IL BRIGANTAGGIO di FRANCESCO PAPPALARDO
Il 6 agosto 1993, nel quadro del convegno su La contrarrevolución legitimista (1688-1876), organizzato dall’Università Complutense di Madrid a San Lorenzo de El Escorial, Francesco Pappalardo ha tenuto una relazione su Il brigantaggio.
Nel Grande Dizionario della Lingua italiana, alla voce brigantaggio si legge: “L’insieme delle azioni delittuose (contro le proprietà private e le persone) compiute da bande di briganti, a mano armata”(1). Brigante è colui “[…] che vive fuori legge e alla macchia (spesso in bande organizzate) compiendo rapine a mano armata e taglieggiando le persone e la proprietà privata; bandito”; sul piano storico brigante è anche il soldato, generalmente appartenente a “piccole compagnie di ventura”, e il partigiano: “Da brigare, “mettersi nella lotta, combattere””; se questo termine “[…] anticamente significava un soldato a piedi”, ora designa “gli assassini, i fuorusciti ed i nemici dell’ordine pubblico”(2). Nella storia della parola, dunque, “[…] si possono individuare due momenti distinti: il significato antico sostanzialmente positivo, e quello più recente, che, sorto da una degradazione del precedente, assunse sempre più quella connotazione di “fuorilegge”, che oggi prevale. Per il Lissoni questo senso moderno […] sarebbe proprio del francese brigant (e, quindi, da rifuggire), come lo è il derivato brigantaggio, dal francese brigandage, fin dal 1410″(3). Infine, il termine brigante ha acquistato anche un significato ideologico ed è stato adoperato per indicare in senso spregiativo quanti si sono opposti con le armi alla Rivoluzione: il “[…] nome di briganti è stato dato per esempio ai Vandeani realisti durante la Rivoluzione francese”(4); Giuseppe Boerio, autore di un Dizionario del dialetto veneziano, stampato a Venezia nel 1829, conferma per l’Italia l’uso del neologismo semantico: “Con tale nome erano comunemente chiamati nell’anno 1809 coloro che nelle varie nostre provincie si sollevarono”(5) contro l’esercito rivoluzionario francese. In questa sede uso il termine brigantaggio per designare la reazione armata delle popolazioni italiane contro il nuovo ordine rivoluzionario, in contrapposizione alla parola banditismo, che indica la “[…] ribellione di piccoli gruppi armati intesi a colpire nella loro ricchezza le classi agiate senza la prospettiva di rivolgimenti politici”(6). Il banditismo è la manifestazione di una patologia sociale diffusa nei tempi e nei luoghi più diversi. Nell’ambito della civiltà occidentale caratterizza l’epoca medievale e moderna, ma non può essere liquidato sempre come un fenomeno di semplice delinquenza. Le convulsioni sociali nell’Europa del secolo XVII, che hanno fatto parlare di una sorta di epoca delle rivolte, sono molto spesso un sintomo dell’incapacità dello Stato moderno di svolgere una efficace funzione mediatrice fra i vari ceti sociali, soprattutto nella prima fase della sua formazione. In particolare, l’aumento rilevante della pressione fiscale, che caratterizza quel periodo, colpisce l’intera gamma della società e della vita economica ed è la causa scatenante delle grandi rivolte del Seicento. Nel contesto europeo il Mezzogiorno d’Italia non presenta la serie di sommosse contadine che accompagnò la diffusione della riforma protestante ed è toccato in misura ridotta dall’ondata di agitazioni popolari che caratterizzano altri Stati nel secolo XVII. L’unica rivolta degna di rilievo è quella capeggiata da Tommaso Aniello, detto Masaniello, nel 1647, con la quale però la popolazione non intendeva “[…] chiedere né ottenere la soppressione del regime feudale, ma solo il suo contenimento entro i limiti della legalità, della tradizione e dell’equità”(7). Il banditismo in senso stretto è stroncato dalla grande azione svolta dal vicerè, marchese del Carpio, fra il 1683 e il 1687 (8). Nel secolo XVIII, la protesta popolare si inasprisce in seguito al graduale stravolgimento dei rapporti di proprietà nelle campagne, ma “[…] la lotta per la terra — ammette uno storico di ispirazione marxista — è condotta esclusivamente in nome del rispetto degli usi civici tradizionali e della difesa del demanio”(9). Infatti, l’abbandono delle campagne da parte della nobiltà da un lato favorisce l’ascesa di amministratori rapaci e di nuovi proprietari terrieri, che portano con sé la durezza e la fiscalità proprie del capitalismo liberale; dall’altro lato provoca la rottura di quel contatto esistenziale, di quella omogeneità culturale, di quella solidarietà fra signori e contadini che erano state le caratteristiche fondanti dell’antico regime. La reazione popolare, sul finire del secolo, non è perciò anti-feudale e neppure anti-aristocratica — se non dove la nobiltà era venuta meno alla sua funzione di mediazione e di comando —, ma rivolta contro la nuova mentalità rivoluzionaria, che imponeva un’economia senza vincoli corporativi e senza remore morali, infrangeva i legami esistenti fra i diversi ceti della nazione e veicolava una cultura estranea e avversa alle tradizioni civili e religiose del paese.
da: “CRISTIANITA’” n. 222, 1993
NOTE
(1) Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua italiana, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1962, vol. II, voce Brigantaggio, p. 375.
(2) Ibid., voce Brigante, p. 376.
(3) Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1979, vol. I, voce brigànte, p. 166.
(4) Trésor de la langue française. Dictionnaire de la langue du XIX et du XX siècle (1789-1960) publié sous la direction de Paul IMBS, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, Parigi 1975, vol. IV, voce Brigand, p. 958.
(5) M. Cortelazzo e P. Zolli, op. cit., p. 166.
(6) Alfonso Scirocco, Briganti e potere nell’Ottocento in Italia: i modi della repressione, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, anno XLVIII, 1981, p. 81.
(7) Giuseppe Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di Percy Allum, Laterza, Bari 1978, p. 131.
(8) Il Mezzogiorno esce da due secoli di dominazione spagnola in condizioni ben lontane da quella immagine di miseria e di degrado che viene comunemente offerta. Fondamentale per la conoscenza della Napoli spagnola è ancora l’opera di Francisco Elías de Tejada y Spínola, Napoles Hispanico, 5 voll., Montejurra, Madrid e Siviglia, 1958-1964.
(9) Rosario Villari, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna, Laterza, Bari 1977, p. 137.