolgano almeno i ventiquattro fucili che sono nelle rastrelliere, Gabriele Melogli, con l’indifferenza di chi non ha più responsabilità di comando, dice: «Se li volete togliere, li togliete; se non li volete togliere, fate come vi aggrada.»(Deposizione di Gennaro de Matteis, Ivi, p. 102.) Cimone, reinvestito della questione, non offre migliore soluzione che invitare Milanese a recarsi dal sottointendente Venditti, affinché lo convinca, per meglio tutelare l‘ordine pubblico, a disporre la chiusura del presidio, lo scioglimento del drappello e la sostituzione di esso coi garibaldini di Ghirelli. Quello che il popolo di Isernia è capace di fare, si vedrà drammaticamente di lì a poco. A Vincenzo Pettine che, smobilitato, è sulla via di casa, quattro contadini dicono a muso duro: «Prima ca fa notte, =ste quatte puparuole rusce, anna zumbà pell’aria!»(Processo verbale dell‘interrogatorio di Vincenzo Pettine cit. Il riferimento è al colore rosso garibaldino.) A Gennaro De Matteis, uno dei nazionali rimasti al presidio, si avvicina invece un contadino che, in confidenza, lo avverte del pericolo che si corre, quella sera, a voler difendere Italia e Vittorio Emanuele: «Gennà, tu sci patre re famiglia, lassa perde e cammina vavatténne, ca ammassera so’uaje; e se nen ce crire, vie’ a veré alla Fiera quanta ne sémme.»(Deposizione di Giovanni Paradisone. Ivi, p. 103. Nell‘improbabile, aulico italiano del verbalizzante l’ammonimento del contadino è riportato così: «Gennaro, tu sei padre di famiglia, ritirati perché sono guai questa sera per la guardia; e se non mi credi affacciati sopra la Fiera e vedi quanto popolo si è colà riunito. ») È in questo contesto che matura l‘ultima dissennata idea del sottointendente Venditti che, a corto di armati, fa rilasciare i quattordici detenuti del carcere dell’Annunziata, pensando maldestramente di poter conquistare i galeotti alla causa nazionale restituendo loro la libertà, ma «… questi, prima ubbriacati, fecero pattuglie pel buon ordine; dappoi vista folta la popolazione, svelarono i timori del sottintendente, e ad essa s‘unirono.» (GIACINTO DE SIVO, Storia cit., p. 282.) Nella squadra c’è Celestino Altopiedi, quello del furto del bagaglio. Tra breve lo vedremo accanirsi con particolare livore contro Cosmo de Baggis. In questo, il vescovo Saladino attende il ritorno da Venafro del cameriere Giuseppe Di Pasquale. Anche il vescovato, quella notte, è porto di mare. C‘è Checco Di Gneo che sta a divertirsi nella bottega di Ferdinando Buttari, sotto al palazzo vescovile «… e vedendo un andare, venire ed uscire di contadini, si fece animo andare in detto palazzo, e contemporaneamente usciva dalle stanze del vescovo il penitenziere canonico Giura (…) Scendendo rivolsegli queste parole: “Signor canonico, cos‘è questo rumore; vedo il mondo così imbrogliato” Il canonico rispose: “Qualche cosa vi deve essere stasera.” Uscendo dall’episcopio, accompagnò detto canonico Giura, scongiurandolo tornare dal vescovo e pregarlo trovar modo come raffrenare i villani. Il canonico replicò: “Giuseppe, io non ci vado, perché tu sai che monsignore è cazzuso e s’inquieta,” proseguì oltre e l’accompagnò fino a casa.»(Deposizione di Giuseppe di Gneo, in ANONIMO [ma Stefano Jadopi], La quistione di Isernia sui movimenti popolari (30 settembre e 5 ottobre 1860) confutata – Epitome desunto dall‘intero Processo, Torino 1864, p. 113.)
Cazzuso, benché ottuagenario, Saladino viene da tutti riconosciuto come colui che materialmente accende la miccia, dà l’avvio alla reazione. Il ritorno del suo cameriere da Venafro, con la notizia che l’indomani, primo di ottobre, la gendarmeria borbonica arriverà finalmente in città, con cavalli, salmerie e due pezzi di artiglieria da campagna, è quanto da tutti si attende.
«In questo frattempo e propriamente verso un’ora di notte, torna da Venafro il famoso cameriere Don Peppino di Pasquale e seco porta un militare Borbonico. Quale fu la prima di costui visita? Discorre con quel Don Vincenzo Cimorelli il quale quel giorno era stato osservato ilare e si era dato da fare per armare taluni contadini ai quali aveva dato del denaro. Dopo questo abboccamento passa quasi in trionfo tra i contadini che si erano assembrati innanzi all’Episcopio a’quali fa noto il prossimo arrivo della truppa.» (Sunto del processo a carico di Vincenzo Di Ciurcio e altri, redatto dal giudice istruttore Carbone, 20 agosto 1861. ASCE, Processi politici, b. 6, f. 62, c. 1r)
Millantando il prossimo ritorno di Francesco a Napoli e la palingenetica ondata che ricaccerà lo scomunicato Garrubaldo al di là del Faro, Saladino, con la mano di Peppino Di Pasquale, dà il via ai quasi settecento cafoni armati di ronche, falci e pochi fucili che, a notte, percorrono la città da Largo Fiera fino alla Sottintendenza. A guidarli, pare addirittura a cavallo («La gendarmeria a cavallo s‘immedesima col popolo. Vincenzo di Ciurcio sta in mezzo di loro.» Ibidem.), Vincenzo Di Ciurcio; quel Corrado Mussone svegliato alla reazione da Don Vincenzino Cimorelli; qualche Crudele, tra cui quell’Angelo detto Ciocio che cammina fiero del suo ferro: c’è chi lo sente dire orgoglioso che la carabina gliel’ha data don Gennaro De Lellis con la consegna di mietere teste suócce suócce. (Mietere il grano a soccio come italianizzato nei verbali del processo. Suócce significa pari, uniforme. Mietere suócce suócce significa fare lavoro accurato di taglio, tanto da rendere non più individuabile la base della spiga.) In strada, a sporcarsi coscienze e fedine penali, ci sono cognomi senza blasone; i notabili, buoni a tirare il sasso nascondendo la mano, sono al sicuro, guardano al più dietro i vetri. Nota con amarezza Jadopi, che quella notte
«…le sole abitazioni di Gennaro De Lellis, Vincenzo Cimorelli, Francesco Cimone, Achille Belfiore, Giovanni Canonico Penitenziere Giura, e quella de‘ fratelli Melogli venissero tutelate dagli stessi insorti.» (ANONIMO [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d‘Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 20.)
C’è plenilunio e si vede bene anche senza torce. L’orda procede come un fiume che abbia rotto gli argini, si riversa in piena lungo lo stretto budello che, ab urbe condita, attraversa Isernia correndo da nord a sud, da capammonde a capabballe. Si picchia ai portoni dei liberali, si minaccia, si chiedono armi e munizioni. L‘occasione, va da sé, fa l‘uomo ladro.
«L’osteria di Cosmo Tamburo viene investita. Gittate a terra le porte, la folla irrompe contro di quattro Guardie Nazionali di Civitanova, che vi si erano rinchiuse, le quali furono ferite e spogliate del meglio che avevano. Si passa all’assalto della casa del Sig. Alfonso Abeille. Il portone cede sotto gli urti furibondi; l’Abeille mette in salvo i suoi giorni fuggendo sui tetti: ogni masserizia è data al sacco ed al fuoco. Si procede al sacco dell’abitazione del Signor Giuseppe Pietrantonio, il quale scampò per miracolo la vita. Con l’inoltrare della notte il tumulto cresceva in ferocia ed intensità.» (ALFONSO PERRELLA, Effemeride della Provincia di Molise, 1891, vol. II, p. 153 e ss.) Quanti non hanno deviato lungo la strada infilandosi nel reticolo dei vicoli, a divellere porte e razziare il razziabile, regolando antichi conti e private vendette, giungono alla fine dell’abitato, davanti all’ex convento dei Celestini, sede della Sottointendenza( «Occupa la Sotto-Intendenza il locale del soppresso Monistero dei Celestini, oggi proprietà del sig. Laurelli, e la Provincia ne paga annui ducati 210 di pigione. Nel pianterreno è stabilito il fondaco de‘ sali, che provvede di generi di privativa i cinquantuno Comuni, i quali formano il Distretto del Fondaco d‘Isernia: ed il Real Tesoro paga al suddetto proprietario annui duc. 18 di pigione.» STEFANO JADOPI, Isernia, Isernia 2009, p. 54 (ristampa a cura di F. Cefalogli della monografia pubblicata parzialmente in Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato da Filippo Cirelli, vol. XIV, fasc. 1, Molise, Napoli s.d. [1858].) Qui, nel pomeriggio, è convenuto un comitato di salute pubblica per decidere il da farsi, composto da Venditti, Ghirelli, Don Cosmo De Baggis, il giudice Boccia e Francesco di Paola Jadopi, figlio di Don Stefano e unico Jadopi ancora in città. L’ex convento diventa una domestica Alamo. È qui che i cafoni trovano la prima risposta armata:
«Con un pugno di uomini il Ghirelli si mise in difesa del palazzo della Sottintendenza. (…) Ivi sorge un conflitto, ma i pochi Garibaldini resistono per dar tempo al Venditti di mettersi in salvo; indi, caricando alla baionetta quella massa imponente, scampano da sicuro eccidio.» (ALFONSO PERRELLA, Effemeride cit., p. 153. Vd. anche GIUSEPPE ANSIGLIONI, Memoria della battaglia del Volturno del 1° e 2 ottobre, Seconda edizione, Torino 1861, p. 21: «Il maggiore Ghirelli, postosi alla testa di un certo numero di guardie nazionali, vi oppose resistenza: alla fine fu costretto dal crescente numero dei Borbonici a doversi ritirare dentro il palazzo del governatore [sic], ove barricandosi si difese come in un ultimo ridotto. Quindi vedendosi circondare da ogni lato del palazzo, e non volendosi arrendere, operò alle 12 di notte una sortita, e poté in tal modo aprirsi una strada e condursi su Bogliano [sic], salvando in questa guisa i suoi e il governatore [sic] d‘ Isernia.»)
È lo stesso Venditti a raccontare gli eventi di quella notte, in una lettera che il 2 ottobre, da Bojano, invia al colonnello Pateras, in Casteldisangro; sa di dovere la propria salvezza a
«… un drappello di giovani risoluti [che] col maggiore Ghirelli e gli altri pochi Garibaldini colà rimasti si mostrarono pieni di coraggio estraordinario. Insieme ci aprimmo la via battendoci con la marmaglia la quale avea circondato il paese per prendermi. Per burroni e luoghi disastrosissimi ascendemmo Pettoranello e per Castelpetroso arrivammo stanchissimi a Bojano. E tra tutti meritano elogi infiniti il tenente Iacovelli e altri cinque garibaldini i quali si dedicarono alla morte per proteggere la nostra ritirata e restarono al loro posto con una ostinazione degna dei Cacciatori del Vesuvio.» (Lettera autografa di Giacomo Venditti prodotta dal colonnello Pateras al processo davanti alla Corte d‘Assise di Santa Maria Capua Vetere, 14 giugno 1864. ASCE, Processi politici, b. 10, f. 79, riportata integralmente in Molise 1860 – I giorni dell‘Unità, Catalogo della mostra storico-documentaria, Archivio di Stato di Campobasso, Campobasso s.d. [1985].)
Non tutti però riescono a fuggire. Di fronte alla Sottointendenza, c’è Palazzo De Baggis(Così ricorda il giudice Ferdinando Boccia il 24 luglio 1861, interrogato a Napoli sui fatti di quella notte: «Attaccato vivamente detto palazzo dalla furente plebe, fu giuoco forza fuggire ed egli [Boccia] con Francesco Jadopi si ricoverò nella casa di Cosmo de Baggis che resta dirimpetto al cennato palazzo.» ASCE,Processi politici, b. 8, f. 75, c. 60v.) nel quale hanno trovato ricetto gli altri membri del comitato cittadino. Quando l’orda ritrae i forconi dal convento dei Celestini, basta voltarsi per trovare un nuovo obiettivo. Così ricostruisce donna Rachele Del Duca, moglie di Cosmo De Baggis:
«Verso le ore due della sera (…) quando per questo abitato si sentivano delle grida di Viva Francesco II con qualche colpo di fucile, mio marito Don Cosmo De Baggis, ora defunto, si ritirò in casa e con esso vennero il Giudice Boccia, Don Francesco Jadopi, Don Michele Martino Majola, Don Luigi De Baggis, Giuseppe Battista ed una signora moglie di un uffiziale Garibaldino a me ignota, i quali si trattenevano con noi per quel tumulto popolare, temendo di condursi nelle case rispettive. Era verso la mezza notte e si udivano immensamente aumentate le grida anzidette ed i colpi di arma da fuoco quando, con raccapriccio, avvertimmo che si cercava di scassinare il portone dell‘abitazione da una calca di popolo, finché abbattutolo a colpi di scuri, penetrarono nel palazzo molti contadini ed a misura che ascendevano la gradinata cresceva il timore di noi tutti, non vedendo alcuna via di salvezza e ci riunimmo nella stanza da letto. »(Processo verbale dell‘interrogatorio di Rachele Del Duca davanti al giudice istruttore Manfredi, Isernia 30 ottobre 1860. ASCE, Processi politici, b. 8, f. 75, riportata integralmente in Molise 1860 – I giorni dell‘Unità, cit.)
Risulta, così, assai improbabile quanto sostenuto dall’interessato anonimo della Quistione d’Isernia, cioè che da casa De Baggis si sia provocatoriamente sparato verso la folla che si sarebbe altrimenti tenuta alle semplici acclamazioni a Francesco II.(ANONIMO, La quistione di Isernia su movimenti popolari (30 settembre e 5 ottobre 1860), s.l. s.d. [aprile 1863], pag. 23: «Dalla casa de Bagis (sic) sono tirati più colpi di fucile su l‘accalcata massa del popolo, e due individui di questo ne restano colpiti e cadono come morti.»)
«L’orda irrompe. Il De Baggis ed i suoi ospiti si restringono nella stanza da letto: il giudice Boccia e Luigi De Baggis cercano di frenare quelle furie uscendo loro incontro col simulacro della Vergine del Carmine; erano sul limitare della stanza, quando un colpo di fucile mandò in frantumi la sacra immagine, ed altre fucilate fanno cadere mortalmente Cosmo de Baggis, il Boccia e lo Iadopi.»(122 ALFONSO PERRELLA, Effemeride cit., p. 153.)
Boccia fa come il marchese di Saverny, e si salva fingendosi morto. Meno pronto è il padrone di casa: una prima fucilata la esplode contro di lui quel Celestino Altopiedi liberato solo poche ore prima; con don Cosmo ha un conto da regolare, perché lo ritiene responsabile del suo arresto, a metà settembre. Così, quando lo riconosce, gli urla: «Ahì, puorche! Tu sci quire ca gralmente me vuleva fa‘ accire!»(A verbale è: «Ah, Porco! Tu sei quello che mi voleva fucilare perché avevo rubato la posta!». Sentenza della Corte d‘Appello di Napoli, 28 luglio 1862, riportata in FRANCESCO COLITTO, Patriottismo e reazione nel Molise durante l’epoca garibaldina, in Almanacco del Molise 1984, p. 114). De Baggis è finito a colpi di scure per mano di Angelo Corrado, Muso di Zuccaro, e quel Crudele Ciocio che abbiamo visto vantarsi della propria carabina. A Francesco di Paola Jadopi viene strappato un occhio con un colpo di ronca; a vibrarlo è Pietro Mercogliano, Pelerchia, che ne conserverà il sangue finito sugli scarpitti come macabra reliquia: alla sua donna dirà: «Questo è sangue civile: è dell’occhio del figlio di don Stefano, che gli ho cavato con una roncata, e poi dopo ci abbiamo mangiato pane, formaggio e vino.» (ANONIMO [ma Stefano Jadopi], Reazione d‘Isernia, Il Giudizio innanzi la Corte d‘Assise ed i ricorsi in Cassazione, in Storia d‘Isernia al cadere dei Borboni nel 1860, s.l. [Italia], s.d., p. 23.) Tuttavia, il mostro Mercogliano – che pure avrà il non invidiabile primato, tra i cafoni di Isernia, di essere il primo condannato alla fucilazione da un tribunale militare piemontese (La sentenza, pronunciata in Campobasso, è presso l‘ASNA, Sezione militare, f. 1045, i. 1227. La notizia è tratta da GIGI DI FIORE, I vinti del Risorgimento, Torino 2004, p. 113) – è capace anche di umana compassione: mentre l’ignota donna del garibaldino subisce da altri violenza carnale, la moglie di don Cosmo è graziata proprio da Pelerchia: «A te, nen te facemme niente»(Processo verbale dell‘interrogatorio di Rachele Del Duca cit.).
Il giovane Jadopi, semivivo, viene portato al carcere dell’Annunziata; qui rimane senza cure fino al giorno dopo, quando qualcuno prova a chiedere all’onnipotente avo – si è detto prima, en passant, che Francesco, perché figlio di donna Olimpia, è nipote del cavalier Gennaro De Lellis – se sia il caso che debba essere liberato. Cosmo Ucciferri dirà che, recatosi il primo di ottobre dal vescovo per chiedere la liberazione del ragazzo, trovò in quelle stanze don Gennaro
«… ed interessandolo a tal uopo, gli fu risposto: “mò si vede quello che si deve fare, parlatene a monsignore”; e ciò disse con tanta fredda indifferenza che significava ciò che più tardi fece. Poiché cacciato dal carcere il detto Jadopi, mentre la moglie del signor De Lellis voleva riceverlo a casa per non mandare quello spettacolo a sua figlia, il De Lellis ricusò di accoglierlo, dicendo non poterlo ricevere.»(Deposizione di Cosmo Ucciferri, in ANONIMO [ma Stefano Jadopi], La quistione di Isernia sui movimenti popolari (30 settembre e 5 ottobre 1860) confutata – Epitome cit., p. 64)
Così, dopo aver peregrinato inutilmente per case di parenti, portato a braccio, quasi un Cristo di venerdì santo, Francesco Jadopi riuscirà finalmente a morire tra le braccia della madre, la sera del 1° ottobre 1860. Ecco che a Isernia la tragedia assume i toni grotteschi della farsa, in cui l’avo incrudelisce sul nipote per far dispetto al genero. Per l’omicidio, tanto efferato, del giovane Jadopi, la memorialistica antiliberale prova a fornire deboli scriminanti, alibi che non reggono; va a ricercare cause remote; percorre (superandolo) il limite della calunnia e diffamazione.
Briamonte compie lo sforzo più arduo, provando a giustificare l‘assassinio del figlio attraverso le colpe del padre:
«E qui mi è necessità intrattenermi un istante su Stefano Jadopi, onde fosse noto chi sia costui, e quali i motivi pei quali la plebe infuriò poi contro il figlio. (…) Pessime fra le triste passioni sono l’ambizione e la sete delle ricchezze. Stefano Jadopi lasciò dominarsi da entrambe, e divenne il nemico di sé e dei suoi, il flagello d’Isernia (…) Fu sindaco e prese a volgere a suo profitto i beni del Comune (…) Prese a dirigere le fabbriche del Seminario che il vescovo Saladino volle ricostruire dalle fondamenta, e l’appaltatore Luigi de Cesare, minacciato da lui della perdita dell’appalto, per non soggiacervi dové somministrargli materiali e mano d’opera per la costruzione del Casino. Divenuto ambizioso cominciò a far la corte e strisciare presso lo stesso vescovo Saladino, pretendendo pei di costui mezzi, la modesta carica di Sottindentente ad Isernia. Restò deluso. Venne il 1848, sperò cangiar fortuna col cangiar politica (…) divenne di botto liberale.» (V. M. BRIAMONTE, Cause, mezzi e fine della reazione d‘Isernia avvenuta nel 30 settembre 1860, s.l. s.d., p. 20. Alle accuse di Briamonte risponderà puntuale Stefano Jadopi, col suo Risposte a V. M. Briamonte e F. Marulli sulla Reazione d‘Isernia, pubblicato – come anonimo – nel 1862, terzo volume di una guerra editoriale giocata, a distanza, tra anonimie e alias e che avrà altri significativi episodi).
Si perviene, tuttavia, alla consapevolezza che
«(…) gli eccessi, i fatti nequitosi possono essere compianti, scusati non mai.» (Ibidem)
L‘anonimo estensore della Quistione va ancora oltre, arrivando a dire che lo stesso Francesco Jadopi, arrivato all’exitus, abbia amaramente dichiarato: «era io destinato a scontare le colpe di mio padre» (ANONIMO, La quistione di Isernia su movimenti popolari (30 settembre e 5 ottobre 1860), s.l. s.d. [aprile 1863], pag. 23.).
FINITA LA FESTA. ISERNIA, 1-3 OTTOBRE 1860 L’orribile notte del 30 settembre termina coi saccheggi e gli arresti arbitrari di quanti vengono riconosciuti come liberali. A una città che è in piazza, con le armi ancora calde in pugno, fa da contraltare una città che inizia a nascondersi, a fuggire. Di prima mattina, per declinare l’onore della reazione e delle stragi, pure il vescovo ha provato a correre via dalla città i cui animi ha pure tanto esacerbato, ma il suo calesse viene intercettato dalla folla e riportato all’episcopio. Deve essere chiaro a monsignore che non ci sono uscite comode per nessuno; che il destino sarà comune per tutti, si portino i calzoni o l‘abito talare:
«Pria ci hai posto nel fuoco e poi ci lasci. Dove moriamo noi, morite pure voi», gli cantano i sanfedisti.(Sunto del processo a carico di Vincenzo Di Ciurcio e altri, redatto dal giudice istruttore Carbone, 20 agosto 1861. ASCE, Processi politici, b. 6, f. 62, c. 7v.)
Così l’aristocrazia nera torna a riunirsi nel salotto di Saladino, che probabilmente vive l’invasione delle sue stanze come peso. Questa volta la riunione è allargata al popolo minuto, le marsine si uniscono agli stracci. C’è un movimento frenetico, da stato maggiore durante una battaglia. Testimoni dicono che Vincenzino De Lellis e Francesco Cimone portano a Saladino lettere preconfezionate che il vescovo si limita a siglare alla cieca. Tra queste, probabilmente, c’è quella che Saladino indirizza al maggiore De Liguori, che ha disertato l’appuntamento preso per il primo ottobre e resta a Venafro. Il vescovo – o chi per lui – prega ardentemente il maggiore di affrettare la sua marcia verso Isernia «dappoiché tutta questa popolazione sta in festoso movimento» e senza l‘arrivo della truppa regia, è impossibile «contenerla anche per allontanare ogni tema di eccessi.» (Lettera autografa del vescovo Saladino al maggiore De Liguoro, allegata agli atti del processo celebratori presso la Corte d‘assise di Santa Maria Capua Vetere, maggio-agosto 1864. ASCE, Processi politici, b.10,f. 79, c. 148r. Il corsivo è mio.)
Quello che Jadopi chiama efficacemente sinedrio reazionario ha tanto da fare: occorre notiziare a Gaeta; prendere contatti coi lealisti del distretto, perché si armino e si sollevino. Quanto alla città, occorre rinominare nuovi sindaci, capi urbani. Finita la festa, va ristabilito l‘ordine. Così a Venafro va – o viene mandato – pure Vincenzo Di Ciurcio, che si è tanto distinto nella notte appena passata, insieme a tale don Arcangelo Panfilo «spia borbonica incarcerata dai garibaldini e escarcerata dai reazionari» (Sunto del processo a carico di Vincenzo Di Ciurcio, cit.), che garantisca per lui presso De Liguori; ne ritorna a sera con le formali investiture, per lui, a capo urbano, e per Michelangelo Fiorda a nuovo sindaco, controfirmate dal maggiore borbonico.
Indicare Fiorda come sindaco è un’altra drittata di don Gennaro De Lellis, cui è riconosciuta fama di volpone (Deposizione di Gaetano Pincitore, in ANONIMO [ma Stefano Jadopi], La quistione di Isernia sui movimenti popolari (30 settembre e 5 ottobre 1860) confutata – Epitome desunto dall’intero Processo, Torino 1864, p. 61: «… essendo pur troppo noto che il signor ricevitore De Lellis non così facilmente faceva trapelare i suoi pensieri, essendo reputato generalmente un volpone.»): Fiorda, addirittura, è un conosciuto avversario del cavaliere, che così facendo, pur conservando le redini, può rarefare il suo coinvolgimento nei fatti della reazione (non si sa mai, questi Piemontesi, che si dice vogliano scendere a conquistarsi un regno, lo facciano davvero). Si capisce bene, così, come Michelangelo Fiorda non sia proprio felice della nomina:
«Fiorda conosciuto liberale nel 1820, per 40 anni aveva avuto agio di studiare tutte le arti di casa De Lellis, che lo voleva Sindaco, e tra perché temesse compromettersi, e tra perché il governo dittatoriale vi ravvisasse il rappresentante d’Isernia reazionario, se ne fuggì. Molti popolani però gli furono spediti dietro e così costretto per forza a tornare. Fu necessità al Fiorda per iscampar la vita divenir passivo nelle funzioni municipali» (ANONIMO [ma Stefano Jadopi], La Reazione avvenuta nel distretto d‘Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860, Napoli 1861, p. 40.)
Laltro nominato, Vincenzo Di Ciurcio, appare invece ben felice della carica acquistata. Quando il banditore Domenico Silvano viene chiamato all’episcopio alle ore ventuno, qui trova, seduto, Don Gennaro De Lellis e, in piedi, il nuovo capo urbano con diritto di alter ego Vincenzo Di Ciurcio. Il primo gli comanda di menare il bando per la città: ché tutti vadano a riunirsi alla Fiera per ricostituire la guardia urbana. Quando Silvano chiede chi lo comandi, De Lellis guarda l’utile idiota che gonfia il petto accanto a lui e dice: «A nome del comandante Di Ciurcio!» (Deposizione di Domenico Silvano, in ANONIMO [ma Stefano Jadopi], Epitome cit. p. 68.)
È sempre Di Ciurcio che sottoscrive con segno di croce, da utile testa di legno, una missiva a Francesco II in cui relaziona sui fatti d’Isernia e che costituirà piena, seppure inconsapevole, confessione nel processo che si celebrerà per i fatti di Isernia:
«A Sua Sacra Real Maestà Francesco II (…) il contadino Vincenzo di Ciurcio, alias Pagano, d’Isernia fedelissima, suddito divotissimo ed attaccatissimo alla Maestà Sua (…) l’espone che egli ha mossa la popolazione e messosi alla sua testa (…) si assaltò li 30 a sera il corpo della Guardia Nazionale (…) Il giorno seguente, 1° ottobre, la popolazione distrusse qualche individuo della Maestà sua. Furono arrestati i corrieri e le corrispondenze dei garibaldini da esso esponente, il quale fece pure aprire il commercio dei generi per Capua, stato impedito dai detti garibaldini onde far morire di fame i regii; ripristinò gli stemmi e la bandiera borbonica; attivò il servizio urbano al numero di circa mille scelti tra i migliori pagando grana venti il giorno per ognuno di denaro tolto dalla cassa che si sapeva essere stata fatta per il mantenimento del Corpo della Guardia Nazionale.» (Missiva del Capo urbano Vincenzo Di Ciurcio, 11 ottobre 1860, integralmente riportata in ANONIMO [ma Stefano Jadopi], Risposte a V.M. Briamonte e F. Marulli sulla Reazione d‘Isernia, Torino, 1862, p. 48.)
Ma le nuove magistrature non ingessano l‘anarchia popolare, che ha modo anche il primo ottobre di compiere eccessi. A farne le spese il meschino Falciari – quello della pubblica minzione sui gigli del Borbone – che, arrestato a Pesche, viene ricondotto a Isernia in catene, subendo lungo il tragitto un raccapricciante processo officiato dalla sua stessa scorta, allargato alla giuria popolare di quanti lo riconoscono al passaggio e infieriscono, e che si conclude con decisione davvero inappellabile: Falciari è
«(…) catturato e, stretto fra ritorte di legno, vomitava sangue. Trascinato in sulla piazza fu martoriato, impiccato ad un lampione, e si giunse (orrore a dirsi!) a recidergli le ascose membra virili e riporgliele in bocca!» (ANONIMO [ma Stefano Jadopi], La Reazione cit., p. 27)
Il cannibale Michelangelo Iadisernia, Bruttofiasco, leccando la baionetta con cui ha eseguito la sentenza, esclamerà: «Quant‘è saprìte ru sanghe re ru figlie re mastre Titta!» (Processo verbale dell‘interrogatorio di Giuseppe Di Gneo davanti alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, 18 maggio 1864. ASCE, Processi politici, b. 10, f. 79, c. 84v. A verbale c‘è l‘improbabile:
«Quanto è sapurito il sangue del figlio di don Titta»). Un altro dei carnefici, Pasquale Tomasi, detto il Bojanese, continuando nell’allegoria antropofaga – che da Alberto Mario è malinterpretata e da pièce di teatro granguignolesco viene assunta per vera (ALBERTO MARIO, La Camicia Rossa, Torino 1870, p. 126 (il numero di pagina è dato avendo riferimento all‘edizione in e-book, Trabant, Brindisi 2009). «Nel tumulto d’Isernia, disse Nullo, mutilarono orribilmente gli avversarî presi. Un cafone vantava lo squisito sapore del lombo di don Peppino cotto alla bragia.»; in nota, lo stesso Mario scrive: « Questo fatto ed altri parecchi dell’istesso genere, che allora correvano di bocca in bocca, vennero poi riconfermati nel processo che di quella reazione fu incoato davanti alla Corte d’assise di Santa Maria di Capua (Giugno e luglio 1864).» Mancano tuttavia evidenze processuali di atti di cannibalismo commessi in Isernia.) – fu sentito menare il bando, appeso Falciari, «Chi ze vo‘ accattà la ventresca re ru figlie re mastre Titta, ca sta appise a ru lampione?»(Più probabile che si sia espresso in questi toni, anziché «Chi si vuol comprare la ventresca del figlio di don Titta che sta appeso al lampione della Sottointendenza» come si legge in ANTONIO MARIA MATTEI, Isernia – Una città ricca di storia, Vol. II (dai Borboni al 1984), Isernia 1992, p. 963.)
Lasciato il popolo ai suoi divertimenti, la testa della reazione è al lavoro: Gennaro De Lellis manda una staffetta a Castel di Sangro, da tale Don Vincenzo Fiocca, perché faccia arrivare a Pateras notizia dei tumulti di Isernia. Come già interpretato dai contemporanei, è un depistaggio:
«Con tale lettera costoro intendevano al doppio scopo di sedurre il Fiocca perché avesse influito allo scoppio della reazione nel suo paese, sotto finta di avvisarlo di quanto era avvenuto qui ad Isernia, e, in pari tempo, si voleva intimidire e scoraggiare il Comandante Pateras a non muovere sopra Isernia, dove avrebbe trovato a fronte una reazione formidabile.»(Sunto del processo a carico di Vincenzo Di Ciurcio, cit.)
Scongiurata una rapida risposta garibaldina – del resto difficilmente configurabile: i Cacciatori sono impegnati nel basso Abruzzo a fronteggiare gli irregolari di Klitsche de la Grange, come pure i volontari di Francesco De Feo – occorre attivarsi per avere in città un presidio di truppe regolari.
Attesi già per il primo ottobre, i gendarmi di De Liguori si fanno vanamente aspettare anche per il giorno successivo. Il 2 ottobre, viene spedito a Venafro Giuseppe Pietrangelo con l’ennesima lettera di invito a muoversi. «Salutami a monsignore e Don Gennaro» – risponde il maggiore – «che se non mi spiccio qui non posso venire, ma che stiamo ad ore.»(Deposizione di Giuseppe Pietrangelo, in ANONIMO [ma Stefano Jadopi], Epitome cit. p. 60)
È la sera del 3 ottobre che finalmente arrivano – pochini, in realtà –
«…i tanto aspettati e sollecitati gendarmi al numero di cento. Monsignor Saladino riuniti i ribelli nella sala episcopale diceva loro “la Madonna aver fatto il miracolo mandando i gendarmi a proteggere il movimento”. E bisognava esser sicuri, ché preservate poche famiglie, le rimanenti dovevano soggiacere a carcerazione ed altro, perché erano nemici del re e della religione. In tal modo la città finalmente ebbe conferma di chi la reggesse, ed i liberali si videro a fronte non un popolare ammutinamento, ma un’organizzata, diretta e trionfante reazione.»(ANONIMO [ma Stefano Jadopi], La Reazione cit., p. 25.)
FONTE
PONTELANDOLFONEWS.COM